Lo strappo
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Il suo messaggio di addio a un padre molestatore e a una madre indifferente è l’impiccagione della bambola Nicoletta alla testiera del suo letto fiorito.
La sua vita in strada non inizia sotto buoni auspici: i due hippies che le danno uno strappo vorrebbero divertirsi con lei che è costretta a fuggire lasciandosi dietro le sue poche cose. In compenso ha imparato a bere forte, fino a stordirsi. Strappo dopo strappo giunge in un’isola semidisabitata della Sicilia: Filicudi. Qui, in compagnia di Pannacotta, un gatto bianco che l’ha temporaneamente eletta sua umana, cerca di riprendere in mano i fili della sua giovane vita già dolorosamente spezzata. Pochi incontri animano la sua solitudine: un lebbroso, una ragazzina matta, un giovane vestito da marinaretto, un carabiniere, un anziano pescatore, due gay tedeschi. Fino al giorno in cui incontra il primo amore, un giovane rivoluzionario bellissimo in soggiorno obbligato sull’isola…
Il romanzo è sorretto da uno stile asciutto che si coniuga con una trama forte pennellata senza formalismi. La scrittrice si avventura con garbo su terreni infidi e in tematiche complesse senza niente togliere alla crudezza degli eventi.
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Lo strappo - Cristina Pacinotti
11.
1
Non avevo ancora sedici anni quando ero scappata da casa. Avevo aperto a caso il libro di geografia e puntato il dito. Era uscita Ancona. Il nome suonava bene, il nome di un posto dove non ti possono trovare. Siccome vi andavano anche loro, mi ero unita a due hippies trentenni con le facce da balordi e un sacco pieno di orecchini e collane fatte a mano. Si era in maggio e per quale motivo, per il loro mercatino, avessero scelto proprio quella città sulla costa adriatica, se Adriatico doveva essere, l’ho capito dopo.
Da una settimana li avevo mollati ed ero sola, dormivo all’aperto, in un sacco a pelo. Gli unici vestiti erano quelli che portavo addosso. Mangiavo poco e male, i soldi che mi erano rimasti me li stavo bevendo tutti. A bere mi avevano insegnato Riki e Giangi, così si facevano chiamare quei due.
Mi mandavano a comprare il vino in un supermercato, quello che costava meno. Un giorno mi convinsero a rubare una bottiglia pregiata, a infilarla nella cartella. Il cassiere se ne accorse e mi rifilò un pugno. Avevo ancora un alone grigio verde sotto l’occhio destro.
Camminavo per ore, di solito sul lungomare. Camminavo e bevevo. Non parlavo con nessuno. Il mare mi aiutava a sentirmi ancora a posto. Di testa, voglio dire. E non è poco quando tutto il resto va di merda.
Sulla strada c’era polvere, sporcizia e caldo. Credo fosse pomeriggio, ma non ne sono più sicura. Questa cosa del sole che sull’Adriatico sorge dal mare e tramonta dietro le spalle, se guardi l’orizzonte, cosa normale se cammini sul lungomare o sei in spiaggia, mi confondeva le idee che, devo dire, erano già abbastanza confuse.
La strada era deserta, mi sentivo sporca e mi facevano male i piedi in quelle scarpe che chiamarle scarpe ce ne voleva di ottimismo e fantasia. Espadrillas che erano state rosse, ormai ridotte a due cenci scuciti e senza suola. Un inferno.
Un’auto si fermò di fianco. Feci finta di niente e continuai a camminare, cercando di assumere un’andatura più dignitosa. L’auto ripartì e il tale che era al volante mi seguì per un pezzo guidando a passo d’uomo.
Dolcezza,
disse il tale, lo vuoi un lavoro?
Ci pensai un attimo e poi chiesi: Che genere di lavoro?
Un bel lavoro, davvero,
disse l’altro, dai sali,
e si allungò per aprire. Per rifiutare avrei dovuto essere meno stanca e avere qualche lira in più in tasca.
Mi piacque la sensazione di morbidezza del sedile che accolse il mio corpo.
Se mi fai divertire,
disse quello, ti do diecimila lire.
A quei tempi diecimila lire non erano poche: volevano dire un biglietto per un treno che andava lontano. Lo guardai negli occhi e la mia mano partì da sola. Non sapevo cosa sarebbe successo quando la vidi dirigersi verso la cerniera dei suoi pantaloni. Un attimo ancora e seppi che non era per aprirla. Non si aprono le cerniere con le mani chiuse a pugno.
Lo colpii con tutta la forza di cui ero capace.
L’uomo emise un grido belluino. Io afferrai il volante, sterzai. Le ruote davanti saltarono sul marciapiede. Spensi il motore. Il tizio era piegato sul volante e faceva dei versi da morire dal ridere, se avessi avuto voglia di ridere. Tolsi le chiavi, scesi di corsa dalla macchina e mentre correvo per non sapevo dove gettai le chiavi dietro di me, senza guardare. Sentii il tintinnio sull’asfalto. Non avevo centrato un tombino, peccato. Svoltai dietro il primo angolo e rallentai il passo. Svoltai ancora e finsi di dimenticare l’incidente. Ma non erano passati dieci minuti che l’auto mi era di nuovo dietro, avanzando lentissima.
Bambola,
disse il tale, mi dispiace. Si vede che sei una ragazza perbene e non una puttanella. Anche se, devo dire, un po’ il culo da puttana ce l’hai. E poi cosa c’è di male a essere un po’ puttane?
Niente di male,
risposi, se lo si è.
Senti,
disse il tipo, non fare la difficile, sali, su. Non dicevo sul serio. Ho davvero un lavoro per te. Mi sembri male in arnese e voglio offrirti un lavoro onesto. Puoi tirar su un po’ di bei soldini e tornare dal fidanzato al paesello. Di’, ce l’hai un fidanzato? A lui non fai male lì come hai fatto a me, vero?
E con una smorfia di dolore indicò l’oggetto del suo discorso.
Merda,
dissi io. Mi sentivo maledettamente sola, a pezzi, e avevo un disperato bisogno di cibo e di un letto.
Salii in macchina. Partimmo. Da un secolo non stavo così comoda.
Gli hai fatto tanto male, sai?
insisté il tizio. Non potresti fargli una carezzina?
Le ho dato un assaggio ma se continua passo al piatto forte.
Il tono da dura mi venne bene. Mi aggiustai a sedere.
Lo sai che hai proprio un bel culo?
rincarò la dose lui.
Lasci perdere il mio culo.
Sei una capa tosta, eh? Anche il lavoro che ti propongo io è tosto. Lavapiatti: hai mai lavorato in un ristorante?
No.
È un lavoraccio, non è una passeggiata.
Sono stanca di passeggiare, basta che paghi, niente elemosine.
D’accordo,
disse lui, puoi chiamarmi Gino.
Okay Gino,
dissi io, il mio nome è Nicoletta.
Il mio nome non era affatto Nicoletta, ma da quando ero fuggita da casa avevo adottato il nome della mia ultima bambola. Avrei tanto voluto un cane ma mia madre prima aveva promesso, poi ci aveva ripensato e così, sotto l’albero di qualche natale prima, al posto del cane mi aveva fatto trovare quella bambola con la faccia da scema. Era una delle prime bambole che parlano, pisciano e costano una cifra. L’avevo lasciata attaccata alla testiera del letto, con una stringa da scarpe stretta intorno al collo e tanto di nodo scorsoio, il mattino in cui ero scappata da casa. Per bagaglio la sola cartella svuotata dai libri e riempita con le mie poche cose. Come ultimo saluto ai miei, quella povera bambola impiccata.
Andavamo senza parlare. Io adagiata sul sedile a gustarmi il riposo. L’auto si diresse fuori città, fece chilometri.
Dove si va?
chiesi, tanto per sapere.
A Rimini.
Ma è lontano,
feci io che non avendo altro da leggere, nel furgone di Riki e Giangi avevo consumato la cartina geografica.
Neanche tanto,
disse lui, stai tranquilla che ti porto in un bel posto.
Il tale raccontò di essere padrone di un ristorante, ristorante da Gino, guarda che combinazione. Disse che era originario di Napoli e conosciuto e benvoluto da tutti, che lo vedevo che bella macchina teneva. L’unico suo guaio era la moglie, una stronza che non capiva che con l’arrivo della stagione estiva c’era bisogno di personale. A Gino piaceva salire sulla sua bella macchina con gli interni di radica e i sedili di pelle (tocca, tocca, è pelle vera
) e andarsene in giro a cercarlo, il personale.
Femminile e con un bel personale,
disse e, dopo aver orientato lo specchietto della macchina per controllarsi la rasatura, si toccò il viso sbarbato di fresco e si mise a ridere.
La macchina correva, lui parlava, si faceva domande e si dava le risposte che voleva. Io guardavo fuori dal finestrino. Capannoni, cantieri, stazioni di servizio. Ogni tanto, tra un edificio e l’altro, avrei potuto vedere il mare se solo avessi avuto voglia di voltarmi verso Gino. Ma siccome non mi piaceva la sua faccia – con quel rossore da rasatura e le guance flaccide – rinunciavo al panorama e buttavo gli occhi dall’altra parte, dove non c’era niente che valesse la pena di essere guardato.
Per passare il tempo mi succhiavo