Il diavolo è un giocattolaio
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Book preview
Il diavolo è un giocattolaio - Stefano Falotico
Indice
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
Il diavolo è un giocattolaio
di
Stefano Falotico
Copyright © 2018 Stefano Falotico
Immagine di copertina di Yasmeen Coccettini e Giulia Cocchi
Foto by Yasmeen Coccettini
Model by Giulia Cocchi
ISBN: 9788827864043
Youcanprint Self-Publishing
Qui narrerò i fatti cupamente macabri dei quali fui protagonista anni fa, nel mesmerico turgore dilaniante di notti infinitamente insonni, in cui smarrii il senno perché con ostinazione e caparbio coraggio indomito la mia anima fu pervasa dallo strazio più glaciale e malvagiamente esiziale, poiché esplorai zone perturbanti della più maligna e subdolamente folle bestialità umana, n’annusai orridamente i mordaci fremiti sanguigni macchiati di abominevole, mostruoso raccapriccio, e mi spinsi laddove nessun uomo dovrebbe mai recarsi, ovvero nell’antro più nero della perversità più terrorizzante. Perché io, investigatore privato senza mai fissa dimora del mio battagliero cuore, tanto caddi sciagurato nei perfidi meandri cupidi del depravato abominio umano che il fulgore adamantino dei miei occhi puri, destatisi in tanto gelido orrore, si squarciò sbranato dalla potenza agghiacciante del pervertimento disumano profondo e indelebilmente afflittivo che vissi in quegli anni interminabilmente spaventevoli e tremendi.
E ancor quando mi sveglio, scotennato d’invitta paura lacrimante, al mattino tremo dell’aberrante, impietosa mia strangolante discesa negli inferi lancinanti del più crepitante, vivo, inumano terrore a cui assistetti atterrito e del quale intrepidamente m’accingo a narrarvi, seppur a tal oblio coraggioso resistetti, vinsi e sopravvissi e sebbene nell’animo mio, per sempre brutalmente infettatone e ferito, rimarrò eternamente addolorato e crudamente, crudelmente martoriato.
1. Venezia placida come organza e seta profumata d’odore lieve di morte
Eccomi qui, come ogni mattina a sfogliare il giornale su questa panchina desolata che affaccia sul Canal Grande.
Sfiorato da quest’albeggiante aurora sinuosa, scremato nelle onde da un leggero vento che fresco fischietta alle mie orecchie, congelato son sempre rattrappito dalle mie spericolate ansie, morbidamente cullato dalla nostalgia scrosciante d’imperituri giorni monotoni e nauseanti. A tracimar noia con sguardo miserevole e a chieder compassione, elemosinante a testa china un po’ di umanità, persino mia perduta, agli occhi spenti di gente più triste di me. Che vagabonda passeggia per prender aria o già si avvia al lavoro, sostando a questa solitaria fermata del traghetto che li condurrà a uffici ben piantati coi piedi per terra. Come le loro esistenze piatte e mortificate nell’aridità glaciale di ore impassibilmente uguali, che s’iterano già rabbuiate dalla nascita nel lascivo lasciar che la vita loro pigra e amaramente deglutita scorra svenevolmente intorbidita, flaccidamente ai padroni asservita in puro, osceno sfoggio prostituente dei lor cuori miserrimi. Tronfi e pedanti, asfissiati persino da banali brame e da carnali ambasce. Sì, strozzati in ogni loro strangolato respiro, aspettano forse soltanto una vana speranza mendace e ancor più lerciamente ruffiana dei loro isteriliti cuori.
Mentre i miei occhi si disperdono ad ammirare la vastità del mare che, da questi increspati canali ondosi, si stende nel crepuscolo cheto di tal mattino mortifero. I raggi solari scivolano sulla superficie marina, solleticando il vento col loro primo, morbido manto caldo di questa giornata che sarà certamente afosa.
Ecco che, mentre sono distratto dai miei pensieri ronzanti nell’atmosfera, su questa panchina umida, ancor lastricata dalla pioggia battente della scorsa notte ammaliante col suo temporale romanticamente seducente, accanto a me si siede un uomo.
Indossa un cappello e, in giacca e cravatta, posa la sua ventiquattrore a terra, accavallando le gambe.
- Buongiorno, posso sedermi?
- Invero, si è già seduto. Certo, la panchina non è di mia proprietà, non vedo perché non potrebbe sedersi.
- Sa, la vedo ogni giorno. Passa ore e ore seduto qui, in riva al canale.
- Scusi, lei chi è? Mi spia, per caso?
- Mi presento, il mio nome è Phileas Piper, commesso viaggiatore. Da qualche mese, sa, sto sostando qui a Venezia. Non si era mai accorto di me? Sa, non le credo. Mi sembra una persona sveglia, impossibile che non mi abbia mai notato. E, come ogni mattina, sto andando al lavoro. Ma oggi il mio turno inizia un po’ più tardi del solito, quindi se non le dispiace, vorrei intrattenermi a fare quattro chiacchiere con lei. Non vedo quasi mai nessuno, assorbito come sono da questo maledetto lavoro che mi sta mangiando vivo.
- No, a dire il vero è la prima volta che la vedo.
- Davvero? E dire che passo davanti a lei, che sta sempre piantato su questa panchina, ogni santa mattina. Ma forse era preso dai suoi pensieri e le persone che le passano davanti neanche le vede. Per lei siamo tutti invisibili, ci siamo, camminiamo, c’imbarchiamo, osserviamo il mare trasognanti come la rovente ammirazione maschile degli uomini verso le impudiche gambe tornite e affusolate di donne bellissime che cadenzano il loro erotismo su caviglie nude sorrette da leggiadri tacchi a spillo, ci squagliamo nei silenzi notturni, avvolti dalla nostra condizione umana, ma in fondo siamo tutti soli in questo mondo abbandonato da dio. E più soli siamo e meno siamo avveduti poiché dalle nostre intemperie esistenziali veniamo distratti. O forse, proprio quando siamo soli, affiniamo di più la curiosità e lo