Cenerentola oggi calzerebbe il 41
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E come dice la nostra protagonista Clara, “Si sa che le separazioni sono così: prima uno dei due piange un sacco e l’altro diventa sarcastico, poi le situazioni si ribaltano”.
La ruota gira… finché c’è un criceto che ci corre sopra.
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Narrativa universale
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Cenerentola oggi calzerebbe il 41 - Monica Ferraioli
2014).
1.
Gesù quant’è bello
, penso mentre osservo Marco, mio marito, seduto dietro quel maledetto banco di questa nefasta aula di tribunale. Cioè, è fastidioso trovarsi in un’aula di tribunale per separarti dall’uomo che ami. Poi, se stai lì a rimuginare che daresti un braccio per tornare a casa con lui, è anche peggio. Che situazione di merda. È vero che gente come Liz Taylor e Richard Burton si è sposata e divorziata due volte e, attualmente, riposano in tombe vicine, ma non è che mi consoli molto.
Eppure il 26 maggio 1989 Marco disse: «Accolgo te, Clara, come mia sposa. Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita». Proprio così disse Marco quel giorno, e lo disse davanti a testimoni. Lui aveva 29 anni, la sottoscritta 26. Un’età giusta per sposarsi.
Celebrammo il nostro matrimonio un venerdì pomeriggio nella chiesa di Santa Maria della Piazza, nei pressi del porto di Ancona. Un notevole esempio di stile romanico, pianta rettangolare, divisa in tre navate, un sacco di moda per i matrimoni tipo radical chic. Fuori splendeva uno spettacolo di sole, mia madre piangeva e composizioni di roselline bianche addobbavano la navata centrale della chiesa.
Quello stesso giorno a Montreal, vent’anni prima, John Lennon e Yoko Ono iniziarono il loro secondo bed-in per la pace. In realtà il bed-in si sarebbe dovuto tenere a New York, ma John non aveva ottenuto il visto di ingresso negli U.S.A., mi sembra di ricordare per qualche intralcio come possesso di cannabis. Nella stanza numero 1742 del Queen Elizabeth Hotel i coniugi Lennon-Ono trascorsero sette giorni a letto. Invitarono un sacco di amici e conoscenti e tutti insieme registrarono il brano Give Peace a Chance
.
Il nostro 26 maggio Marco indossò un abito nero in shantung e, sopra la camicia bianca, un panciotto in seta grezza Collezione Rubelli. Marco è sempre stato quel tipo di uomo che indossa l’abito giusto al momento giusto.
Il mio vestiario fu molto classicamente da sposa, corpetto aderente, spalle scoperte e gonna di tulle molto ampia, il tutto a ricoprire i miei 55 chili per 1.70 di altezza. Niente strascico, e sulla testa un cappellino in paglia intrecciata impreziosito da una veletta leggera. L’idea di alzare e abbassare quel velo sottile davanti agli occhi mi era sembrata tanto romantica.
Mia nonna paterna cucì l’abito per l’occasione. Credo che fra tutte le mie amiche io sia stata l’unica a indossare per il matrimonio un abito home made, e ne ero fiera. Il mio abito bianco fu il suo ultimo lavoro di sartoria. Nel 1989 mia nonna era già oltre i settanta e aveva rinunciato da tempo ad adeguarsi alle nuove tendenze del prêt-à-porter. Ancora adesso, a novantasette anni, mia nonna Highlander ricama le cifre sulla sua biancheria e su quella di qualche altra ospite della casa di riposo Opera Pia Ceci
di Camerano, ridente cittadina collinare distante una quindicina di chilometri da Ancona.
Quando quella mattina mi specchiai con l’abito bianco, pensai al film Cenerentola: per la precisione non al particolare clou del ballo quando, a mezzanotte, l’orfanella si precipita a recuperare la carrozza che sta per trasformarsi in zucca, ma a quello in cui, dopo le nozze, scende le scale del castello glitter sotto braccio al suo principe e perde di nuovo la scarpina di cristallo. Accidenti, avrò visto quel film un milione di volte e mi hanno sempre commosso i passerotti che in quella scena le tengono sollevato il velo con il becco.
Però io avevo poco della Cenerentola tipo. Con il mio quarantuno pianta larga riuscii a trovare le scarpe giuste solo presso lo spaccio aziendale di un calzaturificio di Porto Sant’Elpidio. Qui pare che vendano scarpe da transessuale
pensai osservando sullo scaffale all’entrata un paio di stivali rossi laccati che, a occhio, dovevano essere almeno un quarantaquattro. Ma poi la commessa mi accompagnò al reparto scarpe da sposa
e un po’ mi rasserenai. Alla fine acquistai un sandalo in seta tacco nove.
Chissà dove saranno finite quelle scarpe. Ogni tanto me lo domando e ricordo che successivamente considerai l’idea di tingerle di nero e utilizzarle per qualche altra circostanza. Ma forse non c’è più stata l’occasione giusta, rare le occasioni nella mia vita che ho ritenuto opportune per indossare sandali in seta tacco nove, a prescindere dal colore.
Tornando ai fatti, perché sposarsi? Dunque, io lavoravo già da cinque anni presso il Comune di Ancona. In pratica appartengo a quella categoria di persone, estinte come i dinosauri, che dopo il diploma riuscivano a piazzarsi in buona posizione dentro una qualche graduatoria di concorso pubblico e nel giro di un paio d’anni a sistemarsi per sempre. Unico diversivo al mio percorso di vita fino a quel momento banale e scontato fu una vacanza studio di 15 giorni alla Liverpool School of English, Regno Unito, premio per il diploma di ragioniere e perito commerciale. ( It’s a hard thing to leave any deeply routine life, even if you hate it.
[1] - John Steinbeck, East of Eden).
Marco, invece, dopo la laurea in economia era stato assunto, con uno stipendio almeno doppio del mio, come Junior Manager dalla www.babini.it, ditta specializzata nella produzione di sedie, poltrone e divani per le aziende del mobile e dell'arredamento contract (Cura artigianale per produzioni di qualità
era scritto sulla brochure aziendale) e poi, ultimo ma non meno importante, ci amavamo.
Non voglio pensare sia stato uno di quei passaggi automatici della vita, uno di quei momenti in cui il contesto suggerisce quale sia la cosa giusta da fare e allora la fai punto e basta, senza rifletterci neanche tanto. O magari ci rifletti anche ma immagini che debba in ogni caso andare così. Più o meno come quando attraversi la strada: vedi illuminarsi di verde l’omino del semaforo pedonale e, diligente, inizi a muovere i piedi uno avanti all’altro come se il segnale fosse arrivato alle estremità senza passare dal cervello. Certe volte, mica c’entra niente il cervello.
Comunque fu un matrimonio con tutti i crismi, addirittura il padre di Marco scelse e pagò di tasca sua il noleggio della Rolls bianca che mi accompagnò alla funzione. Il mio futuro suocero mi aspettava lungo la strada proprio davanti alla chiesa e occupava fisicamente il parcheggio per la Rolls. Da pazzi parcheggiare una Rolls in quella strada stretta e a doppio senso, ma lui è sempre stato il tipo che quando si mette in testa di parcheggiare qualcosa in una certa posizione è difficile cambi idea.
Ammetto che mi sentivo abbastanza a disagio a bordo di quell’auto che, se fosse stata gialla, si sarebbe potuta confondere con quella di Robert Redford nel Grande Gatsby
ma quando, dopo la cerimonia, salì anche Marco, la faccenda fu più gradevole. Ho qualche foto scattata mentre eravamo entrambi accomodati sul sedile posteriore di pelle. Ce n’è una dove si vede Marco allentarsi il nodo del fiocco che portava al collo, con l’altra mano mi stringeva attorno alla vita e io mi appoggiavo a lui. Gesù, come eravamo felici. Ma che caldo quel giorno!
E chi ci pensava che a maggio si arrivasse a ventotto gradi?
Per il mio ingresso in chiesa e successiva scorta fino all’altare la scelta cadde sul marito di quella sorella di mamma che abitava a Roma, mio padre era morto da un po’ e lo zio fu valutato come il parente maschio più adatto all'incombenza. Marco giunse davanti al sacerdote sotto braccio a mia suocera. La donna indossava un tailleur color tortora e durante tutta la funzione sembrò salmodiare a bassa voce all’unisono con il prete che celebrava le nozze. A dire il vero io non potevo vederla, né sentirla. Me lo raccontò poi mia zia: «Tua madre a piangere e quella a salmodiare». Proprio così disse la zia.
Chissà, forse mia suocera pregava che mi prendesse un accidente prima del sì
, quella donna ha sempre pensato che non fossi all’altezza di suo figlio, non ero neanche laureata.
Mia madre si commosse davvero tanto, pianse dall’inizio alla fine della cerimonia. Chissà come si sarebbe comportato papà se fosse stato presente. Ero lì davanti all’altare e ogni tanto me lo domandavo. Non credo che avrebbe pianto, lui non era tipo da mettersi a piangere davanti a tutti, però magari sarebbe stato triste come la mamma, i genitori degli sposi sono sempre un po’ tristi al matrimonio dei figli.
Sì, andò tutto proprio bene. A parte Marco talmente nervoso che, quando prese in mano la fede per infilarla al mio anulare, se la lasciò scivolare dalle mani. Grazie al cielo il cerchietto d’oro cadde sul tappeto sotto la nostra panca e lo raccolse subito. Se fosse andato a finire sul pavimento della chiesa avrebbe potuto rotolare fino all’uscita. «Che imbranato che sei» gli sussurrai con tenerezza al momento del bacio e insieme ridemmo della sua goffaggine. Può capitare un po’ d’inesperienza la prima volta che ti sposi.
Fuori dalla chiesa lanciai il bouquet di roselline bianche, classico e chic allo stesso tempo, e Annalisa, la collega con quale divido ancora oggi l’ufficio fatture presso il Comune di Ancona, lo afferrò al volo. Si sarebbe sposata di lì a un anno ed è tuttora regolare con suo marito.
«Dove vanno in luna di miele?» disse mia nonna al padre di Marco mentre io mi accingevo al lancio. «A Fuerte Ventura» disse lui. «E dove sarebbe con precisione ‘sta località?» disse la nonna. «Con precisione non lo so neanch’io» disse quello che oramai era mio suocero. «Adesso vanno di moda questi posti che neanche si sa dove sono» disse ancora l’uomo. Poi fece spallucce. Forse aver portato a termine il parcheggio della Rolls era quanto si era prefissato per quel giorno e tutto il resto non lo riguardava, forse. In fondo aveva concluso la sua missione di vita, figlio unico laureato, piazzato e sposato come Cristo comanda, anzi forse anche un po’ di più. Un gran bel percorso da proprietario della ferramenta Acme
in Corso Carlo Alberto fino a segnaposto per la Rolls che avrebbe accompagnato rampollo e nuora al Fortino di Portonovo dove li aspettava una cena nuziale da circa centoventimila lire a commensale.
Comunque, che meraviglia questo ristorante sulla spiaggia, e poi quel giorno l’aria immobile era satura del profumo salso del mare e faceva talmente caldo che, giuro, avrei dato un mese di stipendio per potermi sfilare l’abito che mi si era incollato addosso e tuffarmi nell’acqua trasparente. Sono certa di non aver mai sofferto tanto il caldo come il giorno in cui mi sono sposata.
Per essere sincera, io all’inizio della programmazione matrimoniale avrei tanto desiderato un déjuner sur l'herbe tipo quello del quadro di Manet, cioè una sorta di picnic dove a ogni invitato si forniscono un plaid per accomodarsi sull’erba e un cestino di prelibatezze. Ho sempre avuto una fissa per i picnic. Se avessimo optato per il déjuner, l’organizzazione Perfect Wedding prevedeva per i non giovanissimi poltroncine in vimini e alcuni tavoli pieghevoli, ma solo per gli over 60, o magari anche per chi, con regolare certificato medico, avesse dimostrato la difficoltà a sedersi su un prato.
«Se permetti, per il matrimonio di mio figlio» e grazie a Dio non aggiunse del mio unico figlio
«preferirei che tutti avessero una sedia.» fu l’uscita di mio suocero a proposito della faccenda. E Marco, che con le sedie si guadagnava da vivere, fu d’accordo. Così fu scartato il picnic assieme all’organizzazione Perfect Wedding. In fondo ci si può sposare senza l’intervento di un’agenzia, una volta ci riuscivano tutti.
Ricordo che, durante il solito passaggio degli sposi fra gli invitati, al tavolo dove sedevano mia madre, mia zia e qualche cugina che non si era potuta lasciare a casa, l’argomento fosse la digestione del nostro menù matrimoniale. Pensai che fosse sconcertante come certe persone trovino sempre il modo di parlare dei propri intestini, ma tutto il resto fu decisamente fantastico.
Dopo il banchetto ballammo sulla terrazza con vista sul mare di quella residenza che, duecento anni prima, era stata una fortezza militare. Cioè, se uno ci riflette è balordo festeggiare il proprio matrimonio all’interno di una ex fortezza militare, è come se desse un po’ l’idea di reclusione. Ma di certo all’epoca il pensiero non mi sfiorò. Ero troppo impegnata ad alzare e abbassare la veletta davanti agli occhi.
Con la mia lucidità di astemia, o meglio di una che preferiva evitare di bere perché non si sa mai che effetto l’alcol avrebbe potuto avere, non potei proprio trovare nulla che non fosse perfetto. Anche la fede caduta dalle mani del mio fantastico marito mi apparve come un inaspettato particolare comico.
Le foto per il book del giorno più importante della nostra vita furono scattate sul luogo. Quel mare di un azzurro intenso, il Monte Conero sullo sfondo e quella baia con le pietre tanto bianche da meritare il nome di S piaggia dei confetti, sono lo sfondo preferito da tutti gli sposi del luogo. C’è da giurarci che ogni coppia di anconetani abbia almeno una foto del gran giorno scattata a Portonovo e i più, di sicuro, incorniciata in argento sul mobile importante della sala. O meglio, magari gli anconetani che si sposano d’inverno non hanno foto con sfondo marino, dipende dalle giornate. Diciamo che spesso il mare d’inverno è un po’ triste come sfondo di foto matrimoniali.
Quando entrammo nella nostra nuova casa, verso le cinque del mattino, si rispettò il rito e attraversai l’uscio fra le braccia di Marco. Secondo gli antichi romani porta male se la sposa inciampa al suo primo ingresso, ed è sempre meglio non sfidare la malasorte. Non si contemplano effetti nefasti nel caso che a inciampare sia lo sposo con la sposa fra le braccia, di certo sarebbe una caduta ben più rovinosa per entrambi. C’è caso che ti fratturi qualche osso e passi la honey moon in trazione.
Tralascio i particolari relativi al consumo del matrimonio, eravamo entrambi stanchissimi e, visto che nessuno dei due era vergine, direi che avevamo e avremmo passato nottate molto più erotiche.
Gli storici non sono concordi sulla data di nascita di Alessandro Magno; si parla soprattutto del 20 o 21 luglio del 356 a.C.. Alessandro III di Macedonia, universalmente conosciuto come Magno, dal latino magnus che significa per l'appunto grande
, in soli dodici anni conquistò l'intero Impero persiano arrivando quasi ai confini della Cina. Dotato di coraggio e valore, aveva un grande ascendente sui soldati che spronava partecipando direttamente ai combattimenti.
Alessandro, il nostro primo figlio, nacque intorno alla mezzanotte del 20 luglio 1991 a Villa Igea, quella clinica privata con ampi corridoi che, in ognuno dei sei piani, si concludono in un ambiente a vetrate arredato con poltrone in vinilpelle e piante rigogliose per la smisurata quantità di luce che penetra dall’esterno. Praticamente ognuno di quegli ambienti somigliava alle terrazze di quei sanatori dei primi anni del novecento dove i tubercolosi prendevano il sole distesi su chaise longue con plaid che li coprivano fino al petto.
Gesù che nottata. Ci eravamo accordati fin dalla prima visita dal ginecologo che Marco avrebbe assistito al parto. Andava un sacco in quel periodo che i padri assistessero ai parti delle mogli. Solo che, quando la mia situazione si fece di sorpresa improcrastinabile, mio marito era sceso nell’atrio dell’ospedale per un caffè alla macchinetta automatica e, al suo ritorno, io non c’ero