Le donne che fecero l’Impresa – Piemonte: Nessun pensiero è mai troppo grande
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Le donne che fecero l’Impresa – Piemonte - Autrici varie
Autrici Varie
Le donne che fecero l’Impresa – Piemonte
Nessun pensiero è mai troppo grande
Prima Edizione Ebook 2018 © Edizioni del Loggione, Modena-Bologna
ISBN: 978-88-9347-072-8
Edizioni del Loggione
Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena
http://www.loggione.it e-mail: loggione@loggione.it
Autrici Varie
Le donne che fecero l’Impresa
PIEMONTE
Nessun pensiero è mai troppo grande
Racconti
INDICE
PREFAZIONE
IL MARE ATTORNO
Isabella e Maddalena Francese
LA CREOLA
Isa Bluette
COME UN CORRIDORE
Sonia Segimiro
STORIA DI UN CASTELLO E DEL SUO BORGO
Anna Giulia, Giovanna, Francesca e Clotilde De Rege
IL SOGNO
Mara Colombo
IL FIUME AZZURRO, UN LUOGO MAGICO
DA CUI NASCONO GLI ALBERI D’ORO
Antonella Ferrara
ROSSANA… DA SARTISTA A STILISTA 2.0
Rossana Dassetto Daidone
IL LIEVITO DELL’ANIMA
Daniela Trombin
LA BELLA LA VA AL TËRNI
Le donne di Rueglio
ANNA, LA SIGNORA DEI LIBRI
Anna Parola
ARS FACIENDI:
L’ARTE DI CREARE CON LE MANI E CON IL CUORE
Caterina Maggia
IN LANGA PER AMORE
Béatrice Orvain
MONNARISO
Natalina Ricci
TORINO PARIGI SOLO ANDATA
Paola Niggi
MARCHESA OLGA DI GRESY
Olga Rey di Villarey Cisa Asinari di Gresy
LIBRI A CHILOMETRO ZERO
Caterina Lucetta Paschetta
TUTTA COLPA DEL DESTINO
Margherita Podestà Heir
BIOGRAFIE AUTRICI
Altri volumi in preparazione Catalogo Edizioni del Loggione
A Elve Fortis de Hieronymis, che fu tra le prime a comprendere
e promuovere l’importanza della lettura e della creatività
fin nei piccoli, cercando, sperimentando,
miscelando fantasia e razionalità, scrittura e illustrazione.
PREFAZIONE
Il libro Le donne che fecero l’Impresa – Piemonte, così come i precedenti incentrati su figure dell’Emilia Romagna e della Lombardia e quello sul Lazio, in uscita contemporaneamente a questo, fa davvero luce sulle eccellenze al femminile della nostra zona.
Belle storie di donne coraggiose e tenaci, ambiziose e creative.
È sempre sorprendente vedere come la casualità sia stata per tutte loro casualità
, se mi è permesso il gioco di parole. E questo perché erano pronte a osare, sentivano di meritare un’opportunità: un messaggio ai giovani di oggi, e anche a tutti coloro che stanno in attesa di un improbabile colpo di fortuna senza coltivare una passione.
Tra queste eccezionali donne, un posto importante è anche quello di Elve Fortis de Hieronymis, che aveva già nel nome - Elvezia, scelto per lei da uno zio anarchico - il segno di un destino divergente. Nata nel 1920 e vissuta fin dall’infanzia a Novara, non aveva compiuto i suoi diciotto anni e già dovette lasciare la scuola per sostenere la famiglia. Ma era una donna intelligente, vivace e ambiziosa, così riuscì ugualmente a terminare gli studi e diventare professoressa di arte al liceo scientifico di Novara. Ma nemmeno quello la soddisfaceva completamente, per quanto il suo interesse per l’educazione dei giovani al bello fosse vivo e sincero, come testimoniano ancora oggi i suoi ex studenti. Attratta dall’arte contemporanea e dalla manualità creativa, decise di investire nella sua vena artistica, frequentando il gruppo storico di ceramisti ad Albissola e iniziando la collaborazione con il Corriere dei Piccoli negli anni più gloriosi di questo incomparabile settimanale. Dalla frequentazione di artisti come Luzzati, Munari e Nidasio (per citare solo i più famosi) nacque poi la passione per la letteratura infantile e per i libri gioco, stimolanti nella forma quanto nei contenuti. Fu pioniera dei primi libri cartonati della Coccinella, dotati di stupefacenti sorprese per gli occhi e la mente. Fu e rimane una delle poche illustratrici italiane a coltivare con certosina pazienza l’arte del collage e a scrivere una insuperata guida alle attività manuali artistiche per l’infanzia: Così per gioco, pubblicato da Einaudi e ora nei titoli di Interlinea edizioni. Proprio a Roberto Cicala, direttore della nota casa editrice novarese, si deve la ripubblicazione di alcuni dei suoi libri per la prima infanzia: sono albi solari, vivaci e ricchi di fascino, le cui illustrazioni raccontano storie che un bimbo può interpretare anche da sé. Tra tutte, mi piace qui ricordare Che tempo fa, per l’eleganza quasi giapponese delle sue pagine.
A Elve è stata intitolata la biblioteca per ragazzi di Novara, che conserva anche una parte degli originali dei suoi lavori di artista ed è interamente dedicata ad avvicinare i bambini alla bellezza dell’arte.
Sono felice che la dedica di questo libro vada dunque a lei, protagonista dei migliori anni di innovazione della nostra letteratura italiana, mia carissima amica, a cui devo il grande cambio della mia vita: la decisione di dedicarmi a scrivere per bambini.
Anna Lavatelli
Scrittrice di letteratura giovanile
Premio Andersen
IL MARE ATTORNO
di Alessandra Biella e Barbara Guidi
Sto seduta e mi muovo accavallando continuamente le gambe e spostando i capelli in qua e in là, mentre mia sorella se ne sta immobile, accanto a me. Non riesco a capire se si tratti di chiara e semplice tranquillità oppure se sia come me: agitatissima.
Le persone intanto continuano tranquillamente le loro attività: chi parla, chi scorre una brochure con l’indicazione del programma, chi semplicemente osserva la sala, meravigliosa nella sua semplice eleganza. Ogni tanto do uno sguardo a mia sorella: ferma. Accanto a lei, la Luisa. I capelli candidi a incorniciare il viso scarno e solcato da sottili rughe, tracce lasciate dai tanti anni di lavoro in campagna, e quel suo vestito bello, tirato fuori per le grandi occasioni. La Luisa è nata in un paesino della campagna novarese, non lontano dalla Cascina Canta, quel cascinale cinquecentesco di cui si innamorarono i nostri genitori, Eusebio e Bianca, e che poi decisero di acquistare nel 1966, nonostante il parere dei nonni e le voci e le leggende che la circondavano. La Luisa è stata una delle prime mondine a venire a lavorare da noi e anche una delle ultime a lasciare il lavoro, quando le macchine hanno cominciato a sostituire quello manuale. Per noi lei però è soprattutto una persona di famiglia, oltre che custode della storia della nostra azienda.
La Luisa ha amato il suo lavoro, fatto di fatica e sudore, dice, ma anche di piccole gioie e di grandi amicizie nate in risaia, e il viso le si illumina ogni volta che ricorda qualche episodio della vita in cascina, come quando si mette a raccontare di quella volta che venendo a lavorare...
Le ruote della bicicletta solcavano a fatica il terriccio della strada reso fangoso dal temporale. Aveva piovuto tutta la notte e il cielo era ancora cupo e minaccioso. In lontananza la Cascina Canta appariva avvolta da un lieve mantello di foschia che si alzava dalle risaie tutte intorno. La Luigina pedalava in testa al gruppo, silenziosa e a testa bassa, mentre io e la Nilde, poco più indietro, la seguivamo canticchiando.
"Alla mattina, suona la sveglia: forza mondine bisogna andar.
In fila indiana alla risaia che si comincia a lavorar."
Certo che la Luigina se non avesse avuto proprio tanto bisogno di lavorare, con quei tre fratelli da sfamare, non sarebbe mica venuta a far la monda in quella cascina, con tutte quelle voci che giravano sulla sua storia e il fatto che la chiamassero La cascina dei misteri
o la Cascina del mandian
, il brigante.
E un brigante in passato c’era stato davvero, perché si racconta che lì si nascondeva quel Francesco Demichelis che era detto il Biondin (o Biondino), il bandito delle campagne del Novarese, furfante rubacuori che fuggiva a cavallo lasciandosi dietro ruberie, spavalderie e persino un omicidio. Nella primavera del 1905 il Biondino e un compare, il Moretto, si erano rifugiati ancora una volta alla Cascina Canta. E lì il Biondino vi rimase, sino a quando, una sera, i carabinieri lo trovarono che ballava a una festa sull’aia di un altro cascinale. Lui provò a scappare, ma lo raggiunsero e lo uccisero a colpi di fucile sull’argine di una risaia.
Tornando a noi, quella mattina andavamo leste con le nostre biciclette quando all’improvviso un tuono rimbombò nell’aria e un’ombra scura attraversò di corsa la strada. La Luigina cacciò un urlo, tirò i freni con tutta la sua forza e la bicicletta slittò sul fango. Io e la Nilde non facemmo in tempo a fermarci e le andammo addosso facendola cadere dentro a una grossa pozzanghera.
«Oh mamaaa, al fantasma dal Biundin!» urlava la Luigina, mentre quell’acqua fangosa le colava dai capelli. Io e la Nilde, più che esser spaventate, non riuscivamo a tirar su le biciclette dal tanto ridere che facevamo nel vedere la Luigina aggiustata a quel modo. Poi per tanto tempo non abbiamo più parlato di quello che credevamo di aver visto quella mattina, ma a distanza di tanti anni, quando la raccontiamo, ridiamo ancora ripensando alla Luigina finita a mollo nella pozzanghera "par culpa dal Biundin".
La sala intanto si sta riempiendo, inizio ad avere caldo, mi sono messa una sciarpetta di seta al collo che quasi mi fa soffocare. Mentre la allento un po’, mi guardo attorno.
«Ma i ragazzi?» chiedo a mia sorella. E finalmente, impercettibilmente, si muove.
«I ragazzi» mi dice «probabilmente stanno ancora cercando parcheggio.»
Annuisco, mi giro ancora una volta per buttare uno sguardo in fondo alla sala. Mi piacerebbe chiedere a mia sorella se è tutto a posto, visto che da quando siamo arrivate non si è mossa e non ha praticamente aperto bocca, se non fosse che sono rimasta improvvisamente senza voce e tra un po’ toccherà a noi, che almeno due parole dovremo ben dirle! Mi muovo un po’ sulla poltroncina di velluto e con la coda dell’occhio vedo arrivare i ragazzi: alla fine poi ce l’hanno fatta, proprio nel momento in cui si fa silenzio e tutto ha finalmente inizio.
Si sentono chiamare dei nomi, strette di mano, sorrisi...
Ora chiameranno noi
penso, mentre la pioggia ha iniziato a battere impetuosa sui vetri delle finestre. A un tratto il sordo rumore di un tuono, come per magia, mi riporta a un pomeriggio di tanti anni prima.
Mia sorella e io avevamo fatto tardi nel negozio di vernici in città, a Novara. A dirla tutta, prima avevamo fatto anche un giro per i negozi, un paio di scarpe da ginnastica nuove che Isabella aveva deciso di indossare subito, un caffè al Borsa, in Piazza Martiri al centro della città, e poi con calma al colorificio. La decisione era di quelle importanti, bisognava scegliere il colore giusto per ridipingere la parete grande dell’edificio principale proprio accanto alla riseria, quella in cui da anni, dal 1700 dicevano gli esperti, spiccava un’antica e ormai scolorita meridiana.
Così, tra colori, vernici e stucchi il tempo era passato veloce e la pioggia che aveva iniziato a battere sulla vetrina del negozio, prima un po’ in sordina, si era fatta poi sempre più insistente, tanto che al momento di uscire il titolare ci aveva pregato di fermarci. Quello non era un semplice temporale, ma un nubifragio.
Rimanemmo lì per più di un’ora. Ce ne stavamo davanti alle vetrine e la preoccupazione di minuto in minuto cresceva. Le linee telefoniche erano saltate, di telefonini in quegli anni neanche si parlava, e i genitori in cascina ci stavano aspettando. Dovemmo attendere ancora una mezz’ora prima di poter finalmente uscire e avviarci veloci alla macchina parcheggiata appena più in là. Ci lasciammo alle spalle il centro città e ci avviammo verso Gionzana.
Isabella guidava con prudenza, era abituata a quelle strade sterrate e un po’ sconnesse che ci avrebbero portate sempre più vicino a casa; mia sorella e io non eravamo certo tipi da arrenderci alle prime difficoltà, ma...
Lo spettacolo che ci si presentò davanti quella sera era da togliere il fiato. Il mare attorno, quello buono e amico, che ogni anno inondava la terra e proteggeva il nostro tesoro prezioso, il riso, non c’era più. Solo fango. Aprimmo le portiere e scendemmo dall’auto. Da lì si doveva continuare a piedi. Intanto in lontananza due figure sotto un unico ombrello, mano nella mano, si avvicinavano incerte.
«Ragazze, qua oggi abbiamo perso tutto», così ci accolsero i nostri genitori.
Ci fu un lungo momento di silenzio, quel silenzio irreale, quello che circonda i momenti brutti e che adesso era toccato a noi. E poi quel nodo, quel groppo in gola che si ferma proprio lì e non va più né su né giù.
Isabella fu la prima a riprendersi, io la seguii un secondo più tardi.
«Oh dai, papà, mamma, ma cosa state dicendo? Lasciamo qua la macchina e andiamo a vedere che non è poi così grave neh?» disse infatti mentre mi guardava con le mie belle scarpe da ginnastica nuove affondare letteralmente nella terra. Almeno di questo, anni dopo, ne avremmo riso, ne ero sicura.
Non fu facile, per niente. Sembrava quasi che quel nubifragio si fosse accanito solo su di noi, visto che le cascine vicine di danni in realtà ne avevano subiti proprio pochi. Nonostante ciò come potevamo pensare noi, le sorelle, di lasciare andare il lavoro di una vita? E infatti il lavoro, quello duro nelle risaie di giorno, e quello in ufficio la sera, per far quadrare i conti, nei mesi successivi non mancò. Non mancarono però neanche le idee, come quella della riscoperta dell’antica varietà del riso Maratelli che alla Canta non era stato mai abbandonato, e che papà Eusebio, insieme a noi figlie, decise di custodire con cura e caparbietà, tanto che la nostra azienda diventò conservatrice del seme con decreto ministeriale. Ed è con la stessa caparbietà che decidemmo di abbandonare in parte la chimica, diventando antesignani di un’agricoltura ecosostenibile. Non fu una scelta semplice, e costò sicuramente fatica, ma continuammo a credere fermamente nel nostro lavoro e l’azienda Canta, la nostra azienda, divenne nel tempo un’isola biologica nel mare delle coltivazioni del Novarese e del Vercellese. Ripensandoci adesso erano stati anni pieni di fermento, di attività, di giorni tutti uguali, senza sabati, domeniche e feste comandate, ma tutti invariabilmente e incredibilmente diversi, unici.
Guardo l’ora. Le sei della sera. Non piove più, il temporale è finito e ha lasciato un arcobaleno doppio e un bel tramonto davanti a noi. Dalla finestra entra un po’ di luce, allungo lo sguardo e riesco persino a vedere la cupola.
Ci chiamano, l’attesa è finita. Oggi mia sorella e io su questo palco riceviamo un premio, il Premio Impresa Femminile Singolare
, dedicato alle donne che fanno impresa. Sì, ci siamo anche noi, come imprenditrici agricole, perché produciamo riso, anzi perché siamo donne e produciamo riso. Ci fanno alcune domande e, quando ci chiedono di raccontare qualcosa di noi, ci guardiamo e iniziamo a narrare di quel giorno, il giorno della prima grande prova, come lo chiamiamo noi. Le altre sarebbero venute dopo. A cominciare da quell’idea balzana
dei nostri genitori, così l’avevano definita alcuni conoscenti,