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Un brutto sogno
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Un brutto sogno

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Un giovane factotum senza velleità, uno sfaccendato senza aspirazioni, un anziano scrittore senza ispirazione, e infine una donna consumata da un male interiore.
Sono i quattro personaggi attorno a cui ruota questo romanzo noir pubblicato postumo nel 1951, in cui troviamo sia le pagine di "letteratura morale" care all'autore francese quanto pagine degne dei thriller più avvincenti, fino all'angosciante finale.
Bernanos iniziò "Un mauvais reve" nel 1934, con l'esplicito intento di rifarsi alle opere di Georges Simenon, per cui nutriva una grande stima (ricambiata) senza rinunciare al suo stile personale. Dopo diverse interruzioni – che lo portarono a scrivere altri due romanzi "neri", Un delitto e Il signor Ouine", arrivò a concluderlo poco prima della sua morte. 
LanguageItaliano
Release dateJan 8, 2019
ISBN9788899403669
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    Un brutto sogno - Georges Bernanos

    PARTE PRIMA

    I.

    Lettera di Olivier Mainville a sua zia

    Mia cara zia,

    avrei dovuto scriverti in occasione del fidanzamento di Hélène e il tempo passa, passa. Venti giorni nella vostra Souville, venti giorni tutti uguali, con la loro somma precisa di ore, di minuti, di secondi (senza contare che l’orologio della parrocchia deve farti un trattamento di favore, tredici ore invece di una dozzina magari, chi lo sa?) venti giorni di provincia, insomma, sono qualcosa. Si strappano dal calendario a manciate i giorni, si gettano via appena appassiti per averne immediatamente altri, nuovi. E a nessuno viene in mente di controllare il totale. A quale scopo? Dio è esatto. Così, quando mi vieni a chiedere di dirti come occupo il mio tempo, ti ammiro. Il solo punto fermo di questo mio variabile diorama è sempre, da dicembre in qua, la visita di ogni giorno al signor Ganse, cosa che tu chiami tanto bizzarramente il mio segretariato. Segretario singolare! Arrivo ogni pomeriggio alle tre in punto. Fumo qualche sigaretta in compagnia del Maestro fino alle cinque. Mentre discorriamo (ascolta con avidità, cinicamente, è curioso di tutto, con certe espressioni di meraviglia quasi ingenue, direi, certi modi bruschi di riprendersi assolutamente sconcertanti, da farti arrossire) la signora Alfieri, la prima segretaria, finisce di copiare in bella le pagine dettate la mattina. Dopo, devo rileggerle al Maestro, il quale incomincia a scrollare le spalle, si irrita e alla decima riga mi prega di lasciarlo in pace.

    A questo punto rimane di pessimo umore in genere per venti minuti, si lamenta del freddo, del caldo, del rumore della strada, se la prende con la segretaria per il suo profumo preferito.

    Che orrore, poverina, sembra l’odore di quei bastoncini sospetti che le ragazze di Costantinopoli ci mettevano in tasca, dopo averli usati tutti i giorni da stuzzicadenti!

    A questa uscita, o a qualche altra non meno volgare, la signora Alfieri si accorge che il suo giorno di lavoro è finito: guarda il pendolo, chiude a chiave il cassetto del suo piccolo scrittoio e sparisce come un’ombra. Per quanto presto io esca dietro di lei, e per così dire alle sue calcagna, non la incontro mai nell’anticamera, probabilmente passa attraverso il muro.

    Una donna adorabile! In mezzo a questi tipi sfrontati, a volte odiosi, in questa casa aperta a chiunque, come l’atrio di una stazione, è l’unica presenza silenziosa, vigile, il solo sguardo sincero. La si distingue appena, al primo momento, da quanto la circonda, e quando la si scorge, così fine, così minuta, sembra che tanta grossolanità debba schiacciarla, ma la sua semplicità trionfa su tutto. In questo ambiente di letterati dove l’invidia nella sua forma più cruda, a dispetto di una infinità di smorfie, rimane il solo diversivo dell’oziosità, l’unico pericolo, ella non offre ostensibilmente alcuna presa alla malignità degli imbecilli. Pochi, io credo, sarebbero capaci di odiarla e nessuno fra noi, certamente, si sognerebbe di umiliarla. Meraviglioso silenzio intorno a questa donna senza cipria e senza belletto, vestita di nero, meravigliosa protezione invisibile! È impossibile vivere con maggior semplicità, come in una luce uniforme e temperata, ma diffusa ovunque senza nessun cantuccio d’ombra, eppure la venerazione che ella ispira non è esente da una certa angoscia, appena percettibile, come una increspatura sulla superficie dell’acqua. È felice? Non è felice? Si vorrebbe ardentemente che lo fosse; ma, in sostanza, perché lo si vorrebbe? Forse perché il suo sguardo, la voce tranquilla, e perfino quel suo modo di chinarsi quando le si parla, di proiettarsi impercettibilmente in avanti, di starti di fronte, ogni suo gesto insomma, sembra l’espressione di una bontà profonda, discreta, di una perenne vigilanza del cuore.

    Nessun dubbio, tuttavia, che abbia sofferto. E nessun dubbio che la sofferenza sia stata all’altezza delle sue forze, della portentosa resistenza morale di cui si sente capace. No, no, non la gioia, certo, ha modellato questo volto commovente! Ma neppure la disperazione, la vera disperazione, quella che fa cadere le braccia, scioglie le mani, la disperazione vera con la sua smorfia dolorosa è mai riuscita a incidere un solco sulla fronte sempre liscia, tonda come quella di un bambino. Questa bocca, neppure nel sonno profondo, ha mai tremato di sfinimento, di angoscia, di quel puerile scontento che prelude ai grandi crolli dell’animo e segna chiunque di noi con stigmate incancellabili, con un marchio che ne offuscherà la purezza.

    Non rimpianto, non rimorsi, nessun ricordo di ostacoli superati, nessuna preoccupazione di ostacoli futuri, soltanto una pazienza infinita, una pazienza che in lei sola (scusami, ti prego) mi sembra una specie di santità. Il fatto è che la signora Alfieri vive davanti agli occhi nostri una vita pienamente, francamente umana, umana e niente di più, ma noi, senza dubbio, soltanto di quando in quando e nel breve spazio di un lampo ne afferriamo le proporzioni ammirevoli, la norma un poco austera, ma tutta segreta e che l’intuizione dell’amicizia sente perfetta, completa, un capolavoro ignorato, simile a tanti altri, fatti dalla natura per se stessa, con inutile prodigalità.

    Cosa strana, qui si incontra una massa di persone famose, o semplicemente supposte tali, il cui presente è di pubblico dominio: vi attinge chi vuole. È molto se si nascondono per dormire, ma anche le loro meschine intimità notturne sono la favola delle cucine e dei salotti, una proprietà di tutti. Eppure il loro passato rimane misterioso quanto quello dei faraoni. Da dove vengono? da dove saltano fuori? Il passato della signora Alfieri, invece, è noto a tutti, ma il presente ci sfugge. La povertà estrema, la nausea di una società nella quale un tempo ha brillato, per sua sventura, non spiega che abbia scelto (e ha scelto lei infatti) questo lavoro senza rilievo, ingrato, vicino a uno di quegli uomini di lettere, di quei mestieranti della penna, come tu dicevi un tempo, dall’indole tanto grossolana che neppure il genio potrebbe dirozzarla. Françoise ti avrà detto che è stata per due anni la moglie di un vecchio avventuriero italiano, gran frequentatore di bische e di palazzi che l’aveva incontrata per caso ad Aix-les-Bains dove era andata a riposarsi presso una zia, dopo un insuccesso al primo esame, nel concorso di immatricolazione. Come vedi, cara zia, un cattivo matrimonio, o semplicemente mediocre, quanto di peggio tu immagini per una donna, la disgrazia delle disgrazie, il naufragio, la rovina completa.

    Come mai, tuttavia, mi è impossibile pensare all’infelice unione della mia amica, senza provare niente altro che un sentimento confuso, più di pietà che di rabbia, per quel debole e ridicolo tiranno, per il fatuo carnefice il quale, credendo di accanirsi contro un avversario indifeso, alla fine ha distrutto soltanto se stesso? Povero conte Alfieri! Edmond sostiene che assomigliava a un levriero, una lunga bestia carezzevole con occhi d’uomo. L’ha visto sul letto di morte, con la tempia forata. Il medico, un amico o forse qualcosa di più, era riuscito a nascondere l’enorme ecchimosi con uno strato di belletto, e a chiudere il foro con un poco di cera…

    Mi pare di udire la signora Louise dirti: «Suo nipote è pazzo per la signora Alfieri…». Santo cielo, la gente di qui, è vero, mi dà un fastidio insopportabile: oso appena esprimerlo, me ne vergogno. E, senza vantarmi, per differenti ragioni, lei e io dovevamo finire col simpatizzare senza volerlo, le mostre disgrazie si assomigliano. La nostra amicizia è profondissima, credo, quasi amorosa, eppure non parliamo mai, o raramente, delle cose che ci piacciono, la musica, per esempio. Di comune accordo ci limitiamo agli unici argomenti di conversazione veramente possibili, veramente neutri: il nostro lavoro, il nostro assurdo e assillante lavoro di tutti i giorni. Perché, sai, è proprio un tipo straordinario questo Ganse! Quando si crede Balzac e appoggiandosi di spalle al caminetto (la pancetta che spunta sorniona tra la cintola e il gilet di seta a righine) spiega alle belle signore che è casto come l’altro, come Emile Zola, e in virtù di quale mirabolante disciplina mentale, veramente c’è da morire dal ridere.

    Vedo già fremere la punta del tuo nasetto sottile: so quanto ti piacciono le storie un tantino scurrili. È spassosissimo a vedersi anche quando tenta di fare il libertino tipo Reggenza presso qualche compassata duchessa. Nessuna possibilità di conservarsi impassibili neppure quando ritorna a essere quello che è, stringe i pugni, e a capo fitto si butta nell’argomento di un nuovo libro come un bruto, senza la minima riflessione, sicuro della propria forza.

    Avresti un bel dire o pensare segretamente: Puah! è soltanto un romanziere popolare, uno Zola superiore. Macché popolare! Al solo contatto con un tale semplicione, l’aspetto corporeo del signor Thérive si squaglierebbe istantaneamente, lasciando soltanto una pozza di materia oleosa e, sopra, un paio di baffi galleggianti. Sì, sì, conosco le tue preferenze, Jacques Rivière, per esempio, non importa! vi è però qualcosa di commovente nello spettacolo di un vecchio scrittore, accanito a produrre a qualunque costo, a schiacciare i giovani rivali sotto un cumulo di carta stampata. E pensare che io faccio tanta fatica a portare a termine un racconto montato pezzo per pezzo con la lente all’occhio, perno per perno come un cronometro! A dispetto dell’odio crescente dei raffinati (i quali non gli perdonano la pretesa di ostinarsi mentre ogni suo libro nuovo denuncia il cedimento, purtroppo ormai senza rimedio, di un genio fatto per i lavori sbozzati, la pittura violenta e sommaria, e tuttavia sagace, del Desiderio), l’autore dell’Impure rimane temibile (per quanto tempo ancora?) come all’epoca dei suoi primi trionfi, quando, lanciato senza freno in un bel mondo del quale nella sua magnifica presunzione ignorava tutto e desiderava tutto, egli ne prendeva possesso. Vi si sbizzarriva come un selvaggio a rischio di dare fondo in pochi mesi alla sostanza futura dell’opera sua, e sempre fiutando e scavando, a volte gabbato, a volte complice, con certi enormi controsensi, certe grossolane sciocchezze che fanno ridere, scopriva d’improvviso, per miracolo, il fatterello unico, riconosciuto subito fra mille, d’istinto, il solo fecondo in mezzo a tanti altri, magari più singolari, più brillanti, ma sterili, l’episodio magico, lo spunto unico sul quale subito si impernia l’argomento. Un argomento! Ha un modo di pronunciare questa parola da sgominare a colpo sicuro l’insolenza calcolata dei colleghi, il loro gelido sussiego. L’argomento! Il suo argomento! Ancora oggi che in lui la curiosità sopravvive alla potenza creativa, quando divora con gli occhi di lontano ciò che la fantasia infiacchita, satura, non feconderà più, oggi che il suo spaventoso lavoro è divenuto il dramma di tutte le mattine e di tutte le sere, con alternative di euforia traditrice, di furore, di angoscia, la parola argomento sembra svegli in lui soltanto l’idea dell’abbrancare e del rapire, egli ha l’aria di volervi chiudere sopra le sue manacce.

    Non rispondermi, con la tua solita ironia, che vedo il Maestro attraverso la sua segretaria e scrivo sotto la sua dettatura. Saresti lontana dal vero. Ella, anzi, non parla quasi mai di lui. Appena un sorriso, uno sguardo, una parola scambiata con me fra due porte, un sospiro di ammirazione, o di compassione, talvolta di disprezzo o di collera. D’altronde io li vedo, per così dire, insieme soltanto a giornata compiuta, al momento della copia. Più spesso lavorano tutti e due, ognuno per conto suo. È una collaborazione davvero non comune. Dura da dieci anni e Philippe, sempre cattiva lingua come al solito, assicura che la segretaria è divenuta indispensabile e potrebbe, senza rimorso, firmare col proprio nome gli ultimi libercoli. Si dice anche… ma questo, vedi, questo mi fa ridere. La verità è che il Maestro non arriva a soddisfare gli editori, si impone quanto orribilmente chiama una produzione sistematica, tante pagine al giorno, un lavoro da galeotto: cinque fogli del romanzo in corso, tre fogli di una di quelle novelle qualsiasi che pubblica sui giornali, senza parlare della corrispondenza.

    Così, naturalmente, si risparmia più che può. E, per esempio, non crea i suoi ambienti, va a cercarli sul posto, di città in città, tanto di risparmiato per la meravigliosa macchina che scricchiola! Una parola lasciataci sul tavolo ci ordina di rinviargli la corrispondenza fermo posta a Chàlons, a Brest, a Biarritz, o in qualche ignota borgata o al diavolo, e soltanto la signora Alfieri lo accompagna durante questi misteriosi spostamenti. Vanno unicamente alla ricerca degli ambienti di sfondo o alla ricerca dei personaggi? Lo sa Dio! In questo caso, e a giudicare dalla qualità dei personaggi, devono frequentare, come dici tu, un mondo birbone!

    Se ti racconto questi pettegolezzi, è prima di tutto perché ti piacciono, vero? Non è facile suscitare la tua meraviglia e quando mi dici che devi a mio zio la tua fredda impassibilità di fronte al bene e al male, mi fai ridere. Di sicuro sei nata come sei, non si riesce neppure a immaginarti diversa. Mi hai scritto che mi illudo sul conto tuo, che non è un grande merito prendere quanto non appartiene a nessuno, il cuore di un povero orfano, disavvezzo alla tenerezza, ridotto un tempo a confidare i suoi primi sogni al grembo sudicio del rettore del piccolo seminario di Menetou-Salon, al grembo di quella tonaca leggendaria, seminata di briciole di tabacco! Ciononostante avrei potuto cercarla un pezzo una zia della tua età, capace di condividere la mia ammirazione per Gide e per di più assolutamente insospettabile di snobismo, quella ammirazione che piacerebbe al nostro caro vecchio Maestro perché è tutta segreta, tutta interiore, e perché non ti impedisce di dispensare regolarmente il pane benedetto e perché gelosamente non ne lasci intravedere nulla agli imbecilli. Devono essere esistite così, un tempo, per comodità dei nipoti, certe zie gentilmente volterriane, in fondo a deliziose case di provincia, fra una governante devota e un grosso curato scontroso che citava il signor di La Harpe, il signor di Saint-Pierre, oppure il signor Louis Racine, figlio… Certo, non intendo essere irriverente alla memoria di mia madre (via! via! so che non vi amavate troppo), ma insomma ho bene il diritto di dubitare che avrei potuto parlarle della signora Alfieri così liberamente come con te. E tanto meno avrei osato presentargliela mentre… mentre, protesta pure quanto e come vorrai, nelle prossime vacanze…

    Non darti più la pena, dunque, di insinuare in un poco di perfidia, come nella tua ultima lettera, che i giovani di oggi ti sconcertano e che tutto il loro cinismo riesce soltanto a gettarli, come semplici innocenti, fra le braccia di donne quasi mature. Vi è però qualcosa di vero nelle ultime righe della tua requisitoria. Le giovani mi irritano. Mi annoiano. Infastidiscono tutti noi. E prima di tutto il loro preteso cameratismo ci impone astutamente servitù più pesanti di quante abbiano mai subito i nostri padri. Poi con le loro moine e le loro smorfie sono orribilmente romantiche, non riescono a mettersi in mente che noi bastiamo benissimo a noi stessi, non abbiamo affatto bisogno di ricorrere ai loro buoni uffici per riconciliarci col nostro piccolo io che ci è caro. Che ci è caro com’è, dalla pianta dei piedi alla radice dei capelli, anima compresa, se questa ha il suo posto in qualche parte. Col tempo, purtroppo, può darsi lo prendiamo in uggia, ragione di più per godere di questa luna di miele con noi stessi, non è vero? Noi prima di tutto. Sono sicurissimo che tutti i giovani hanno pensato in questo modo dal principio del mondo, ma non hanno il coraggio di dirlo. Gli si imbottisce il cervello, d’altronde, con una quantità di asinerie sulle giovani, di similitudini poetiche tirate fuori dalla ornitologia, dalla mineralogia, dalla floricultura, guance vellutate di pesca, occhi di brillanti e così e cosà, tutta la primavera, tutta la purezza, tutto il mistero.

    Quanto a loro, ammirino umilmente con la fronte nella polvere, perché sono brutti, perché appartengono al sesso brutto come dice il caro vecchio balordo papà Léon Daudet che probabilmente non ha mai, dopo Luigi il Grande, perduto l’abitudine di disegnare donnine nude sui margini dei suoi quaderni.

    Che si sia fatto credere questa roba a certi poveri tipi i quali andavano allo stabilimento dei bagni soltanto una volta al mese e dai dodici ai diciotto anni infrollivano sotto la maglia di lana la loro pelle di pulcini, sia pure! Noi, zia cara, sappiamo di essere belli e il nostro mistero, per lo meno, vale il loro. Dunque,

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