L'eroe sei tu: Voci, divinità, leggende della mitologia di Damanhur
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Il mito è il regno dei valori più puri ed è un regno reale, concreto, che non alimenta semplicemente la nostra fantasia ma indica una strada precisa ai nostri comportamenti.
E ogni mito è custodito e vive dentro di noi.
Il mito rappresenta la narrazione più completa delle caratteristiche degli esseri umani – anche quando ci parla di Divinità e di Forze straordinarie! – ed è la bussola più precisa alla quale chiedere la direzione per esprimere la parte migliore di noi. La forza del mito è quella di essere fuori dal tempo o, meglio ancora, di cavalcarlo, come fa un surfista con le onde dell'oceano. Damanhur e la sua filosofia, ispirate al pensiero di Falco Tarassaco, descrivono la nascita della vita e dell'universo attraverso il racconto di tanti miti, nei quali ognuno di noi può riconoscere aspetti di se stesso e ascoltare la propria voce.
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L'eroe sei tu - Stambecco Pesco
Damanhur
Introduzione
Un libro sui miti, come è L‘eroe sei tu, di Stambecco Pesco, è un testo di narrazione, incanto, incontro con se stessi, filosofia. Trattando del linguaggio universale per eccellenza – il mito – tocca temi diversissimi, che partono dalla tradizione culturale e spirituale dei popoli del passato e arrivano a ciò che vive e pensa oggi, proprio in questo istante, ogni lettore: dal lontano al vicino, dal macrocosmo al microcosmo, dalla scienza alla poesia, come è tipico dell‘esperienza di Damanhur e della scuola di Falco Tarassaco.
La madre di tutti i miti è il racconto della genesi, la creazione del mondo, della quale esistono centinaia di versioni sparse nelle culture e i popoli del nostro pianeta. La genesi più antica la troviamo nel Vedanta, che ci è stato donato dalla civiltà dell‘Indo. In quella versione l‘universo nasce dall‘atomo primordiale paramanu
, un atomo che respira e diventa grande come l‘intero Creato e piccolo come uno spazio di Planck, unità di misura minima secondo la scala del fisico Max Planck; (mi si perdoneranno, spero, le digressioni nella Fisica, mio campo di ricerca NdA). Questa sapienza è apaurusheya
e cioè non pensata da mente umana ma attinta dall‘Assoluto.
Quale mito migliore di uno addirittura scritto non da parte di umani?
Linguaggio universale significa anche che i miti sono tanti, troppi per darne un quadro esaustivo; del resto, poiché per molti aspetti si rincorrono l‘uno con l‘altro, così come in natura ogni forma contamina l‘esistenza dell‘altra, l‘importante è agganciare un anello per essere collegati all‘intera catena.
Le scritture epiche dell‘Induismo, alle quali facevo riferimento con il Vedanta, sono formate dalle itihasa
. Le due itihasa
principali sono il Ramayana e il Mahabbarata, miti così profondamente parte della tradizione induista da averne guidata l‘intera storia per millenni. Il potere e la profondità di questi miti rappresentano la voce interiore di un intero popolo, alla quale esso si ispira e dalla quale si lascia ispirare da almeno 5000 anni.
I fondamenti della cultura, delle arti, delle scienze e della spiritualità indù sono nati tutti ascoltando quella voce interiore. La parola in sanscrito itihasa
significa ciò che accadde realmente
a voler affermare come il mito non sia altro, in fondo, che un sistema molto efficace per raccontare una storia vera.
Nei miti egizi Seth uccide il fratello Osiride, futuro padre di Horus, dividendolo in quattordici parti che vengono disperse sull‘intero Egitto. Iside, sorella di Osiride e Seth, trova tredici dei quattordici pezzi di Osiride e li ricompone, ma il fallo, il potere creante di Osiride, rimane disperso nel Nilo, rendendone feconde le acque. Osiride ricomposto rinascerà come il dio che ritrova la strada per la vita dal regno dei morti e quindi con il potere sull‘Oltretomba. Potrà così recuperare la sua virilità e con la sorella Iside concepire un figlio, Horus, che lo possa vendicare.
Horus combatterà con lo zio Seth, ma perderà un occhio in combattimento, che Seth gli cava per dividerlo in sei parti.
Horus ricompone tutti i pezzi del suo occhio, ma quei pezzi, che separati diventano frazioni, non bastano più per avere l‘unità iniziale e così deve giungere Toth, con il potere dei numeri, a restituire il sessantaquattresimo dell‘occhio che mancava a Horus. Padre e figlio sperimentano così che dalla separazione della morte e della sconfitta si può rinascere, se si hanno la forza e il coraggio di andare oltre. Fu così che gli egizi donarono al mondo il magico potere delle frazioni e delle serie convergenti.
Fermiamoci qui.
La voce interiore di cui abbiamo bisogno noi umani è quella capace di andare oltre, quella tonante al punto da vincere le vicende umane e costante abbastanza da scavalcare le epoche: la voce del mito, per l‘appunto. Non si può uccidere la voce interiore, perché con i simboli e i numeri può passare di bocca in bocca, sfuggire alla caducità dei corpi e diventare immortale. Non deve essere tradotta, perché nasce prima delle parole e quindi parla tutte le lingue. Sorge il dubbio che essa non sia umana, che sia veramente apaurusheya
, quindi itihasa
!
Ma oggi abbiamo i piedi per terra e non osserviamo più il cielo da cui arrivarono i nostri avi e i nostri miti, quindi ben vengano nuove narrazioni che ci aiutino a risollevare lo sguardo e immaginare di nuovo. Cartesio è riuscito dove Seth aveva fallito: ha rimarcato la separazione nel mondo tracciando con linee spesse un‘ascissa e un‘ordinata su un piano, scrivendo così la larghezza del mondo, l‘altezza del cielo e il mito della ragione. Così facendo ha messo ordine, però ci ha costretti tutti a vedere sempre una cosa oppure l‘altra, mai entrambe insieme.
Il pericolo incombente è la separazione, quella che perseguitava Horus e Osiride, quella del basso e alto Egitto, quella del bene contrapposto al male, quella della ratio alternativa all‘emozione. Il pericolo oggi è la nostra ostentata razionalità, l‘analisi razionale dei miti che li fa sbriciolare e sfuggire dalle nostre mani come la sabbia e ci induce a credere che la spiaggia non esista. Abbiamo scelto di osservare ogni singolo granello invece che osservare la sabbia, perdendo così la capacità di ammirare chilometri e chilometri di spiaggia.
La necessità di contare tutti i granelli di sabbia rischia di impedirci di raccogliere le gemme più preziose di quegli antichi racconti.
Fortunatamente ne siamo ancora tutti attratti, affascinati, come se intimamente captassimo qualcosa che la nostra bocca non riesce a pronunciare, mentre il nostro cuore ne coglie il senso senza nessuno sforzo. Del resto, cos‘è la realtà senza il mito?
Ecco perché è nata Damanhur: perché qualcuno quella voce interiore la sente ancora e cerca tutti coloro che la ascoltano per scoprire se la storia che essa racconta è itihasa
.
Falco Tarassaco ha raccolto questa gente e ha desiderato fortemente per loro una Damanhur dentro il mondo e non ai margini di esso, dunque capace anche di contare i granelli della sabbia. Non tutti per fortuna, ma abbastanza per avere quel tanto di razionalità che li aiuti a sentirsi parte di quella vasta creatura chiamata umanità. Così il progetto di Damanhur è nato distinto in tre granelli: la Fisica spirituale, quella che conta i granelli; la Scuola iniziatica, quella che distingue i granelli e sa scegliere i migliori tra essi; l‘esperimento sociale, dove i granelli si mescolano tra loro con-fusione.
Ma Falco, che non si è mai scordato della spiaggia e della sabbia, ha espresso prima di tutto l‘unica cosa davvero importante: l‘importanza di ascoltare le voci interiori, quelle che suggeriscono di osservare la spiaggia prima e i granelli dopo, la complessità prima della divisione.
Sono nati così tanti miti damanhuriani, spesso attorno a un fuoco, osservando le stelle e sentendo il rumore delle onde. Anche quando geograficamente non c‘erano: siamo o non siamo nel mito? E i pezzi di Osiride si sono ricomposti ancora una volta e le onde sono state fertili, ancora una volta.
Nei miti damanhuriani, dei quali parla questo libro, ci capita di trovare, accanto alle figure mitologiche create ad hoc come le Divinità Primeve, Vadusfadamo, Aria, Psor e Anansal, altre ben note in molti miti del mondo: il Demiurgo, il Graal, Lucifero, per citare alcuni esempi.
In tutto questo, è presente anche il Motore Immobile, che in questa visione è un parente stretto del Motore Immobile di Aristotele, un assunto più che un mito, protagonista indiscusso dello status quo ma che ci lascia con la domanda: chi c‘era prima dell‘inizio?
Come giustamente sottolinea Stambecco, sovente il mito risponde alle domande proponendo altre domande, che spostano tutto un po‘ più in là e producono l‘unica alternativa alla verità, il moto della ricerca della verità.
L‘emozione del mito trasforma le armi in ruote, il mistero in carburante, le parole in bussole e ci sprona ad affrontare il viaggio. Esso ci mette in guardia dal godere semplicemente della realtà del mondo per fermarci qui, come naufraghi su uno splendido atollo assolato in un remoto oceano. Il mito ci racconta che altrove c‘è molto di più e di meglio e ci spinge a fare qualcosa per costruire una barca e rimetterci in viaggio. Ci racconta che noi siamo parte di una Divinità Primeva, che una volta spezzettata, tagliata a pezzi come lo fu Osiride, ha perso l‘integrità e la memoria che ci permetterebbero di costruire non solo atolli assolati, ma interi pianeti solo immaginandoli. Ci rivela che la Divinità Primeva non ha mai perso la propria natura, è stata soltanto sepolta dentro ognuno di noi, diventando una piccola scintilla di luce che continua a brillare come le stelle nel cielo, pazientemente in attesa di vincere la partita della divinizzazione dell‘universo intero.
Luce, ci occorre luce!
scrive Falco nel suo Morire per Imparare*: quella luce che supera qualunque divisione, perché è il simulacro sia del dio mago sia della velocità dell‘orologio. Quell‘orologio cosmico che Falco, con la sua Fisica spirituale, ha descritto legando insieme la relatività e l‘Assoluto. Un mito ancora non scritto forse racconterà, tra mille anni, che l‘indefesso amore per la luce spinse un secolo fa un anonimo impiegato dell‘ufficio brevetti di Berna, tale Albert Einstein, a curvare il piano tracciato da Cartesio fino a farlo diventare una sfera; e magicamente le due linee che apparentemente dividevano il mondo si sono ritrovate nello stesso punto.
Il mito è quella dimensione in più, quel calore capace di piegare e scaldare abbastanza la ragione per farla diventare curva, senza spigoli, parte di un unico tessuto coerente fatto di luce. Il mito asciuga la necessità di un bene o di un male, perché ci dona qualcosa di più: il senso di tutta la storia, che chi scrive si guarderà bene dal definire, analizzare, suddividere. Il mito è. Punto.
Gnomo Orzo**
* Falco Tarassaco, Morire per Imparare
in Il Libro del Risveglio, Val Ra Damanhur, 2004.
** Autore di Quanti buchi ha un anello?, Devodama 2018.
Parte prima - Perché il mito
Ciò che vogliamo essere
Il mito è un’immagine di fantasia con la quale descriviamo qualcosa di reale, per renderlo più comprensibile. È il linguaggio più parlato nella storia dell’umanità: la cultura classica si è formata sui miti e, poiché le culture attuali si formano sulla base della cultura classica –, e non pensiamo solo al mondo occidentale: ogni emisfero ha la propria età classica – il nostro modo attuale di pensare e provare emozioni è figlio dei miti antichi. In modi diversi, siamo tutti, a seconda della latitudine nella quale siamo nati e cresciuti, figli di Arjuna, di Quetzalcoatl o del pelide Achille e tutti portiamo dentro di noi l’esperienza di un diluvio, di un viaggio fra mille difficoltà e di un incontro-scontro con gli Dei. Che le nostre vite siano avventurose o che risultino sedentarie, che crediamo o meno in una dimensione superumana, che conosciamo o ignoriamo le antiche storie partendo dalle quali la nostra civiltà si è sviluppata, non importa: siamo tutti discendenti, in una parte di noi, degli antichi miti.
Ogni mito, prima di essere trascritto e, così, fissato nel tempo, esisteva già: nei racconti della gente, nelle leggende dei popoli, nelle credenze diffuse dai sacerdoti, e così a poco a poco ha creato una specie di DNA culturale e spirituale di ogni etnia. Fino ad arrivare ai nostri giorni: anche se noi non abbiamo mai letto, ad esempio, Eraclea del greco Pisandro – certamente non abbiamo letto quell’opera, essendo essa andata perduta! –, Ercole compie le sue dodici fatiche, che essa narrava, anche dentro di noi, e nella nostra anima sono presenti, come eredità archetipica, anche il suo sudore e la sua forza. Che poi noi si sappia attingerne, è un altro discorso.
Si dirà: si può capire che in