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I Vivi, i Morti e gli Altri
I Vivi, i Morti e gli Altri
I Vivi, i Morti e gli Altri
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I Vivi, i Morti e gli Altri

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About this ebook

L'Apocalisse zombie secondo Claudio Vergnani è uno sguardo su una società in declino, com'è in fondo l'Italia di oggi. I morti camminano sulla Terra e naturalmente c'è chi se ne approfitta. Ma non Oprandi, ex militare di mezz'età, stanco e disilluso, che per tirare a campare dà l'estremo saluto ai parenti zombie dei vivi che vogliono la pace per i propri cari. Quando viene assunto dalla facoltosa signorina Ursini, intuisce da subito che il compito affidatogli non è dei più semplici: recuperare il padre non-morto dalla cappella di famiglia in cui è sepolto e trasportarlo fino a un punto di raccolta sicuro in modo che la figlia possa dargli degna sepoltura. In cambio, lei lo condurrà in un posto sicuro tra le montagne della Svizzera. Ma la strada è tutta in salita. Sulla strada di Oprandi si alternerà una selva di personaggi difficili da dimenticare: dalla seducente Jasmine, al folle Classicista, dalla tenera Bibi all'irruenta Marta, e poi gruppi armati, sette votate alla sopravvivenza, bande di motociclisti, strani esponenti religiosi, covi di emarginati allo sbando. Alla fine di tutto, Oprandi capirà che, tra i vivi e i morti, il vero pericolo viene da coloro che, pur non essendo ancora morti, hanno del tutto perso la propria umanità. 
Nell'ebook è presente il racconto lungo inedito Casa dolce casa, di Claudio Vergnani.
LanguageItaliano
PublisherNero Press
Release dateNov 19, 2018
ISBN9788885497306
I Vivi, i Morti e gli Altri

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    Book preview

    I Vivi, i Morti e gli Altri - Claudio Vergnani

    Seeger

    Prologo

    L’uomo seduto sulla poltrona di pelle – in ombra rispetto al chiarore tremolante delle candele e dei ceri - è di età e di altezza medie. Il viso è ancora giovanile, nonostante i capelli, tagliati corti, siano sale e pepe. Ha il fisico atletico di chi abbia svolto per buona parte della propria vita una costante attività fisica. In effetti è stato un soldato di corpi d’élite, anni addietro, e anche ora, quando ne sente il bisogno, solleva pesi, esegue flessioni sulle braccia e e trazioni alla sbarra. Di tanto in tanto corre, mai più di quattro o cinque chilometri alla volta, e non per velleità atletiche, ma per dimostrare a se stesso che è ancora in grado di farlo e per non soccombere all’età che avanza.

    Il volto, scuro della barba di tre giorni e parzialmente coperto da una vecchia shemag, è regolare, né bello né brutto; la pelle è ancora fresca, ma le borse sotto gli occhi e lo sguardo che a volte tende a farsi vacuo tradiscono il suo vizio. Beve. È in grado di contenersi, è vero, ma l’alcol fa parte ormai da tempo della sua vita.

    Nonostante il caldo – da più di sei mesi la temperatura massima non scende sotto i 35 gradi - indossa un cappotto di lana, scuro, a un petto, di taglio antiquato. A suo tempo era un capo elegante, ma ora è sdrucito e le tasche sono sformate, una dalla presenza costante di una bottiglia di whisky piena a metà, l’altra da alcuni caricatori di Mp5 Heckler & Koch. A uno sguardo attento la stoffa rivela diversi strappi ricuciti senza troppa cura. Sotto il cappotto si intravede una t-shirt nera, sbiadita dai tanti lavaggi. I pantaloni cargo sono larghi e sgualciti. Gli anfibi, chiazzati di sangue secco, logorati dall’uso, non sono più spazzolati da mesi.

    L’uomo indossa anche guanti di pelle robusti, di buona qualità. Dalla manica del cappotto spunta un massiccio Casio Pro Trek in titanio. È un orologio moderno, che pare quasi fuori luogo in quell’abbigliamento demodée. È un oggetto particolare dalle molte funzioni, tra cui un rilevatore della temperatura, una bussola e l’indicatore delle fasi lunari.

    La stanza è uno scantinato angusto, buio, opprimente. I muri sono scrostati e i buchi nell’intonaco lasciano intravedere i mattoni impolverati. I mobili sono vecchi, malmessi, il pavimento in pietra è chiazzato di residui di cibo e bevande. L’unica apertura sull’esterno è una finestrella socchiusa. Fuori non spira un filo d’aria, il sole ha battuto feroce contro le pareti tutto il giorno, rendendo quel luogo simile a una fornace. Da lontano giunge il lamento di una sirena; si fa acuto e lacerante, poi piano piano affievolisce e cessa.

    L’uomo si deterge il viso sudato, poi si alza e si avvicina al catafalco. Storce il naso al sentore penetrante di gigli appassiti e a un altro, agrodolce, che ormai ben conosce. Un tempo, avrebbe potuto sperare di vivere la sua vita senza mai doverne sentire il lezzo, ma oggi gli è ormai fin troppo familiare, in tutte le sue nauseanti gradazioni: l’odore della morte, della corruzione, del disfacimento. La morte che ora è entrata in quella stanza.

    Il corpo è stato collocato in fretta, alla bell’e meglio, in quella cantina. Ma c’è stato il tempo di portare dei fiori, accendere candele, aggiungere qualche paramento sacro. Non era ancora morto quando è stato portato giù dai familiari, ma quando l’uomo è arrivato ha subito intuito che i tanti morsi subiti, il pallore cereo del volto e il rantolo affannoso indicavano che la fine era vicina.

    Poi accade. Un impercettibile agitarsi delle fiammelle delle candele poi tutto è di colpo immobile. Il silenzio è profondo. Qualcosa ha lasciato quella stanza claustrofobica. L'uomo percepisce un senso di assenza quasi palpabile.

    Si china sul corpo, cercando di non guardare il volto coperto di sangue, lacerato dai morsi, scuro di grumi e tumefazioni. Toglie la sicura all’MP5 e inserisce il colpo in canna.

    Si accorge che nella stanza in cima alle scale i parenti si sono azzittiti. Ne percepisce la tensione, la stanchezza, il senso d’impotenza e di colpa. Qualcuno fa capolino dal pianerottolo, ma l’uomo gli fa cenno di rientrare.

    Forse pensano che dovrebbero essere loro a occuparsene? Che sciocchezza! Chi deve fare le cose difficili? Chi può.

    L’uomo appoggia la canna della mitraglietta alla testa del cadavere sdraiato sul catafalco improvvisato. Ma ha bevuto troppo e ora gli trema la mano. Affonda la canna nella pelle cerea della fronte, lacerandola.

    Attende un segno, per quel che vale.

    Passano i secondi, e infine il segno viene. Gli occhi del cadavere si spalancano. È l’unica cosa che si muove. Ruotano nelle orbite infossate, come quelli di un camaleonte, mobili, sporgenti e mostruosi.

    A un certo punto incrociano quelli offuscati dell’uomo e si fermano. Il cadavere apre la bocca e fa per alzarsi. L’uomo esplode la scarica. La testa si deforma, si gonfia da un lato – come tirata da una forza invisibile - perdendo i lineamenti e sprizzando sangue. Il corpo ricade sul tavolato.

    L’uomo rimuove il silenziatore e lo ripone in tasca. Copre con il lenzuolo il volto devastato.

    Si allontana di qualche passo, barcollando per gli effetti dell’alcol, evita la poltrona e si lascia scivolare a terra. Estrae il whisky e beve una lunga sorsata.

    Dopotutto il proverbio ha ragione: le cose difficili deve farle chi può. Peccato che lui non sia tra questi.

    Sale le scale ed esce dallo scantinato senza parlare. Al piano di sopra nessuno gli rivolge la parola. C’è imbarazzo, tristezza, un senso sospeso di sgomento che rallenta i movimenti. Intasca il denaro per il lavoro svolto ed esce in strada.

    Nonostante il caldo afoso ha deciso di camminare. Il buio, i pochi lampioni accesi, lo riportano a un’idea di autunno perduta per sempre. Ma non c’è gente per quelle strade, né aria fresca, solo spazzatura, cartacce, automobili che passano veloci con i finestrini chiusi, e la maggior parte delle finestre delle case sono buie.

    Devo andarmene da qui, pensa.

    Il problema è che non è chiaro – non è chiaro nemmeno a lui – dove sia ‘qui’ di preciso. Lo scantinato appena lasciato? La città? O è un luogo indefinito (e nello stesso tempo definitissimo) che rappresenta la sua stanchezza, la sua paura, la sua repulsione?

    L’uomo avanza stringendo le mascelle, come se quel gesto servisse a tagliar fuori quelle sensazioni angosciose che ormai conosce così bene. Ma ovviamente non è così. L'oppressione, la paura, quella punta acuminata di disagio che è confitta da mesi tra stomaco e diaframma non lo lasciano. E mentre sistema l’arma a tracolla, qualcosa dentro di lui rimugina confusamente su quel disperato bisogno di andarsene. Non sa più dove, e soprattutto da cosa, fuggire. Allontanarsi da qualcosa di tangibile, sarebbe semplice, ma non è quello il punto. C’è dell’altro.

    Sente che questo dubbio avrà un peso decisivo nei prossimi giorni ma non sa in che modo.

    Incrocia un carro funebre. All’interno dell’auto, la bara è scossa da violenti tremiti. È qualcosa di terribile in un contesto già macabro. I parenti, che seguono la macchina, tengono gli sguardi inchiodati a terra. I becchini sono pallidi, impacciati, impauriti. Guardano continuamente indietro, per controllare che le viti della cassa tengano, che il legno non ceda. L’auto ondeggia. Nessuno si decide a muoversi. L’autista incrocia lo sguardo dell’uomo. A poco a poco anche parenti e amici si fermano per guardarlo. Sembrano intuire che lui possa fare qualcosa.

    Ma chi credono che io sia? Ho paura come tutti, la differenza è che sono solo un po' più disperato…

    Non c’è bisogno di parlare. La cassa sta cedendo. L’uomo raggiunge la vettura, spalanca il portellone e si protende all’interno del carro funebre. Appoggia la canna dell'arma all'altezza della testa del corpo all'interno e spara attraverso il legno della cassa. Quando il fumo si è diradato la bara è di nuovo immobile.

    Non ci sono ringraziamenti né commenti; solo qualche sospiro di sollievo. Qualcuno forse vorrebbe mettergli in mano dei soldi, ma ormai l’uomo è lontano.

    Devo andarmene da qui.

    Prima parte

    Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all'improvviso vi sorprenderete a fare l'impossibile

    San Francesco d'Assisi

    I

    «Non ha caldo con quel cappotto?» domandò l’anziana signora al mio fianco. Indossava un vestito di cotone a fiori a maniche corte, di quelli che un tempo trovavi a pochi soldi in una qualsiasi merceria.

    «Un po', ma non ci faccio più molto caso».

    Era agosto inoltrato. Secondo il mio Casio Pro Trek da polso, c’erano quasi trentasei gradi all’ombra del colonnato. Giù, nel campo centrale del cimitero, il sole picchiava impietoso. Croci, lapidi e sepolture ne parevano annientate. Malgrado ciò, il cappotto scuro di lana non mi dava troppo fastidio.

    «È per i morsi, vero?»

    La guardai. Fragile, candida, sorridente. Composta e apparentemente serena nonostante tutto. Un’insegnante di letteratura in pensione.

    «Sì, signora, è per i morsi».

    Fui sul punto di aggiungere qualcosa di rassicurante, ma lei mi anticipò.

    «Ha proprio ragione. Fa bene. Lei è giovane. Ha il dovere di proteggersi».

    Pensai che a quasi cinquant’anni non ero poi tanto giovane, ma mi sembrò indelicato farlo presente a una persona che aveva quasi il doppio della mia età.

    «Io la mia vita l’ho vissuta» continuò «cos’ho da perdere? Ma non voglio tornare. Quello no. Non temo le cose. Non ho mai avuto paura in vita mia. Non ho avuto paura né di Mussolini né dei tedeschi. Nemmeno quando ho perso mia figlia di tre anni per una polmonite. La vita non mi ha mai fatto paura. Ma so cosa non voglio. L’ho sempre avuto chiaro in mente. Non volevo vivere da serva, né morire senza figli. Non volevo un marito padrone. Non ho mai voluto essere commiserata. E ora non voglio ritornare».

    Sospirai, non sapevo che dire. Ma tacere significava dare spazio al rombo delle betoniere che rovesciavano quintali di cemento a presa rapida sulle sepolture.

    «Qualcuno sostiene che quello che sta accadendo sia una cosa naturale» dissi «solo più strana e tragica. Dicono anche che passerà».

    La donna alzò il braccio pallido per indicare betoniere e tombe sotto di noi. Il riflesso del sole sul metallo dei macchinari era abbagliante.

    «Lei vede la mano di Dio in ciò che sta accadendo?» domandò.

    Guardai di nuovo i camion dalle lamiere roventi che schiacciavano erba, fiori, siepi e tumuli, rovesciando cemento gorgogliante sulle lastre tombali che, fino a qualche mese prima, erano state il doloroso conforto di chi desiderava, anche solo per qualche minuto, rimanere più vicino al proprio congiunto scomparso. Ora la gente ne aveva paura. Si udì il fischio prolungato di una sirena, e le macchine si arrestarono.

    L’improvviso silenzio cadde come qualcosa di fisico. Gli operai scesero dagli automezzi e si raggrupparono intorno a un giovane ingegnere dall’aria confusa. Osservava le colate di cemento che si rapprendevano sui tumuli come se assistesse al tramonto dei propri ideali e delle proprie speranze. E forse era così. Un operaio gli elargì una pacca incoraggiante sulla schiena, un altro gli passò una bottiglia di birra. L’uomo bevve senza fiatare, lo sguardo fisso sul cemento che si compattava al sole.

    In quella quiete improvvisa, ci giunsero cristallini, attraverso l’aria immobile, dei rumori che, fino a poco prima, erano coperti dal rombo catarroso dei motori.

    Dietro di noi, oltre il porticato, dalla parete fitta di loculi, proveniva un grattare lento e continuo. Percepii una pausa, e un rumore secco. Un dito o un’unghia - che già aveva penetrato la bara - si spezzava contro il marmo della lapide.

    «No, signora» risposi alla fine «non vedo la mano di Dio in tutto questo. Qualcosa ha tolto ai morti l’anima e poi li ha abbandonati, condannandoli a vagare su questa terra. Non conosco il motivo, ma non può essere stata la mano di Dio».

    Scendemmo lungo la scala di pietra, sudicia di terra e detriti, fino ai sotterranei. Eravamo nella parte più antica del cimitero. Attorno a noi atri, gallerie, colonnati, portici, cripte dove la gente comune era stata inumata accanto alle tombe monumentali dove riposavano personaggi illustri spirati secoli prima.

    Protetti da spesse mura e dal soffitto a livello del terreno, i sotterranei erano più freschi rispetto all’esterno. La luce pioveva da feritoie che si aprivano a intervalli regolari lungo i muri ricoperti di lapidi. Lampade votive spente da mesi erano ricoperte da ragnatele grevi di polvere e di insetti morti e svuotati. Eravamo circondati da pietra sgretolata, marmo, granito, residui di fiori secchi e sbriciolati. I cunicoli erano larghi poco più di un metro. C’era meno caldo laggiù, ma l’aria era pesante, fetida, irrespirabile.

    «Vado avanti io, signora» dissi, infilandomi i guanti di pelle «non dovrebbe esserci pericolo, però…»

    Non completai la frase, non ce n’era bisogno. Ne avevamo già parlato. Le inumazioni nelle nicchie erano le più sicure. Cassa metallica, bara – il più delle volte solida – il loculo di pietra e la lapide di marmo. Pochi erano riusciti a uscirne. Per ora. Il problema era che avevano tempo, e non si fermavano mai.

    Avanzammo tra fotografie sbiadite, lapidi screziate di sporcizia e guano di piccione. Qua e là parte delle lettere di bronzo che componevano i nomi avevano ceduto ed erano finite a terra. Oltrepassammo la carcassa di un gatto confuso nella spazzatura. Un corpicino rinsecchito e perso in un gomitolo di ragnatele, polvere, intonaco sbriciolato, frammenti di fiori marci. Gli occhi erano colati fuori dalle orbite e si erano rappresi come muco tra i peli del muso. I denti però continuavano a mordere – uncinando la sua stessa lingua - l’estremità di una scopa di saggina. Lo scavalcai, spingendolo nel mucchietto di spazzatura e – ricacciando il disagio - schiacciai la minuscola testa con la punta metallica dello stivale da lavoro, perché smettesse di muoversi nella morte, perché tornasse solo e soltanto ciò che doveva essere.

    Avanzavamo tra i raschi attutiti dalle pareti di pietra, i colpi soffocati che provenivano da oltre le lapidi murate, lo strusciare dei talloni contro il fondo delle casse, i risucchi e i gemiti, i sussurri, i versi rabbiosi e strozzati, lo stridere delle unghie dove le pareti della bara avevano ceduto. I piagnucolii smorzati, interrotti da improvvise raffiche di colpi e urla.

    Avanzavo imbracciando l’MP5 Heckler & Koch.9 Parabellum che tenevo ormai sempre con me, coperto dal cappotto. Un’arma lunga poco meno di un metro e pesante nemmeno tre chili. Procurata da un ex commilitone che le faceva entrare – sfruttando i tempi difficili – direttamente dal Pakistan. Niente di che, dal punto di vista del potere d’arresto, ma non mi andava di girare con qualcosa di troppo ingombrante. Avevo deciso che la maneggevolezza, in determinate circostanze, poteva essere non meno preziosa della potenza. Alla signora non dava fastidio. Aveva già visto sparare durante la seconda guerra mondiale, e poi di nuovo, in circostanze completamente differenti, settant’anni dopo. E ora quella donna mi indicava la strada con sicurezza nell’intrico dei sotterranei abbandonati da tempo, all'apparenza incurante delle centinaia di morti ritornati alla vita dai quali ci separavano solo pochi centimetri di pietra corrosa.

    Eravamo lì per il marito morto quindici anni prima. Dal giorno in cui i morti erano risorti, molte persone non sopportavano l’idea che i loro cari si contorcessero ululando di furia e di fame nella prigione senza luce della sepoltura; ed erano disposte a pagare perché qualcuno si occupasse di ridare loro il riposo, quello vero, eterno.

    In questo caso, quel qualcuno ero io.

    Ero stato tra i primi a prendere atto che i morti resuscitati erano davvero come gli zombi dei film. Affamati di carne umana viva, senza pace, senza pietà. Le prime timide notizie erano state diffuse via radio da speaker che parlavano con l’imbarazzo di chi si senta vittima di uno scherzo, ma quando, per la prima volta, me ne ero trovato uno davanti, nella desolazione plumbea di una giornata di pioggia, avevo invece provato un vago senso di irrealtà e di tristezza. Affascinato, avevo rallentato l’auto fino a fermarmi sul ciglio. Il cadavere si trascinava ondeggiando tra gli arbusti a lato della via. Mentre si avvicinava lentamente, avevo osservato il nulla impietoso e incomprensibile dietro quegli occhi morti. Ne avevo percepito la fame e avvertito l’odore di ammoniaca, di proteine putride, di marcio. La pioggia rigava quel volto conciato, senza naso, senza labbra, cosparso di terra e larve, di muffa e poltiglie, che si trascinava in strada inciampando nei propri intestini, dopo essere uscito da un camposanto di campagna. Nemmeno per un istante ero rimasto incredulo. Era uno zombi, era lì e veniva per sbranarmi.

    Ero rimasto a lungo a osservarlo, memorizzando ciò che vedevo fin nei più infinitesimali, rivoltanti particolari, fino a che il cadavere, ringhiando sordo - un verso cavernoso che mi parve risalire direttamente dall’inferno - si era avventato contro l’auto, con furia belluina, fracassando il parabrezza.

    Animandomi di colpo, mi ero buttato fuori dalla macchina, lasciandola indietro come sapevo che stavo lasciando indietro ciò che era stata la mia vita fino a quel momento, gridando e ridendo isterico, pensando che avevo davvero visto uno zombi, e che davvero voleva divorarmi, e ridevo, continuavo a ridere e correvo.

    Andai avanti così a lungo, incurante della pioggia calda, la mente sveglia e ricettiva come mai prima di allora, e nello stesso tempo ottenebrata dall’orrore, dallo sgomento, dalla profonda e terribile consapevolezza che, se il giorno del Giudizio era finalmente arrivato e i morti erano risorti, non sarebbe però venuto nessuno a giudicarli.

    Avevo cominciato provvedendo ai miei genitori, morti da anni. Era stato orribile, ma avevo rotto il ghiaccio e, alla fine, avevo provato sollievo.

    Per sfogarmi, per condividere, forse per spiegare a me stesso, ne avevo parlato con qualcuno, e la notizia era circolata.

    Mi chiesero di farlo di nuovo, per altri, questa volta. Si offrirono di pagarmi. La legge scricchiolava ormai paurosamente. A volte le cose vanno molto in fretta.

    In fondo al corridoio vidi i frammenti di una lapide franata sul pavimento. Dal loculo sporgeva l’estremità marcita di una cassa. Ondeggiava.

    Mi fermai. Non c’erano altre strade; se volevamo proseguire dovevamo passare di lì. Tolsi dalla tasca del cappotto il barattolo del Vicks Vaporub e me ne spalmai una dose abbondante alla base delle narici. Indicai alla donna ciò che avevo visto. Sentii il suo corpo rattrappirsi sotto la mia mano, così mi girai per guardarla bene in viso.

    «Mi dica lei, signora. Possiamo continuare o tornare indietro. In qualsiasi momento lei voglia, ce ne torniamo fuori».

    I miei scrupoli non avevano motivo d’essere.

    «Andiamo avanti» disse, di nuovo tranquilla.

    «D’accordo. Lei però ora non si muova. Rimanga lì».

    «Rimango qui» confermò.

    La bara sobbalzò, un mugolio roco provenne dall’interno. Alcuni insetti sgusciarono dall’orlo del loculo e sciamarono a terra tra la polvere.

    «Può essere che ci sia da sparare» spiegai, mentre avanzavo «ho il silenziatore, quindi non farò rumore, ma non escludo un po’ di baraonda».

    Poiché non rispondeva mi volsi di nuovo. Nel suo volto ebbi l’impressione di ravvisare – al di là dello sfacelo del tempo – i tratti giovanili che una volta lo avevano reso desiderabile. Una luce morbida e tenera negli occhi ancora belli. Ma forse era solo la mia immaginazione che galoppava per sfuggire alle brutture che avevo intorno.

    Mi fece un cenno.

    «Mi dica tutto, signora» la invitai dolcemente, tornando indietro.

    «Aspetti».

    Slacciò il primo bottone del suo vestito a fiori e sfilò dal collo una catenina. Me la porse.

    «San Cristoforo» spiegò «il patrono dei pesi gravosi da portare».

    Feci un respiro profondo e la sferzata di mentolo, eucalipto e canfora del Vicks mi penetrò direttamente nel cervello.

    «Grazie. È proprio quello che fa per me».

    «Ora vada. E si ricordi: non voglio ritornare».

    «Non ritornerà, signora. Ha la mia parola».

    Arrivai alla fine del corridoio. La luce del mattino penetrava da una serie di finestrelle sghembe impiastrate di guano e brandelli d’intonaco. Non spirava un filo d’aria. Il pulviscolo sospeso era immoto. Guardai la cassa oscillante e poi i frammenti della lapide. La data di morte risaliva a dieci anni prima. Non avevo una conoscenza medica specifica dei danni che la corruzione della morte infligge a un corpo umano, anche se un po’ di esperienza me l’ero fatta quando ero stato militare in Libano e Somalia prima, e in Bosnia poi. Era comunque nulla in confronto allo spettacolo dei morti ritornati in vita che, da ormai sei mesi, mi aveva permesso di acquisire un’esperienza concreta.

    Avevo imparato che molto dipendeva dai termini della sepoltura – umidità, temperatura, tipo di terreno - e in parte dal caso. Dopo dieci anni, di un cadavere tumulato in un loculo non restava molto, a meno che non si fosse in qualche modo mummificato. Ma, coi tempi che correvano, anche pochi miseri resti potevano creare enormi problemi. Se al cadavere rimaneva una bocca allora avrebbe potuto mordere – e ci avrebbe provato, nessun dubbio su questo – e se ti avesse morso allora saresti stato spacciato, molto peggio che morto. Qualche istante per assaporare il terrore di camminare nell’aldilà con il tuo corpo in disfacimento ancora sulla terra, e poi la trasformazione in un orrore a cavallo tra la tomba e il mondo dei vivi. L’inferno sulla terra. Non riuscivo a immaginare castigo peggiore.

    Puntai l’MP5. Tolsi la sicura e selezionai il tiro a raffica. Ora dalla bara non proveniva più alcun rumore. Mi arrestai, bloccato dall’impressione che quel corpo morto attendesse me. Scacciai quel pensiero e mi voltai per controllare la donna. Era curva in avanti, le mani giunte all’altezza del petto. Si toccò sotto la gola e mi indicò. Impiegai qualche secondo a capire che si riferiva alla catenina con San Cristoforo. La presi tra le dita e la alzai verso di lei. Sorrise. Sorrisi anche io. O almeno ci provai.

    Toccai la bara con la canna dell’MP5. Non si mosse nulla. Sempre utilizzando la canna, iniziai a sospingere lentamente la cassa di nuovo dentro il loculo. Strisciando contro la pietra, il legno marcio produsse un cupo stridore. Lo spostamento alzò effluvi stantii ai quali non mi ero ancora abituato, e che solo in parte il Vicks domava. Presi dallo zaino la torcia a led e la puntai nella fessura tra il coperchio e la cassa. Intravidi un movimento torpido di stracci, monconi d’osso scuriti dagli anni, ciuffi di capelli come stoppa, e il biancheggiare di quelle che mi parvero le dita di una mano. E quella mano stava avanzando verso l’orlo della bara. A quel punto spinsi con forza il feretro all’interno del loculo, facendolo sbattere contro la parete di fondo.

    Il fragore fece trasalire la donna. Infilai la canna dell’MP5 nella fessura, dove intuivo lo sforzo penoso di un cranio che premeva per uscire. Rimasi quasi un intero minuto a sudare con l’arma puntata, il dito contratto sul grilletto, chiedendomi se dovessi o meno sparare. Ma non sparai. A malincuore, ritirai l’arma e mi asciugai il sudore sul viso. Non avevo abbastanza proiettili per permettermi di usarli su qualunque cosa non fosse il mio bersaglio o una minaccia concreta. Ed ero sicuro che con il tempo – forse molto presto - di munizioni ci sarebbe stato sempre più bisogno.

    Abbandonai i miseri resti intrappolati nella bara. Feci segno alla donna di raggiungermi. Passò di fianco alla bara, che ancora sussultava, senza guardarla. Dal loculo iniziò a provenire un lamento soffocato. Era uno sfiato di sofferenza, orrore e frustrazione.

    Si lamenta perché non l’ho ucciso?

    Cercai di concentrarmi su ciò che dovevo fare, escludendo ciò che non potevo fare.

    Sfilammo lungo un altro paio di cunicoli, ignorando il raschiare di unghie e dita ossute contro la pietra delle lapidi, il frusciare dei corpi che si rigiravano dentro le casse, i sordi, atroci mugolii che filtravano, assieme a lezzo di corruzione, dalle crepe del marmo.

    Sotto il cappotto, dorso, schiena e natiche erano fradici di sudore. Volevo concludere e andarmene. A un certo punto udii alle nostre spalle un rumore di passi affrettati. Feci scudo col mio corpo alla donna e puntai l’arma. All’imbocco del corridoio si profilò la sagoma di un uomo. La semi oscurità e il pulviscolo rendevano i contorni sfocati.

    Rimanemmo qualche secondo a fissarci, concentrati per capire se stessimo guardando un vivo o un morto. Ma eravamo entrambi vivi, almeno per il momento. Abbassai l’arma.

    «Non potete stare qui» disse l’uomo, tirando un sospiro di sollievo. Era di mezz’età, sporco e sudato, chiuso in una tuta da lavoro chiazzata di sudore, terra e intonaco.

    «Lo so» risposi.

    «È crollato un altro muro, laggiù, nella parte est. È un putridume. Non è un bello spettacolo».

    «Lo so» ripetei.

    Guardò me, poi la donna, infine l’arma che avevo abbassato. Sapeva cosa ero venuto a fare. Compresi che non gli piaceva che fossi lì, né che fossi armato, tanto meno gli piaceva ciò che avrei fatto. Non gli piacevo nemmeno io, probabilmente. Ma era anche consapevole della situazione e di come i tempi fossero cambiati. Lo spazio per le illusioni e le speranze negli ultimi mesi si era drasticamente ridotto.

    «Faccia presto» concesse «stiamo sigillando gli accessi. Porte, finestre, scale, tutto».

    «Andiamo e torniamo».

    Scosse la testa.

    «Non so come facciate a stare quaggiù».

    Non risposi. Non lo sapevo bene nemmeno io. In ogni caso lui non attese alcuna spiegazione. Girò sui tacchi e si affrettò verso l’uscita.

    Strinsi incoraggiante il braccio della donna, e riprendemmo a muoverci.

    Oltrepassammo una cappella chiusa da una cancellata che racchiudeva le tombe di un ordine di frati. Una lapide era stata divelta, la bara era a terra in frantumi, e ciò che rimaneva di un corpo – nulla più di un cumulo marrone di ossa, brandelli secchi di pelle, una rivoltante massa di capelli e indumenti laceri – strisciava sul pavimento, trascinando con sé in un cumulo polveroso l’intonaco sgretolato, le schegge di mattoni e ciò che rimaneva di una lampada votiva caduta.

    Il cadavere avvertì la nostra presenza. Il fagotto semovente di scaglie d’ossa, capelli e marciume strisciò penosamente fino alle sbarre. La donna si fece il segno della croce e si allontanò.

    Ora i corridoi erano oscuri. In quell’ala quasi tutte le entrate e le feritoie erano state murate. Probabilmente non vi entrava più nessuno da tempo. Un lezzo di cibi guasti ammorbava l’aria. All’interno di un loculo sfondato vidi un mucchio di carne putrida ricoperta di larve e vermi. Ma c’erano anche una scatola di biscotti, una lattina di birra vuota e un paio di mele rinsecchite. Uno zombi, prima di andarsene chissà dove, spinto da chissà quale istinto primordiale, aveva accumulato del cibo, forse per fare di quell’angolo uno spazio domestico. Poteva essere ancora lì in giro. Bisognava stare attenti, ma non era una novità.

    Mentre procedevamo, l’aria si faceva via via più pesante, densa, soffocante. Stavo per chiedere alla donna quanto mancasse ancora alla tomba del marito, quando lei mi anticipò.

    «Dietro quell’angolo» indicò. Era pallida, provata. Avrei dovuto sbrigarmi a fare il mio lavoro e portarla fuori di lì in fretta.

    Il loculo era più o meno al centro di una parete di tombini che risuonava di lamenti smorzati e tonfi attutiti. Quasi tutte le feritoie erano murate. Quelle ancora aperte davano su corridoi contigui e su altra aria ferma e corrotta. Si faceva fatica a respirare. La lapide era integra. Solo l’ovale con la foto era sbilenco, quasi per riflettere il martirio al di là della muratura.

    Mentre la donna si fermava, turbata, a qualche passo di distanza, accostai l’orecchio. Mi parve di percepire un roco sussurro. In ogni caso, dovevo cominciare. Invitai la cliente ad avvicinarsi.

    «Se vuole pregare, o rimanere sola qualche secondo…»

    «Ho pregato per lui per anni. Faccia ciò che deve più velocemente che può».

    Mi sfilai lo zaino di dosso e lo appoggiai a terra. Ne tolsi la tanichetta piena di una miscela infiammabile di benzina, nafta, trementina e sapone liquido, e un martello da carpentiere con la testa da tre chili avvolta in una guaina di gomma. Controllai che l’Mp5 fosse sistemato a dovere sul petto, a portata di mano, con la sicura disinserita. Sfilai dalla tasca una vecchia fascia di spugna da tennis e la sistemai intorno alla fronte, dove avrebbe fermato il sudore.

    Ero pronto. Più o meno. E comunque non avrei potuto esserlo di più. Cominciai a battere con il martello contro la lapide. Non era la prima volta, per cui sapevo dove e come colpire. In breve la lastra si spezzò in due monconi e franò a terra. Con un altro paio di martellate liberai l’imboccatura dai frammenti rimasti incollati al cemento. Ora il sudore imbeveva la fascia sulla fronte e colava dai capelli lungo il collo sul petto e sulla schiena.

    Dal rettangolo buio esalarono la puzza di marciume, di muffa e il sussurro roco che avevo già udito. Tagliai fuori dalla mente quel suono agghiacciante. Avevo imparato che quel genere di lavoro andava portato a termine senza pause e soprattutto senza pensare troppo.

    «Adesso tiro fuori la cassa, signora» avvertii.

    Afferrai la bara per le maniglie laterali (cosa che mi portò con il volto a ridosso del legno marcio, e dovetti trattenere il respiro) e la trascinai con un paio di strappi violenti fuori dal loculo. Cadde con uno schianto che rimbombò in tutta la galleria. Afferrai di nuovo il martello e sfasciai il coperchio, che allontanai con un calcio. Un volto scarnificato si girò verso di me, come un animale che fiuti la preda. Braccia avvolte in ciò che rimaneva di un abito scuro (braccia che da mesi raschiavano le pareti claustrofobiche della cassa alla ricerca della liberazione) si protesero di scatto verso l’alto, per tentare di afferrarmi. Ma io ero pronto. Prima cosa – la più importante - era spezzare i denti del serpente. Sparai una raffica di colpi di MP5 direttamente in bocca e nel cranio di quel morto risvegliato, riducendolo a un grumo d’ossa spezzettate, strisce di pelle conciata, ciuffi di capelli che volarono in alto come laide stelle filanti.

    Non era finita. Tenendomi a distanza dalle braccia che continuavano a frustare l’aria, rovesciai su tutto il corpo il contenuto della tanica. Allontanandomi di un paio di passi, accesi un fiammifero e lo gettai nella bara. L’aria povera di ossigeno rendeva difficile l’innesco e la fiammella si spense. Il corpo – sia pure quasi decapitato - iniziava ad alzarsi dalla cassa. Il busto era quasi verticale, le braccia si protendevano nella mia direzione. Accesi un secondo fiammifero, che questa volta infiammò i vapori della miscela combustibile.

    Una fiammata avviluppò la salma. Fiamme azzurrine e un denso fumo nero si alzarono dal cadavere, che iniziò a contorcersi, mugghiando uno sfiato di rabbia.

    Mi ritrassi tossendo dal calore della vampa che risucchiava il poco ossigeno di quei corridoi murati. Mentre i resti scoppiettavano, lambiti dalle fiamme, e il poco grasso secco si scioglieva in un fumo acre e irrespirabile, la donna si fece nuovamente il segno della croce e iniziò a parlare a ciò che rimaneva del marito.

    «Buono, buono» sussurrava, le lacrime che le striavano la polvere sulle guance «stai buono, da bravo, passa… passa subito, e dopo potrai tornare alla pace, potrai tornare a dormire. Ti voglio bene…»

    Il cadavere iniziò a rattrappirsi e a crepitare come una fascina secca. Ciò che rimaneva dei tessuti si torceva e scricchiolava consumato da lingue oleose di fiamma. Le braccia infuocate si allungarono in un estremo tentativo di ghermire, poi ricaddero sul tronco, in un unico mucchio ardente. Sprizzarono faville roventi che si alzarono nei mulinelli di calore. Con uno schiocco la mandibola si spezzò e alcuni denti rotolarono sul pavimento. Il corpo si scosse come a rinnegare quella sofferenza, tremò convulsamente per qualche attimo ancora, poi infine ricadde immobile, finendo di bruciare.

    Guardai la donna, che era rimasta immobile, ingobbita e come rimpicciolita dal dolore, pallidissima. In un’altra occasione avrei atteso che i resti venissero consumati dal fuoco e avrei rimesso ciò che ne rimaneva nel loculo, ma in quell’andito sotterraneo non si respirava più. Ero stremato dal caldo, dalla stanchezza e dalla tensione. Dovevamo uscire.

    «Come si sente, signora?»

    «Devo bere».

    Dovevo bere anch'io. Avevo voglia di qualcosa di alcolico, ma per quello avrei dovuto attendere ancora un poco. Ci allontanammo dal corridoio, poi, in un’ansa più spaziosa, sfilai dallo zaino una bottiglia di tè zuccherato avvolto in un paio di piastre di liquido refrigerante. Feci bere per prima la donna, poi bevvi a mia volta lunghe, avide sorsate. Ripercorremmo a ritroso la strada fatta all’andata, ormai incuranti degli scricchiolii, dei colpi contro le lapidi, dei mugolii e dei lamenti rabbiosi.

    Dopo una curva, in fondo al corridoio, nel cono d’ombra di un angolo, percepii la sagoma immobile di un uomo. Aveva la testa reclinata e le braccia abbassate lungo i fianchi.

    Oh, no, ancora quel rompicoglioni!

    «Ce ne stiamo andando» lo anticipai, esasperato.

    Non si mosse. Vidi che la testa si alzava lentamente fino a guardare fissamente nella mia direzione. Puntai la torcia. Distinsi le palpebre incollate e i fogli di carta da giornale che il becchino aveva usato per riempire il petto cavo. Ebbi un brivido e sulla nuca i capelli mi si rizzarono. Intuii la pelle chiazzata di giallo, cotone nero che gli usciva dalla bocca, il ventre gonfio di gas come un pallone. Il vestito aperto sul dorso gli cadeva lungo i fianchi; un rivolo denso e scuro gli sgorgava dall’ano e colava a terra come una sordida fontanella. Nel piede era impigliata una croce di raso impolverato. Si buttò su di noi.

    «Indietro!» urlai alla donna. Misi un ginocchio a terra e puntai l’MP5, solo per accorgermi che non avevo cambiato il caricatore. Quella di inserire un caricatore pieno dopo ogni raffica era una regola che mi ero imposto, ma in quell’orribile sotterraneo e in quel caldo soffocante, smanioso com’ero di andarmene, me n’ero scordato. Non era una scusante. In una gara ideale di cretini mondiali avevo appena totalizzato il punteggio massimo.

    Quanti colpi avevo sparato allo zombi che avevo appena bruciato? Dieci? Quindici? Di più? Che importava ora? Non avevo tempo di cambiare il caricatore. Presi di mira il collo. Con un po’ di fortuna avrei potuto decapitarlo con una raffica. Era già accaduto, in passato, ma non tutti i giorni era festa.

    Il cadavere era a pochi metri. Doveva essere morto da poco e sfuggito, chissà come, alla cremazione immediata, che negli ultimi tre mesi era passata da misura raccomandabile a tutela indispensabile e, infine, a obbligo di legge. Mano a mano che si avvicinava percepivo il fetore rivoltante della morte, che era allo stesso tempo un voltastomaco organico, un orrore psicologico e un abominio spirituale. Ciò che veniva verso di noi per divorarci vivi non era solo qualcosa di terrificante, era la fine definitiva di ogni umana illusione. E la accolsi come tale.

    Svuotai ciò che rimaneva del caricatore mirando al collo e alle ginocchia. Lo zombi fu sospinto all’indietro dall’impatto dei proiettili. Un ginocchio cedette e il corpo finì a terra. Si rialzò, grattando rabbioso sul pavimento. Nei suoi occhi vitrei intravidi il vuoto dell’anima e la fame. Si avvicinava ancora. Ma io avevo già sostituito il caricatore. Esplosi altre due raffiche tra la gola e l’altro ginocchio. Lo zombi ricadde, e stavolta rimase a terra.

    Feci qualche passo indietro e raggiunsi la donna. La presi per mano. Era fredda e tremava.

    «Tranquilla, tranquilla» la rincuorai «ora ce ne andiamo».

    «Questo non è l’inferno» balbettò «questo è molto peggio».

    Paradossalmente, quelle parole disperate mi infusero energia. Ricordai un vecchio racconto di Calvino (l’inferno lo puoi abbracciare, e farne parte, o rifiutare) e tutto mi fu improvvisamente chiaro.

    «Se questo è peggio dell’inferno» dissi «allora noi non ne faremo parte».

    Sparai un’ultima raffica al corpo che arrancava sul pavimento, frantumandone il cranio e decapitandolo. Con calma, vi svuotai sopra ciò che rimaneva della soluzione infiammabile e lo bruciai.

    Sorreggendo la donna per un fianco, la sospinsi verso l’uscita. Mentre camminavamo la udii mormorare una preghiera. In quel bailamme aveva ancora la forza di provare compassione per l’essere che ci aveva aggrediti.

    «Lei è una brava donna» dissi, colpito «sono sicuro che gli farebbe piacere sapere che qualcuno sta pregando per lui».

    Parve sorpresa. «Non stavo pregando per quel poveretto. Lui ormai è andato, e non soffre più. Stavo pregando per lei».

    «Per me?» Eravamo ormai all’ultimo corridoio e la luce abbacinante del sole che iniziavo ad intravedere mi fece sbattere le palpebre.

    «Per lei. Sì. Quell’uomo ha ritrovato il riposo che gli era stato sottratto, ma per lei» e iniziò a recitare «… il bosco è buio e profondo, e ci sono promesse da non tradire, miglia da fare prima di dormire…»

    Risalimmo i gradini e uscimmo all’aperto. Il calore era soffocante ma l’aria, almeno, era pura. Gli operai avevano ricominciato a sigillare le tombe con il cemento. Un gruppo spargeva calce viva su un mucchio di cadaveri ammonticchiati contro un muro crollato, ridotti a una massa compatta e gelatinosa, pregna di liquami. In quell'ammasso informe, qua e là, s'intuivano dei fremiti.

    Come nel famoso crollo del cimitero degli Innocenti. Solo che questi si muovono ancora.

    Ci sedemmo sul bordo del portico.

    Alcuni storni volteggiavano nel cielo limpido e senza una nuvola. Ma uno volava a scatti, sbattendo contro le pareti di pietra del colonnato, come un insetto notturno contro la luce di una lampada. A ogni colpo perdeva piume e sangue, scheggiandosi il becco, la testa piegata ad angolo retto, l’osso del piccolo collo spezzato. Volava e sbatteva.

    «Ha ragione, signora» mi asciugai il sudore e presi un paio di sorsi dalla fiaschetta del whisky, gli occhi fissi lontano, ben oltre le ruspe e il cimitero «molte, molte miglia da percorrere ancora, prima di poter dormire …»

    Mi alzai per andarmene, ma la donna mi trattenne per il braccio. La guardai, interrogativo, ma lei aveva chinato la testa e mormorava con la fronte appoggiata al dorso della mia mano: «Padre celeste, invochiamo la Tua benedizione. Fa che se qualcuno si troverà a tentare un’impresa perigliosa, non sia mai privato della Tua protezione. Dagli la certezza che quando si troverà ad attraversare la Valle dell’Ombra e della Morte, Tu sarai con lui, lo guiderai e lo proteggerai. Amen».

    Non sapevo che dire, per cui risposi anch’io soltanto: «Amen».

    II

    A sei mesi dalla resurrezione dei morti, le cose erano ancora sotto controllo. Ma si trattava di un controllo molto fragile, che scricchiolava ormai sempre di più. Certo, per scorgere i cedimenti bisognava volerli vedere. Molti invece nascondevano la testa sotto la sabbia, e preferivano credere che il camminare della Morte sulla Terra fosse solo un errore di percorso della natura che ben presto sarebbe stato rettificato.

    Per me non era così. Non era tanto un problema - concreto ma ancora gestibile - di aggressioni, terrore, epidemie (favorite dal caldo anomalo la cui morsa si era fatta impietosa) e una continua rincorsa a provvedimenti, leggi speciali, approfondimenti scientifici, azioni di tutela e tavole rotonde mediatiche, quanto un prendere atto che la morte – spauracchio umano per eccellenza, tabù culturale e piaga dell’animo, che come il sole non si può guardare fissamente – ora invece ci inchiodava con il suo sguardo impietoso fisso nel nostro. Uno sguardo raggelante, diretto, furibondo; non più schermato da cerimonie compassionevoli, liturgie consolatorie, opportuni veli a celare gli aspetti grotteschi e ripugnanti del disfacimento.

    Oltre a tutto ciò, che sarebbe bastato e avanzato per schiantare anche l’animo più saldo e per disgregare la fede più fervida, la Morte Rediviva ci divorava insaziabile, con furia e fame oscene che andavano ben al di là dei pur atroci confini degli incubi umani. Sui portali dei cimiteri, la scritta Resurrecturis – che in molti da sempre guardavamo con un misto di scetticismo e sufficienza – ora si prendeva la sua spaventosa rivincita.

    Forse perché avevo già toccato con mano molto tempo prima la fine delle mie illusioni – un matrimonio fallito, la perdita del lavoro, l’alcolismo, la giovinezza che se ne andava – ora potevo vedere con gli occhi stanchi ma acuti dell’esperienza la fine incombente di quelle illusioni collettive.

    Si moltiplicavano i contagi, i massacri antropofagi che portavano al risveglio delle vittime uccise, le azioni di forza contro atti di sciacallaggio e di follia - che sempre seguono l’inizio della fine - che servivano solo a provocare altre morti e a creare quindi nuovi zombi.

    La cremazione era un obbligo. Si poteva quasi percepire fisicamente la perdita di presa - lenta ma costante e ineluttabile - della società sui servizi essenziali come l’erogazione di acqua, elettricità, gas. La paranoia strisciante portava un numero sempre maggiore di persone a procacciarsi scorte di cibo e acqua. Si mormorava già di fosse comuni.

    A volte, avvenimenti isolati, di per sé trascurabili se diluiti in un quadro più ampio e preoccupante, mostrano però con precisione e onestà - meglio del precipitare catastrofico degli eventi - la crudezza della situazione.

    Un mese prima era emerso dalle acque cristalline del lago di Loch Ness il cadavere gonfio e putrido del mostro (tanto atteso e giunto, infine, nel momento meno opportuno). Tonnellate di carne guasta, enfia di gas impestati, che d’improvviso si erano trascinate sulla riva seminando grumi gelatinosi di corruzione. In vita si era tenuto ben nascosto sotto le acque. In morte, nulla più lo tratteneva nell’angusta tana del lago.

    Ma non bastava. Papa Wojtyla, proprio lui, o ciò che di devastato rimaneva del suo corpo, poche settimane dopo, uscito chissà come dai sepolcri nelle grotte vaticane, era apparso in Piazza San Pietro, trascinandosi a braccia levate, le palme scarnificate sporte in fuori, come a respingere quell’orrore che lui per primo rappresentava. E a lui erano seguiti i morti illustri chiusi nelle teche e nei mausolei, corpi mummificati di santi e di uomini politici. Girava voce che ci fossero necrofili che compivano azioni abiette, e si narravano autentici racconti dell’orrore su coloro i quali, quel giorno, ebbero la sfortuna di essere turisti nel convento dei Cappuccini a Palermo, dove il desiderio di un brivido a buon mercato si era trasformato nell’incubo più radicale che la razza umana potesse concepire, quando il palpito dello sfiorare la morte si era trasformato, di colpo, nell’esserne avvinti. E divorati.

    Gli zombi – come batteri cannibali – stavano infettando la terra. Ovunque, nello stesso preciso momento, e senza che si sapesse il perché.

    Dopo alcuni mesi era possibile catalogarli in più varietà. Alcune definizioni popolari avevano attecchito meglio di altre.

    C’erano i cosiddetti Freschi, morti da poco e da poco quindi resuscitati, ancora integri e veloci; gli Erranti, incapaci di smettere di camminare, senza meta alcuna, che si nutrivano in fretta durante il loro incomprensibile cammino, divorando senza fermarsi la vittima di turno, masticando carne viva senza mai smettere di spostarsi; i Piagnoni, che si piantavano gemendo e piagnucolando sulla soglia delle case che li avevano ospitati da vivi, solo apparentemente innocui, perché in grado di aggredire con improvvisa furia chi aveva la sfortuna di avvicinarsi; i Rabbiosi, esseri senza più nulla di umano, carne corrotta semovente le cui mandibole e i cui denti infetti non smettevano mai di maciullare con voracità assassina, e che in mancanza di cibo vivo potevano aggredire anche altri zombi; gli Straccioni, che rimanevano a marcire come fagotti di carne rancida a pochi passi dal luogo della resurrezione, incuranti di tutto ciò che li circondava, e che sembravano attendessero la benedizione della vera morte tramite la lenta consunzione del corpo; e infine i più temuti di tutti, gli Accaniti che, presa casualmente di mira una vittima qualsiasi, erano capaci di rimanere per giorni e giorni a battere contro la sua porta, e non avevano pace fino a che non l'avevano infine squartata e divorata, o erano stati distrutti nel tentativo.

    E, in mezzo a tutto quanto, imperversavano i germi, le infezioni, il puzzo orribile di morte, il susseguirsi di notizie ormai impossibili da tenere a bada, che suggerivano – tra una smentita e l’altra sempre meno convinte – il senso di un imminente sfacelo, di un’abdicazione totale e incondizionata della Vita nei confronti della Morte, l’attesa logorante del momento in cui il grande, compassionevole inganno, che era stato il filo sottile su cui gli esseri umani avevano camminato in bilico per secoli, si sarebbe spezzato, precipitandoli in un abisso di dolore, disperazione, terrore e, sopra ogni cosa, di morte fisica senza fine, di sonno eterno a occhi spalancati.

    Era finita. Era ovvio.

    Si stava avvicinando a grandi passi arcigni il Trionfo della Morte – così come lo avevano concepito i medievali, deliranti terrori di un Buffalmacco, di un Bruegel, di un Orcagna - nella sua forma più oscura, carnale e abbietta. Capivo chi rifiutava di accettarlo ma, per quel che mi riguardava, non vi erano più dubbi.

    Cosa rimaneva da fare? Non potevo parlare per gli altri, ma io dovevo cercare di capire due cose: cosa sarebbe accaduto e che cosa volevo.

    La prima domanda aveva una risposta semplice: le cose sarebbero presto precipitate. Come, non sapevo, ma di sicuro molto presto. Un giorno molto vicino, l’umanità si sarebbe svegliata e avrebbe preso atto che nulla era più come prima. Ben presto il denaro sarebbe stato carta straccia. La vita passata solo uno sbiadito, malinconico ricordo. L’inferiorità numerica era schiacciante e ogni giorno, morendo, nascevano nuovi nemici. Non si può combattere contro la Cupa Mietitrice, tanto meno se scende in campo fisicamente. Si può tutt’al più resistere, vincere mai.

    La seconda domanda presupponeva un ragionamento più complesso e, forse, anche ambiguo. Cosa volevo io? Ci avevo pensato a lungo, sia da sobrio che da ubriaco, guardando le strade vuote dal terrazzo della mia vecchia casa sui viali. Ma solo quella mattina, ascoltando le parole della donna al cimitero, avevo finalmente capito. Questo non è l’inferno. Questo è molto peggio.

    Bene, allora, se quello era peggio dell’inferno, io non ne avrei fatto parte.

    Avevo quindi concluso che avrei cercato di spostare un pochino più avanti il limite della mia vita. Non avrei aspettato di finire ad agonizzare in un ospedale rigurgitante di cadaveri che si risvegliavano, in mezzo alle urla, al tanfo dei cadaveri e – in ultimo e più tragico – nell’abbandono e nello strazio, con la prospettiva di tornare a camminare su questa terra dopo una breve sosta nell’oltretomba. Avrei fatto tutto quanto potevo per assicurarmi ancora un poco di vita decente. Volevo leggere quei quindici o venti libri importanti che ancora non avevo letto. E volevo cibo fresco (che iniziava a scarseggiare), un posto tranquillo dove dormire senza che il cuore mi balzasse in gola a ogni urlo o rumore, e aria pulita, profumata, la possibilità di passeggiare, o farmi una corsa, magari, se fossi stato nel mood giusto; e poi desideravo un panorama piacevole. In definitiva – almeno per un poco – un luogo inaccessibile agli zombi.

    Non ci voleva un genio per capire che tale luogo sarebbe stato appannaggio soltanto di pochi privilegiati. Mi domandai come avrei potuto procurarmelo, un posto così. Di guardie del corpo per persone facoltose, tra ex soldati o poliziotti, data la situazione, ce n’erano in esubero, quindi non era quella la via da battere. In generale, dovevo riconoscere che di gente più qualificata e giovane di me ce n’era a secchi. Dunque, avrei prima dovuto trovare i suddetti privilegiati che possedessero o fossero in grado di costruirsi un rifugio sicuro (e quello era il meno), ma poi avrei dovuto escogitare un modo per convincerli che avevano bisogno di me. E quello era invece il difficile. Ci avevo rimuginato su a lungo. Alla fine ero giunto alla conclusione che l’unico modo era candidarmi per fare qualcosa che nessuno avrebbe voluto fare.

    Ancora non potevo sapere che lo avrei fatto, ma che sarebbe stato infinitamente diverso da quel

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