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La Fabbrica Di Coccodrilli
La Fabbrica Di Coccodrilli
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La Fabbrica Di Coccodrilli

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Primi anni Ottanta, una scuola elementare alla periferia di Roma. Nel giorno del suo compleanno, il ciccione Marrozzi, ricco rampollo del titolare di una nota catena di pizzerie locali, si presenta in classe con al guinzaglio un enorme coccodrillo che si comporta come un cane e si nutre di pizza. Quali segreti nasconde questa, apparentemente innocua, ostentazione? A scoprirlo sarà Carlo Bugelli, un ragazzino del ceto medio, compagno di classe e aspirante nemesi, del padre del ciccione Marrozzi, cinico capitalista della pizza, assetato di potere. Ma spudorato al punto da risultare simpatico e capace di suscitare ammirazione. Così la storia si evolve su due piani contrapposti: quello politico, in cui la famiglia Marrozzi rappresenta una sorta di destra populista e arrogante, ma concreta, e la famiglia Bugelli una sinistra intellettuale e idealista, ma sognante; quello dell’intreccio, che sconfina nell’irreale, presupponendo una complicità da parte del lettore, e quello su cui si muovono i personaggi, una Roma anni ottanta, ricostruita sui ricordi di vita vissuta dell’autore, in cui trovano posto anche alcune personalità e fatti di cronaca del tempo. E naturalmente c’è anche una lezione morale, come sempre nelle storie di bambini quando raccontano il mondo degli adulti.
LanguageItaliano
Release dateDec 19, 2018
ISBN9788869631894
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    La Fabbrica Di Coccodrilli - Lukas Bernardini

    Lukas Bernardini

    LA FABBRICA DI COCCODRILLI

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2018 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869631894

    Quel giorno era il compleanno del ciccione Marrozzi, che era così grasso perché suo padre possedeva chissà quante pizzerie, forse dieci, forse venti o cento, fatto sta che a Roma non si diceva più vado a farmi una pizza, perché ormai era diventato mi faccio una Marrozzi coi funghi e la besciamella! Mi faccio una Marrozzi special col lardo e le zucchine! Mi faccio una Marrozzi al gambero verde di palude!, e questo ciccione Marrozzi se ne mangiava a migliaia di quelle pizze e non ci stava mica antipatico per quello, ma perché se le portava a scuola, sette otto pezzi tutti i giorni e delle più care, come la Marrozzi al pescetto filiforme del Caucaso o quella al microrganismo gigante dei laghi alle pendici del Dawson Creek, che detto fra noi per me erano tutte balle colossali, frutto della fantasia di qualche pizzettaro suonato, e comunque il ciccione Marrozzi se ne riempiva la cartella, di quelle pizze, che non c’entravano nemmeno i libri, e i quaderni gli si impiastricciavano tutti, una volta la maestra gli prese il quaderno per vedere il compito e ci trovò dentro, fra una pagina e l’altra, un’intera Marrozzi al fico pigmeo di Manila tutta spiaccicata e da buttare insieme a tutto il quaderno, e tutti pensammo che inutile spreco e così ci stava antipatico il ciccione Marrozzi perché delle sue Marrozzi non ne dava mai a nessuno, tranne a volte una mezza fetta da dividere fra tutti i compagni della Marrozzi classica, che delle Marozzi era la più povera, e se la portava apposta per noi perché era l’unica senza niente né sopra né dentro, un pezzaccio di pane salatissimo che serviva solo a farti venire sete e a metterti ancora più fame. Poi, neanche a dirlo, in quel tempo mia madre attraversava un periodo macrobiotico e io me la sognavo la Marrozzi perché a casa mangiavo zucchine ripiene di miglio e hamburger di grano saraceno, e ricordo mio padre che finito di cenare diceva sempre – Ecco, adesso io potrei mangiarmi tranquillamente un pollo arrosto da solo!

    E capisco che abbia sofferto ma era nulla al confronto di andare a scuola con quattro fettine di pane di segale, una mela, e due fichi secchi, quando c’era uno come il ciccione Marrozzi che ti mangiava davanti e ogni morso lo accompagnava con una smorfia e un mugolio di piacere. Credo che più di me soffrisse il solo Fabian, che per cognome faceva Kraustofel e per merenda si trovava tutti i giorni tre strisce di peperone crudo in un pezzetto di stagnola, non so che razza di periodo attraversasse sua madre ma per fortuna alla mia famiglia non toccò mai nulla di simile.

    Insomma questo ciccione Marrozzi quella mattina si presentò a scuola con quanto di più straordinario si fosse mai visto nella nostra città, e il primo a risentirsene fu Giulio Ricciardi, quello che parlava con tutte le consonanti fuori posto perché era nobile e noi lo chiamavamo Vicciavdino perché si dava certe arie, che a scuola due settimane prima c’era venuto con un cagnoletto peloso tutto profumato e infiocchettato che non si capiva se si chiamava Fifì o Sissi tanto se lo diceva Vicciavdino suonava uguale, e adesso era lì che si rodeva d’invidia a guardare il ciccione Marrozzi e a pensare a quel suo stupido canetto nobile che ormai non lo avrebbe guardato più nessuno. La seconda a rabbuiarsi fu Rebecca e nessuno le fece caso, perché il mondo è così strano, a volte, che la bambina più bella di tutte, una che a guardarla sentivi le campanine di Natale e le canzoncine di Biancaneve, lei che non sorrideva mai ma se sorrideva tutto si metteva a brillare e sembrava che il cielo si colorasse di tutti i colori quando la mattina all’appello chiamavano il suo nome, Rampoldi, e lei con quella vocina da coniglio rispondeva Presente! e io mi dovevo reggere il cuore per non farlo scoppiare nel petto, e pareva che il solo ad accorgersi di lei fossi io, per gli altri era come un muro invisibile che le sbattevi addosso e rimanevi sorpreso di non vedere nessuno, e io dicevo imbecille che non sei altro ma come fai a non vederla? Ma quel giorno Rebecca era triste perché nessuno parlava più della sua tartarughina Valeria. E dire che una settimana prima quella specie di maggiolino a rallentatore aveva fatto sì che a Rebecca qualcuno finalmente rivolgesse la parola e la guardasse per bene, e io mi ero arrabbiato tanto, perché, dico, tutto questo tempo a soffrire e per cosa? Perché una stupida tartarughina arrivi e da sola faccia tutto quello che lei per anni non ha mai fatto, o per lo meno ha fatto solo con me, cioè la seduzione? A quel paese lei e la tartaruga!

    Comunque il terzo che se la prese a male nel vedere il ciccione Marrozzi col regalo di compleanno che gli aveva fatto suo padre fui proprio io. Perché il ciccione Marrozzi arrivò più tardi del solito, quella mattina, e quando arrivò mi stavano tutti intorno, tutti a guardare il mio rospetto Gerillo, che era piccolo e bruttino ma molto più simpatico e atletico del cane di Vicciavdino e della tartarughina di Rebecca. Ed eravamo lì che lo facevo saltare, il mio Gerillo, quando qualcuno grida – Venite! È arrivato il ciccione Marrozzi con il suo nuovo regalo!

    E di colpo se ne vanno tutti e sento diffusi nell’altra aula tutti oooh! e aaah! di ammirazione. Solo Fabian è rimasto ma è tutto lì in fibrillazione che aspetta un mio cenno e si gira continuamente verso il corridoio, mi fa quasi pena, tutto magrolino, e gli dico – E vai, che aspetti?

    Così ce ne restiamo io e il rospetto Gerillo, e lui mi guarda con quella perplessità che riserva a tutte le cose che non potrà mai capire, ma non c’è niente da capire, sono molto arrabbiato, caro il mio Gerillo, molto arrabbiato… e quindi te ne vai nella tua scatoletta così la pianti di guardarmi a quel modo, che un uomo certi momenti è bene che se li tenga per sé, non può mica spiattellarli in faccia al primo rospo che incontra. E la vocina di Fabian s’era aggiunta ai cori di aaah! e di oooh! degli altri bambini e cominciavo a domandarmi anch’io cosa si fosse inventato quest’anno il padre del ciccione Marrozzi per farci sentire tutti dei morti di fame, e per la verità morivo di curiosità a ricordarmi del pallone aerostatico che gli aveva fatto l’anno prima, tutto bianco con una pizza gigante dipinta sul davanti e la scritta Per i vostri gargarozzi molto meglio una Marrozzi, e ce lo accompagnarono a scuola con quel pallone, che io guardavo quella pizza gigante e mi sembrava di vederci la faccia del ciccione Marrozzi e mi veniva voglia di spararci con una di quelle cerbottane dei pigmei africani come quelle che costruiva mio cugino Matteo prima di trasferirsi a… da qualche parte in America. Allora scivolai nel corridoio e mi avvicinai cautamente alla sala delle proiezioni dove il ciccione Marrozzi si stava facendo bello con quel branco di pecore dei miei compagni che non la finivano più coi loro aaah! e i loro oooh! e gridavano – Fammi vedere! Fammi vedere!

    Mi serviva una scusa per entrare, per non fare la figura di quello che è venuto a vedere il regalo del ciccione Marrozzi, e siccome la campana era lì lì per suonare quando vidi che la maestra stava entrando nella nostra aula, mi buttai nella sala delle proiezioni e diedi fiato all’ugola. Gridai – Ragazzi! Vi richiamo all’ordine!

    Poi quelle parole mi fecero l’eco nel cervello e me le riascoltai per benino. Chissà mai dove ero andato a scovarla un’espressione così ridicola, Vi richiamo all’ordine, e me la riascoltavo mentalmente e non potevo credere di averle pronunciate proprio io quelle parole. Mi vergognai, non dissi altro, incassai in silenzio le risate di due o tre compagni e i vari – Che ha detto?

    – Ma che ne so, è tutto scemo!

    – E vattene al bagno, rompipalle!

    La campana suonò con la sua solita voce stridula, come tutte le mattine alle otto e mezza, e i bambini raccolsero le loro cartelle e si misero tutti a sfilarmi accanto, così come stavo, immobile nel centro della sala e nessuno che mi degnava di uno sguardo, nemmeno Rebecca. Prima di uscire in quattro o cinque si girarono e dalla porta mi gridarono tutti insieme – Vi richiamo all’ordine!

    E poi scoppiarono a ridere e riconobbi la risatina esile di Fabian che si illudeva di confondersi fra le altre. Dopo mi accorsi che davanti a me, sul fondo della sala, era rimasto il ciccione Marrozzi. Il berretto rosso della pizzeria Marrozzi da cui sbordava il capoccione sudato coi capelli biondi spiaccicati ai lati e il ciuffo che gli copriva mezzo gli occhi e finiva proprio sopra un tubero bitorzoloso sotto il quale si spandevano due labbroni rosa perennemente unti di pizza così come la sua maglietta bianca che era piena di macchione e per via della pancia gli lasciava sempre in vista l’ombelico, insomma era lì, il ciccione Marrozzi, in tutto il suo splendore, e mi guardava divertito, con in mano una pizza filamentosa e verde, e l’altra da cui si allungava un guinzaglietto a catena verso il basso, che seguii senza fretta pensando che qualunque cosa ci fosse attaccata era più piccola di quanto mi ero immaginato. Così misi una faccia decisa e sprezzante prima di decidermi a guardare, e forse sorpreso da sembianze che non mi erano familiari, vidi soltanto una grande lingua rosacea con un recinto allungato di denti gialli fra i quali si incastravano delle specie di ectoplasmi verdognoli. Poi vidi una sana pappagorgia chiara e squamosa ai cui lati, più indietro, spuntavano due zampette tozze e larghe di un colore fra il verde scuro e il grigio, e squamose pure quelle. Salendo oltre la bocca riconobbi in dei buchi scuri un bel paio narici e due occhi che erano come palle da biliardo coperte di squame e aperte su un lato, mentre la pupilla non la vedevo bene ma mi parve che fosse opaca e nera. A quel punto della mia osservazione quasi sapevo già di che animale si trattava ma seguii lo stesso con lo sguardo la coda, oltre le zampe posteriori, in tutta la sua lunghezza.

    – Ommadonna – pensai – è proprio un coccodrillo!

    E ci mancò poco che anche a me sfuggisse un oooh! come agli altri bambini. Già a una seconda occhiata però mi parve che ci fosse qualcosa di sbagliato in quel coccodrillo, nella sua espressione. Mi sembrava che fosse contento, sorrideva e i suoi occhi erano assenti, per niente da bestia feroce, anzi sembrava allegro, spensierato, anche un po’ rimbecillito, con quel sorriso da scemo del villaggio. E siccome il ciccione Marrozzi non aveva certo del tipo coraggioso, pensai che il suo doveva essere per forza un coccodrillo innocuo, questo a meno che suo padre non avesse deciso all’improvviso di liberarsi di lui, che era sempre una possibilità. Ma se a dare dell’innocuo a un coccodrillo si potrebbe essere anche un poco offensivi, il ciccione Marrozzi, dopo aver aspettato il giusto, mi fece vedere che il suo coccodrillo più che innocuo era una specie di prodigio, un fenomeno, un essere mai visto prima. Intendiamoci, certe cose le avevo viste fare da un cane, e una volta da una foca, ma da un coccodrillo figuriamoci! Invece il ciccione Marrozzi dopo essersi infilato in tasca la sua pizza verdastra guardò il suo regalo di compleanno e di colpo tuonò – Berto! Seee-duto!

    Solo il ciccione Marrozzi poteva chiamare un coccodrillo Berto. Eppoi che razza di ordine sarebbe, seduto? Come fa a sedersi un coccodrillo? Ma Berto spalancò il suo sorriso e appoggiandosi sulla coda tirò su il busto e le zampe anteriori e rimase così, in posizione da canguro, con la testa protesa in avanti che arrivava giusto all’altezza di quella del ciccione Marrozzi, il quale tirò su una mano e carezzò il suo coccodrillo sul collo dicendo – Bravo, Berto, bravo…

    Poi gli si mise di fronte, ma leggermente di sbieco perché io potessi vedere, e disse – Adesso dammi la zampa, Berto!

    Obbediente e felice Berto allungò la sua zampa verso quella del ciccione Marrozzi e se le strinsero scuotendole proprio come fanno i signori.

    – Piacere mio, signor Berto! – disse il ciccione Marrozzi, prima di rifilarmi un’occhiata piena di soddisfazione. Ma il peggio venne quando il ciccione Marrozzi tirò fuori dalla tasca quella sua fetta di pizza verde e ne staccò un pezzo con le sue dita grasse per agitarlo sotto il muso di Berto, dicendo con una vocina stupida – Cosa c’è qui? Cosa c’è qui?

    E il povero Berto seguiva la pizza con gli occhi e con la testa senza il coraggio di afferrarla, quindi il ciccione Marrozzi gli disse – Ti piace questa, eh? È vero che ti piace?

    Berto fece di sì con la testa prima che un grosso gocciolone di saliva gli scivolasse dalla bocca sulla scarpa del ciccione Marrozzi, poi tirò fuori l’enorme lingua e se la passò sul muso fin dove riusciva ad arrivare. Alla fine il ciccione Marrozzi gli disse – Toh, ecco! Mangia!

    Berto afferrò delicatamente il pezzo di pizza dalla mano del padrone, lo assaporò a lungo e lo masticò piano, ad occhi chiusi, facendo oscillare la testa da una parte all’altra, ed io capii che quegli ectoplasmi verdi che avevo visto prima fra i denti del coccodrillo erano frammenti di quella stessa pizza. Un coccodrillo che mangia pizza Marrozzi! Non riuscii più a trattenere il mio stupore e finalmente anch’io feci oooh!, come gli altri compagni. Ma il mio oooh! si trasformò subito in un aaah! di dolore allorché mi sentii tirare per un orecchio e sentii la voce della maestra gridare – Bugelli! Sempre tu! È mai possibile che…

    Ma si interruppe appena vide il ciccione Marrozzi con quel suo coccodrillo Berto che aveva appena riaperto gli occhi e aspettava con ansia un altro pezzo di pizza, con le fauci ben aperte. E la maestra si fece bianca come un cencio, prese a indietreggiare con il passo incerto e disse con un filo di voce – O mio dio!

    E poi ancora – O mio dio!

    Poi la sentimmo urlare nell’ufficio del preside.

    – Baaastaaaa! Pazzi! Sono pazzi! Non sono bambini, sono mostri! Ma guardi come sono ridotta, signor preside! Non dormo più la notte! Ho le occhiaie, sono piena di foruncoli e mi è venuto anche un tic all’occhio destro! Non ce la faccio più…

    E poi la maestra si mise a piangere come un cagnolino. Quella mattina ci fece la lezione il preside e non si sentì volare una mosca, lo so perché ero lì, anche se non mi si vedeva perché ero in punizione appiccicato dietro alla lavagna col divieto di parlare, di girarmi verso i compagni, di canticchiare, di sbuffare, di tirare in continuazione su col naso e di fare domande stupide come – Signor preside, posso grattarmi l’ascella sinistra?

    Il ciccione Marrozzi fu rispedito a casa con il suo coccodrillo e sospeso per due giorni, venne a prenderlo sua madre che aveva i capelli biondi cotonati, gli occhiali da sole, e portava sempre i pantaloni di pelle nera, che secondo il Chierichetti, che era il figlio del direttore dell’ufficio postale, significava che la madre del ciccione Marrozzi non si lavava e siccome puzzava si metteva i pantaloni di pelle per bloccare il puzzo. Un sistema che se fosse vero andrebbe adottato anche dalle nostre compagne Giulia ed Eugenia Pallazzi, dette le gemelle puzzolenti.

    All’uscita di scuola non degnai nessuno dei miei compagni di uno sguardo o una mezza parola, mi allontanai a testa alta e con l’aria disgustata, anche se in fondo non sapevo veramente perché, e avevo anche paura che Rebecca se ne offendesse e la smettesse per sempre di parlarmi, ma ad essere ignorata ormai doveva averci fatto l’abitudine, e ci pensai un poco, allora ancora una volta mi domandai perché gli altri bambini non le parlassero, non la vedessero e non fossero innamorati di lei, e pensai che forse era una gran fortuna per me e dovevo approfittarne invece di fare lo stupido offeso e rischiare di mandare

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