Dimmi di sì
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Book preview
Dimmi di sì - LORENA MARCELLI
Cover
UNO
«Ecco, ci siamo, ancora due gradini e siamo arrivate. Dammi la chiave, che apro io. Tu appoggiati alla stampella, così, brava, attenta a non mettere il piede a terra e non ti sbilanciare troppo; potresti cadere, sei ancora troppo debole.»
Eva si lasciò cadere sul divano, appoggiò la stampella accanto a sé e si spinse con le mani, fino a quando la schiena toccò i comodi cuscini di velluto azzurro. La donna la raggiunse e le si sedette vicino. Era minuta, molto magra e sul suo viso si leggeva una malinconia costante, ma i suoi occhi erano ancora vivi e pieni di coraggio. Occhi completamente diversi da quelli di Eva, sua figlia, che la guardavano come se non la vedessero realmente dal giorno in cui si era svegliata in un letto d’ospedale, dopo un terribile incidente. Sofia Malerbi abbracciò di slancio la ragazza e la baciò sulla punta del piccolo naso, poi passò le dita fra i capelli corti.
In passato Eva non avrebbe mai rinunciato alla meravigliosa chioma corvina di cui andava molto fiera, ma, con il tempo, era riuscita ad accettare anche quella nuova immagine di sé e i capelli cortissimi, che, fra l’altro, le stavano davvero bene. Ogni volta che Sofia la guardava, il suo viso le ricordava quello di un cerbiatto: gli occhi scuri erano davvero enormi. Era sempre stata una splendida ragazza e, anche se ora era ridotta quasi pelle e ossa, la sua bellezza era ancora indiscutibile. Era diversa, ecco. Semplicemente diversa, ma sempre bellissima.
Eva ricambiò l’abbraccio.
«Starò bene, non preoccuparti. Adesso, però, asciugati le lacrime e vai in cucina a preparare la tua famosa tisana. Bere qualcosa di caldo ci farà bene.»
Quando la donna si alzò e la lasciò sola, Eva si appoggiò di nuovo allo schienale del divano e lasciò vagare lo sguardo intorno a sé, osservando l’appartamento da cui mancava da tantissimo tempo.
Non era cambiato nulla dal giorno in cui era uscita con Alex e Martina per prenotare l’hotel in cui i ragazzi avrebbero dovuto festeggiare il loro matrimonio, dopo tre anni di fidanzamento e due di convivenza. Sulle mensole c’erano ancora tutte le foto che raccontavano la loro storia, fin da quando erano piccoli.
Recuperò la stampella e si alzò a fatica. Sentiva Sofia muoversi in cucina. Fra poco l’avrebbe raggiunta e, trovandola in piedi, avrebbe di certo avuto da ridire. Era diventata iperprotettiva e lei, nonostante comprendesse le motivazioni che la inducevano a comportarsi in quel modo, si sentiva oppressa e spossata.
Per riprendere in mano la sua vita aveva bisogno di essere trattata in maniera normale e non come se fosse ancora malata. Malata lo era davvero, ma non fisicamente, come credevano tutti guardandola camminare o, meglio, zoppicare vistosamente.
Nell’incidente la gamba si era rotta in più punti: fratture multiple scomposte, per essere precisi, e il piede aveva preso una strana angolazione, che non le permetteva di appoggiarlo a terra senza provare dolore.
Molti interventi chirurgici, in diverse parti del corpo, avevano fatto di lei una persona fragile, ma in pochi si rendevano conto che quella che si era frantumata in maniera definitiva era soprattutto la sua anima. Le ossa prima o poi sarebbero tornate a posto, l’anima no. Raggiunse la mensola e passò le dita sulle cornici d’argento, all’interno delle quali erano conservati gelosamente i ricordi di una vita.
Le accarezzò una a una, sorridendo malinconica, poi, con il dorso della mano, asciugò una lacrima che le scendeva sul viso, ma non smise di sorridere.
Una mano si appoggiò sulla sua testa e lei si lasciò andare contro il petto di sua madre, come faceva da piccola. Sofia non aveva il coraggio di parlare, sopraffatta di nuovo dal dolore lancinante che la divorava. Alex e Martina non c’erano più, ma Eva sì, e doveva tornare a essere quella di una volta. Ci sarebbe voluto del tempo, ma lei l’avrebbe aiutata a raggiungere quell’obiettivo, e non avrebbe ceduto fino a quando un anelito di vita e di speranza avrebbe di nuovo ravvivato lo splendido sguardo di sua figlia.
Mentre aiutava la ragazza a sedere, notò una delle foto che aveva spostato; la prese e la osservò attentamente. Un’idea improvvisa le balenò in mente, facendola sorridere. Perché no? si disse, pulendo con la punta delle dita il sottile strato di polvere che si era depositato sul vetro.
Era una grande foto color seppia, di molti anni prima. Ritraeva tutti loro davanti al villino dei suoi genitori, a Pineto, in Abruzzo, sul mare Adriatico. Da quanto tempo non tornavano lì? Fece un rapido calcolo e, con sorpresa, constatò che non andava a casa dei suoi da più di dieci anni.
In quel periodo Eva stava finendo il liceo e Alex si era appena laureato. Il villino era ancora di loro proprietà; lo affittavano solo durante l’estate. Lo avevano fatto anche quell’anno e, se non si sbagliava, gli ultimi ospiti erano andati via qualche giorno prima. Pina si occupava della casa dal giorno in cui Amelia, la madre di Sofia, se n’era andata. La sua amica d’infanzia non aveva mai lasciato la città natia e, con il tempo, oltre che una cara amica, si era dimostrata un’ottima amministratrice.
Le sue labbra si distesero in un sorriso dolcissimo. Il primo vero sorriso da chissà quanto tempo. Non lo ricordava più. Eppure, più ci pensava, più si convinceva che per Eva avrebbe potuto essere la soluzione perfetta.
Sofia ritornò alla sua automobile e cercò nella borsa l’antiquato cellulare che usava di rado. Scorse la lista dei contatti salvati e si fermò sul numero di Pina. Doveva chiamarla prima di cambiare idea. Se non lo avesse fatto immediatamente, forse, non lo avrebbe fatto più. Spinse il tasto di chiamata e attese, impaziente.
Pina rispose al terzo squillo. «Sofia! Proprio non avrei mai immaginato di sentirti. Come vanno le cose? Eva è tornata a casa? Che cosa dicono i dottori, e lei come si sente? Spero davvero che stia un po’ meglio, perché l’ultima volta che l’ho vista mi ha fatto tanta pena, povera piccola.»
Sofia non rispose a nessuna delle domande che Pina le aveva posto a raffica; attese che l’amica esaurisse la carica e, appena le fu possibile inserirsi nel discorso, ne approfittò: «Te la sentiresti di fare l’angelo custode di Eva?»
«In che senso, scusa?» chiese l’amica.
Lei le parlò della sua idea e l’altra si dimostrò subito interessata.
«Eva può venire quando vuole, la sorveglierò senza darle l’impressione di starle addosso», rispose.
Sofia lasciò andare il fiato, trattenuto fino a quel momento.
«Non so come ringraziarti, ma devo chiederti alcune cose, prima di parlarne con Eva.»
«Dimmi pure.»
«Eva ha bisogno di un fisioterapista e di qualcuno che l’aiuti nelle incombenze quotidiane. Pensi di riuscire a organizzare tutto in pochi giorni?»
Dalla finestra di casa Pina vedeva la spiaggia semideserta. Belka, un meraviglioso esemplare di labrador nero, correva inseguendo il suo padrone, che aveva affittato l’appartamento al primo piano del suo villino.
L’uomo le aveva detto di essere lì per scrivere e le aveva spiegato, esplicitamente ma con molta educazione, che aveva bisogno di silenzio e concentrazione, perché doveva consegnare la bozza del nuovo romanzo entro i tempi fissati dall’editore. Era arrivato da un mese e, oltre a sapere che si chiamava Marco Ludovici ed essere certa che, dalle ricerche che aveva fatto su Internet, non fosse un malintenzionato, non sapeva molto altro di lui. Incuriosita, aveva acquistato un paio di suoi titoli, che ora erano sul comodino, accanto al letto, ma a lei i gialli non erano mai piaciuti e non si era ancora decisa a leggerli. Si riscosse e tornò a prestare la sua attenzione a Sofia, che attendeva una risposta.
«Fammi solo sapere quando la piccola arriverà. Le farò trovare tutto pronto. Non dovrà preoccuparsi di nulla e potrà rimanere qui fino a quando vorrà. Lo sai che non ho molto da fare, da quando sono in pensione.»
DUE
Pioveva dalla sera precedente e non accennava a smettere; mentre un fischio prolungato annunciava l’imminente partenza del treno, Eva pulì il finestrino appannato e appoggiò la fronte al vetro, cercando sua madre con lo sguardo. Alzò la mano e bussò sulla superficie appannata, richiamando l’attenzione di Sofia, poi, con l’indice, disegnò un grande cuore sul resto del vetro. Sua madre le sorrise e le inviò un bacio sul palmo di una mano; in quel momento il treno si avviò e in breve si persero di vista.
Nel vagone c’erano solo dei pendolari e alcuni ragazzi che, nonostante l’ora, erano già pieni di vita e molto chiassosi. Eva decise di ignorare gli sguardi pieni di curiosità che alcuni di loro le lanciavano di tanto in tanto e osservò il paesaggio che sfrecciava fuori dal finestrino.
A un certo punto doveva essersi addormentata, perché non sentì l’arrivo del controllore, che dovette chiamarla.
Grazie al cielo aveva anche smesso di piovere, sebbene il cielo fosse ancora carico di nubi scure. Poche fermate e sarebbe giunta a destinazione. La meravigliosa pineta lunga due chilometri, al di là della quale si estendeva l’Adriatico, accompagnò gli ultimi minuti del suo viaggio. Alle dieci e venti scese alla sua fermata e si ritrovò, quasi immediatamente, fra le braccia paffute di Pina, che l’attendeva davanti alla porta della piccolissima sala d’attesa.
«Sei arrivata, finalmente!» le disse, felice.
«Sono arrivata, sana, salva e felice di essere qui», le rispose, abbottonando il giaccone e cercando di rimettere lo zaino sulle spalle. Pina non sembrava colpita dal suo aspetto e, senza troppe cerimonie, le prese di mano la stampella.
«Dalla a me, te la reggo mentre ti infili lo zaino.»
Quel modo di fare le piacque e si rilassò immediatamente. Pensava di dover dare spiegazioni e di dover raccontare, ancora una volta, quali problemi avesse alla gamba, ma Pina non sembrava interessata. O meglio, non dimostrava un interesse morboso. La faceva sentire normale e quella sensazione la rincuorò.
«Sei magra come un chiodo», si limitò a dire la donna, e lei non poté fare a meno di sorridere, pensando che glie lo ripeteva da quando aveva sei anni.
Arrivate in piazza, dove Pina aveva parcheggiato la sua vecchia utilitaria, la donna alzò una mano per salutare un uomo che usciva da un bar. Indossava un giaccone scuro e un cappello di lana che gli copriva tutta la fronte, rendendo impossibile persino vedergli gli occhi, ed era molto alto. Un grosso cane nero, legato a un palo della luce, si mise a scodinzolare con entusiasmo appena lo vide arrivare. Mentre saliva in auto, Eva lo vide ricambiare il saluto, poi lui sciolse il nodo del guinzaglio del cane e