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Karma City Blues
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Karma City Blues

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Fantascienza - romanzo (222 pagine) - Nella Napoli del 2069 un criminale informatico proveniente dal passato deve portare a termine una missione e rimettere insieme i pezzi degli anni perduti.


Napoli, 2069. Il criminale informatico Rico viene risvegliato dal criosonno penitenziario per indebolire l'egemonia delle compagnie indiane. Ma Rico ha le sue ossessioni: indagare sul tradimento che lo ha condotto in prigione e ritrovare la sua amata Rulah. Su uno sfondo napoletano del terzo millennio, generato da commistioni etniche, contorsioni criminali e quotidianità tecnologiche, dove su tutto incombe la Barriera che tiene lontano il kipple e abitata dal Popolo alato dei nibbi, Rico dovrà venire a capo della sua ricerca, ma scoprirà l'esistenza di qualcosa molto più grande di lui. Un nuovo grande romanzo dal vincitore del Premio Urania Giovanni De Matteo, finalista al Premio Odissea 2018.


Giovanni De Matteo (1981) è tra i fondatori del connettivismo, movimento che si propone di dare nuovo respiro alle istanze del cyberpunk, promuovendo la contaminazione tra i generi ed esplorando gli orizzonti del postumano. Collaboratore di diverse testate (Fantascienza.com, Delos SF, Robot, Prismo, Quaderni d’Altri Tempi), con Sandro Battisti e Marco Milani ha fondato e diretto per alcuni anni la rivista Next e dal 2010 cura la webzine Next-Station.org con il critico Salvatore Proietti.

Vincitore del Premio Robot con “Viaggio ai confini della notte” (2005), è autore di numerosi racconti, apparsi sulle pagine di riviste (Delos SF, Robot, Carmilla, Futuri), antologie (L’orizzonte di Riemann, Il prezzo del futuro, Storie dal domani, Segnali dal futuro, Propulsioni d’improbabilità, Iperuranio) e in e-book (Terminal Shock, Codice morto, Sulle ali della notte, Il lungo ritorno di Grigorij Volkolak). In collaborazione con Lanfranco Fabriani ha scritto YouWorld, originariamente apparso su “Urania” (2015) e ripubblicato nel 2018 in e-book da Delos Digital in un’edizione rivista e ampliata. Ha inoltre curato con altri diverse antologie, tra cui Next-Stream: oltre il confine dei generi (2015, Kipple Officina Libraria) e Nuove Eterotopie (2017, Delos Digital).

I romanzi Sezione π2 (Premio Urania 2007) e Corpi spenti (2014), entrambi pubblicati da Mondadori nella storica collana “Urania”, condividono l’ambientazione in una Napoli post-Singolarità Tecnologica del prossimo futuro. Nella stessa linea temporale si situa anche Karma City Blues, che si svolge una decina di anni dopo i precedenti.

Cura il blog chiamato Holonomikon.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 13, 2018
ISBN9788825407426
Karma City Blues

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    Karma City Blues - Giovanni De Matteo

    9788825406870

    Where is the monument

    to the dreams we forget?

    Foo Fighters, The Feast and the Famine

    … mi conveniva cercarlo dopo il tramonto perché era a quell’ora che lui cominciava a muoversi, come un fantasma che danza lungo i fili.

    Tom Maddox, Spirito della notte

    Night City non è un posto dove la gente ritorna, artista.

    William Gibson, Neuromante

    Prologo

    Ricordo di essere stato morto.

    Ho tre anni e le mani sporche di cenere e fango. Non ho molte parole nel mio vocabolario. Tutto ciò che mi serve a descrivere il mondo in cui vivo si riduce a un elenco striminzito di certezze ed esigenze primarie da soddisfare. Kipple è una di queste. Fame un’altra. Scraag! Papà

    Sono le prime cose che ho imparato a conoscere, le presenze con cui convivo. Ci sarebbe altro, naturalmente: i profughi che dividono con noi le tende della zona 3/A, le guardie armate in tenuta antisommossa che controllano il campo occupandosi della sua – in teoria della nostra – sicurezza, le file chilometriche per le razioni alimentari e le medicine (almeno le volte in cui l’esercito accorda alle organizzazioni umanitarie l’autorizzazione a distribuire qualcosa), l’acqua che esce dalle cisterne in un rivolo con il colore del piscio e un sapore metallico, la gavetta con la zuppa tiepida che sa di cartone mentre papà divide la sua parte con me. Gli stracci, lo sporco, il freddo. E l’incertezza di arrivare a vedere una nuova alba. Anche le stelle, qualche volta.

    Quando è in vena, papà ne indica una e mi invita a ripeterne il nome: Rigel. Sirio. Betelgeuse. La stella polare. Marte, che non è una stella, ma un pianeta. Come Saturno. Come Venere. È una concessione che reca conforto nel gelo delle notti invernali, ma che esprime soprattutto un mistero insondabile… C’è davvero spazio per tanta bellezza in questo inferno?

    Comunque sono tutte cose di passaggio. Non durano mai troppo e si mescolano l’una nell’altra. Le presenze costanti sono poche e alla fine ogni esperienza si riduce a…

    … un’incursione feroce che dura pochi decimi di secondo, ma richiede settimane o anche mesi per essere preparata. La pianificazione è fondamentale, dalla cura dei dettagli dipende l’esito della missione.

    Appostato su una piattaforma di interscambio appena al largo dell’isola subantartica di Bouvetøya, continuo a osservare il doppio bersaglio dell’operazione – un occhio fisso su NBSX, l’altro su SZSE dall’altra parte della Terra – e nel frattempo macino da LBSE un volume crescente di ordini di acquisto su titoli legati a un fondo pensione sudamericano, servendomi del Knight Crawler per piazzarli sulle piattaforme secondarie del Pacifico, a partire dalla SPSE di Suva, dove mantengo attiva una subroutine di mediazione. Tenermi occupato mi aiuta ad allentare la pressione e a dissimulare il mio vero obiettivo sotto lo sguardo interessato di potenziali predatori in agguato. Ombre rapaci volteggiano sulle onde dell’oceano, descrivendo traiettorie complesse intorno ai profili di iceberg di ghiaccio nero. Non è facile dissipare del tutto la statica che avvolge i pensieri del giocatore: il minimo scarto dalla traiettoria attesa diventa nei miei schemi predittivi il segnale di un possibile attacco.

    Non posso fare a meno di ripetermi la prima lezione appresa da chiunque si sia mai interfacciato con una piattaforma ultra-HFT: se non hai individuato la preda entro il primo ciclo della sessione, la preda sei già diventata tu. In fondo, i mercati finanziari ultraveloci sono ecosistemi semplici, abitati da una popolazione di costrutti elementari: più snelli sono, più possono operare velocemente e più efficace risulterà la loro azione.

    Dalla piattaforma intercontinentale di Bouvetøya posso godere di una visuale privilegiata. Tra la Terra e le stelle, tra il mondo dei vivi e quello dei morti, questo regno non è altro che l’intersezione dei sogni proiettati da tutti gli intelletti artificiali abilitati a operare e tenere in vita la Borsa Globale. In questo mondo di mezzo vige un’unica legge, il più adatto sopravvive. È tutto qui, un AMH come me:Spike farebbe meglio a non dimenticarsene mai. Sono pur sempre un ibrido umano/algoritmico circondato da un branco di affamati predatori artificiali, molto più veloci ed efficienti di quanto potrò mai sognare di essere. E questo è il loro regno: tu sei un intruso, mettitelo bene in testa, e se non saprai dimostrarti in anticipo abbastanza sveglio, abbastanza rapido, abbastanza efficace, il tuo destino sarà segnato ancora prima di commutare sulla matrice.

    Le transazioni proseguono con un ritmo regolare e sto mantenendo sostanzialmente in equilibrio i guadagni con le perdite, quando il crawler mi lancia un paio di avvertimenti: a quanto pare dalle parti di Suva c’è qualcuno che si sta interessando ai miei pacchetti. Bene, che provi pure a scalare, la subroutine saprà tenerlo impegnato per il tempo necessario. Non è per quello che ci troviamo quaggiù.

    Mentre Larry:Razor lavora il suo bersaglio a Shenzhen, l’obiettivo primario è sempre lì, che galleggia nella relativa stabilità delle placide acque baltiche dell’arcipelago NASDAQ Nordic. Io:Spike sento un fremito attraversare il dito puntato sul grilletto virtuale del mio vettore.

    La marea elettrica è prossima al suo picco.

    Controllo il timer. Ormai dovremmo quasi esserci. Aspetto che Larry:Razor faccia la sua mossa e intanto mi aggrappo a un ricordo che emerge in negativo da un angolo della memoria. Dura meno di un battito di ciglia, poi una sfera di oscurità si contrae e la sensazione scivola via di nuovo. Torno al tempo quantizzato dei mercati globali.

    I flussi d’informazione, la danza del denaro, l’istinto della caccia e i blocchi di ghiaccio incandescente delle contromisure del sistema sono la tetraktys su cui si regge questo mondo di codici e matematica estrinsecata, i suoi…

    … quattro elementi.

    Il Kipple, il caos strisciante che circonda la sconfinata città provvisoria in cui viviamo, la palta primordiale che s’infila dappertutto e reclama ogni cosa con cui entra in contatto. Nonché l’unica fonte di sostentamento in cui papà ripone le nostre speranze.

    La fame, compagna fedele delle mie giornate: dal risveglio all’ultimo pensiero della sera, un unico, ininterrotto crampo allo stomaco.

    Gli scraag, i ratti mutanti che rovistano nella spazzatura, prosperando nella miseria del campo. Zampe che si muovono furtive nell’ombra, armature ossee resistenti ai proiettili, artigli che graffiano, orde che assediano le nostre tende attratte dalla presenza umana e dalla possibilità di rosicchiare prima di noi le nostre scorte.

    Papà, che mi stringe tra le sue braccia scheletriche e forti, esili come ramoscelli e dure come artigli, per riscaldarmi mentre ci addormentiamo. E che a volte sento sussultare nel sonno.

    Dalle loro combinazioni scaturisce la mia conoscenza.

    Non sono ricordi precisi, momenti isolati impressi nei miei archivi mnemonici. Non avrebbero la dignità di pagine nel mio libro della memoria. Rappresentano piuttosto uno sfondo, un canovaccio macchiato da centinaia di scene ripetute, finché lo sporco conferisce al tessuto la qualità stessa di un nuovo colore, cancellando per sempre qualsiasi sfumatura sottostante.

    Il primo ricordo compiuto sono le mie mani sporche che si aggrappano al fianco della collina che sto scalando. Le unghie nere che si spezzano sulla roccia e sul cemento, il sapore di cenere sul palato. Il pendio è scosceso, la terra, le macerie e i rifiuti mi franano sotto i piedi e io mi afferro a ogni appiglio che trovo, pur di resistere e scalare la montagna. Quando raggiungo il crinale resto sconvolto dal risultato dell’impresa.

    Alle mie spalle, le tende e le baracche del campo svaniscono nel fumo dei fuochi di fortuna e nella nebbia, ormai lontane nei miei pensieri.

    Davanti a me: il profilo della città. Napoli è un immenso cantiere senza soluzione di continuità. Interi quartieri in rovina, interi quartieri in demolizione, interi quartieri in ricostruzione. La rinascita di una metropoli declinata in tutte le sue forme: lo sviluppo di palazzi più alti di quanto abbia mai visto, la solidità di fondamenta più forti di quanto possa immaginare, l’alternanza di edifici, parchi e viali, il recupero dei monumenti di interesse storico. Ma soprattutto una nuova certezza: malgrado le ferite ancora aperte lasciate dalla guerra e le cicatrici mai guarite dell’eruzione, l’orizzonte vibra sulle note di opportunità da scoprire e da cogliere, mentre la sera distende un sudario pietoso sul corpo martoriato della metropoli.

    La nuova certezza ha un nome: fuga. E porta con sé un’ispirazione che si sedimenta rapidamente, consolidandosi e facendosi convinzione.

    Per la prima volta le verità contingenti del presente vengono relegate in secondo piano. I quattro elementi sono stati spazzati via da un vento nuovo, sopraffatti da un sentimento che mi era sconosciuto.

    Per la prima volta considero la possibilità di vivere.

    1.

    Quando la sera soffoca i bagliori residui del giorno, dopo che il sole si è lasciato inghiottire dal Golfo e le ultime strisce ocra e ruggine si sono ormai dissolte nel grigio piombo di nubi tossiche, lo spettacolo va in replica e il Boulevard si accende ancora una volta.

    Le insegne olografiche illuminano il carnevale della notte. Droni tattici solcano le rotte aeree della città, scrutano le strade in una panoramica a volo d’uccello e proiettano ombre elettroniche nell’EW. La lenta processione dei fari riprende, scandendo il ritmo del traffico in un’atmosfera rarefatta, dispiegando sugli schermi del Controllo Urbano un arabesco di luce intessuto da milioni di linee. Lungo i canali invisibili dell’etere risuonano i ritmi subliminali della danza eterna del commercio e del consumo, la Ruota che abbraccia la vita e la morte si appresta a compiere un altro giro.

    Anche se adesso è come una ferita esposta allo sguardo impietoso del cielo, un tempo il Boulevard aveva un suo prestigio. Gli architetti coinvolti nel Piano di Rinascita Urbana – che si erano presto dissociati dalla sonora pernacchia del relativo acronimo – l’avevano concepito come un’unica, ininterrotta vetrina nel cuore di Napoli. Laddove un tempo sorgevano i quartieri storici, gli edifici strutturalmente indeboliti dai sussulti della Montagna e gravemente danneggiati dai bombardamenti degli anni Venti erano stati cancellati per fare spazio a questa monumentale fantasia parigina. La sua lunga prospettiva aveva riscritto la geografia urbana nel cuore della città, sovrapponendo nuovi decumani all’antico tracciato di epoca greca, sopravvissuto attraverso i secoli per essere infine dismesso dai sogni di gloria delle amministrazioni postbelliche: quello che non aveva fatto l’Ultima Guerra, lo avevano completato loro, attuando una mirabile sintesi tra una bomboniera e il regno dei morti.

    Dovevano aver visto Napoli come un arcipelago che raggruppava: a) le mille istanze della città-souvenir delle guide turistiche, ciò che sopravviveva dell’antico patrimonio storico e architettonico della città dei mille colori; b) i quartieri-bunker al servizio delle basi militari; c) le fortezze urbane costruite dai conglomerati industriali che si erano stabiliti nell’Area Metropolitana per sfruttare le agevolazioni fiscali della zona economica speciale istituita nel dopoguerra; a cui col tempo si era aggiunta d) la costellazione di isole autogestite, le PAZ¹ proliferate sopra e sotto la superficie in seguito alle privatizzazioni selvagge della Secessione Controllata,² riscattando spazi urbani di scarso valore per impiantarvi vere e proprie utopie pirata tascabili.

    Saltando la tua fermata della metropolitana potevi così incorrere in una di queste manifestazioni della città ideale, in quartieri che erano vere e proprie appendici dell’oltretomba, sacche di Kipple in suppurazione, vesciche infette. Napoli pullulava di quegli scorci, contesti esclusivi con vista sull’imminente collasso entropico dell’universo.

    Congiungendo il Museo Archeologico con il Distretto Corporativo, il Boulevard era nato per offrire alla sua utenza (termine adottato, con un rigore che sconfinava nell’assillo, tanto nelle delibere del consiglio comunale quanto nei kit di presentazione distribuiti alla stampa) una faraonica esaltazione della frenesia consumista (la qual cosa era parsa da subito chiara a tutti, inclusi o meno nell’utenza, senza il bisogno di ulteriori precisazioni nei leaflet). Concepito come un monumentale viale alberato fitto di attività commerciali, sarebbe stato un gigantesco mall esteso per tutta la lunghezza della strada nel cuore della città. E avrebbe ospitato boutique e rivendite per tutti o quasi i livelli d’acquisto, dalla fascia media a quella luxury, dalle Nouvelles Galeries Lafayette a Gucci, da Prada a Tsuyako, passando per Liberty, Rebel Queen, Hermès … una giostra dello shopping movimentata dalle insegne psichedeliche di bar e caffè che rispondevano ai nomi esotici o semplicemente insulsi di Hi-Lo, Le Monde, Skyline, Royals, Finnegan’s Cake.

    Nei sogni al neon dei progettisti si rincorrevano gli echi degli Champs-Élysées, ma il loro luccichio aveva attratto più falene che clienti. Per convincere gli espositori a sloggiare era servito molto meno tempo di quanto ne avesse richiesto la messa in opera del progetto. La storia intera del Boulevard si riduceva al resoconto di una parabola discendente, un’ininterrotta, inesorabile decadenza. Quando la Zhongzhen aveva desistito, preferendo compensare con le penali la propria defezione dal disperato tentativo di rianimare l’ecosistema urbano, altri partner suicidi erano subentrati per scottarsi le dita con la realtà: gli alberi avevano dovuto soccombere ai parassiti malgrado i trattamenti biotecnologici della Turquoise, il caos esterno si era infiltrato goccia a goccia dai quartieri limitrofi già kipplizzati e l’esito era stato il naturale sbocco di un processo di dissoluzione. Voluto come simbolo della rinascita, il sogno alla moda del Boulevard si era andato progressivamente disgregando, spegnendosi nel degrado. Una triste eredità gestita sempre peggio dalle giunte che si erano susseguite negli anni.

    Il Boulevard era diventato una vetrina per tutto quanto di proibito si potesse acquistare in città. Per quanto continuasse a calamitare senza tregua i flussi pendolari dall’Hinterland, in pochi desideravano finire laggiù. Era il paradosso del Boulevard. Dopo l’euforia iniziale, tutti sognavano di fuggirne, ma quasi tutti finivano per tornarci.

    Con il tempo, nuovi esercizi commerciali sovvenzionati dal crimine organizzato avevano preso il posto dei vecchi e il Boulevard si era trasformato in un ricettacolo di illegalità. Ma presto anche il Sistema era crollato sotto il suo stesso peso. Mentre i clan si tiravano in disparte, cercando una cura rigenerante nel letargo dei suburbi, nuovi protagonisti erano emersi dal crogiuolo dei popoli che si erano incontrati in quella terra di frontiera. Nuovi predatori erano usciti allo scoperto per spartirsene i resti: Triadi cinesi, maffyah araba, Bratva e bande hindu avevano seguito le orme della Yakuza, che già aveva giocato un ruolo cruciale negli equilibri del dopoguerra.

    Ormai il Boulevard era una ferita purulenta incapace di trattenere il contagio: il cancro che ne essudava si spargeva nei dintorni in un’apoteosi di metastasi tumorali. Rimanevano solo le Caravelle, a sovrastare gli edifici del Distretto Corporativo che sbarravano il termine della lunga striscia d’asfalto e opponevano una fiera ma sterile resistenza agli assalti della contaminazione. Concepite come un ecosistema urbano autosufficiente, sarebbero rimasti gli ultimi baluardi a sfidare le orde del caos.

    Le luci del complesso più esclusivo della città si accendevano con gli ultimi neon e lampioni ai vapori di sodio ancora in funzione, andando a disegnare un miraggio irraggiungibile in fondo alla strada. Il paradosso del Boulevard, una promessa senza speranza di riscatto, ricordava ogni sfumatura delle leggi non scritte del Kipple. La redenzione, laggiù, era solo un miraggio.

    Ma una promessa era anche la ragione per cui mi trovavo di nuovo lì, a dispetto delle convinzioni dei miei datori di lavoro. Avevo abbastanza conoscenze da quelle parti da sentirmi quasi come a casa. E altrettanti motivi per evitare qualsiasi festa pensata per celebrare il mio ritorno dal Ghiaccio.


    ¹. PAZ: acronimo dell’espressione inglese Permanent Autonomous Zone (ovvero Zona Permanentemente Autonoma), un’evoluzione del concetto di Zona Temporaneamente Autonoma sviluppato dal controverso filosofo e anarchico statunitense Hakim Bey (al secolo Peter Lamborn Wilson) nel suo saggio TAZ: The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism (1991, edito in Italia da Shake, T.A.Z. – Zone Temporaneamente Autonome).

    ². Processo politico di federalizzazione che ha portato alla costituzione nel 2061 del Territorio Autonomo del Mezzogiorno, conferendo pieni poteri in materia di regolamentazione economica e amministrativa al governatorato di Napoli.

    2.

    Riemergere dal criosonno è come nascere una seconda volta. Difficile prenderci gusto, se la sensazione che ti porti dietro è quella di un’apnea lunga un secolo. Il nuovo cuore non ha mai contratto l’antica abitudine di pulsare a settanta battiti al minuto, condizionato meccanicamente a credere che il numero giusto non superi la soglia delle sei pulsazioni all’ora. E i polmoni devono recuperare familiarità con l’ossigeno nel suo stato naturale, vincendo al contempo la fitta che trafigge gli alveoli con miliardi di piccole punte acuminate, aghi incandescenti di un supplizio bizantino.

    Se si supera la prova, se la circolazione sanguigna non va a scontrarsi contro la formazione occasionale di un embolo, se la fibra del corpo è abbastanza robusta da resistere a tutto questo e – soprattutto – se non si ha la pretesa di risvegliarsi tra lenzuola morbide e pulite su un materasso in lattice, il ritorno non è molto peggiore di un risveglio improvviso, nel cuore della notte.

    Apri gli occhi, ti sforzi di spingere l’aria nei polmoni e provi a scacciare la sensazione che un sogno troppo lento stesse degenerando nel peggiore degli incubi. Perché il peggiore degli incubi, da questa nuova prospettiva, è proprio davanti a te.

    Adesso.

    La colonia penale è l’ultima delle mete turistiche in cui avresti voluto capitare. L’isola della morte, la chiamavano alcuni quando ci sei finito dentro. Alcatraz, l’avevano ribattezzata altri.

    I neon diffondono nell’atmosfera una luminescenza cadaverica e asettica che la rende più simile a un obitorio che a un centro benessere. Ma in certe condizioni non si va troppo per il sottile. Si è contenti di essere ancora vivi, malgrado la voce che ti accoglie sia quella di una guardia carceraria che ha bevuto un po’ troppi caffè corretti con l’anice. E il resto scivola via come pioggia acida sulla pelle.

    – Detenuto sei-uno-uno-sei-uno-nove, oggi è il 23 marzo 2069 e da quando ti sei svegliato sei un uomo in libertà soggetta a vincoli di restrizione, sotto la tutela cauzionale della Dinklage, Chua, Goldwater & Winegar Professional, studio legale con sede a Tel Aviv, rappresentato in altri trentacinque paesi.

    Non senti le mani dell’infermiere o biotecnico o quello che diavolo è sulla tua pelle assiderata, mentre le dita cercano una via d’ingresso per l’endovena, senza preoccuparsi troppo per la tua integrità fisica. 29 °C, fai in tempo a leggere su un monitor: è la tua temperatura corporea. E quello che succede dopo ha i caratteri di un’esperienza extracorporea: ti lasci la materia alle spalle mentre la memoria regredisce alla ricerca della ragione per cui ti trovi lì.

    – Capisci quello che ti sto dicendo…

    La colpa?

    – … detenuto sei-uno-uno-sei-uno-nove?

    È solo tua.

    Ricordo…

    – Facciamo questa e basta, dico solo questo.

    Avevo imparato a riconoscere le diverse sfaccettature del talento istrionico del mio socio. In quel momento l’Entradista si esibiva nella sua performance dell’amico disincantato ma in fondo affezionato all’idea romantica dell’ultimo colpo. Era l’ultima impresa, l’ultima puntata al tavolo verde del Casino Royale – una scommessa contro il banco del destino, dove il destino corrispondeva inevitabilmente con la malasorte.

    – Cos’è quella faccia? – insisté scrutandomi da dietro la sua Corona. Ne aveva fatta fuori mezza bottiglia al primo sorso, poi l’aveva declassata a elemento di scena. – Lo so a cosa stai pensando… È Rulah, non è così?

    – Ti sbagli – dissi. Sentii sulla punta della lingua il veleno in cui stavo imbevendo le parole, mentre alzavo un dito e glielo puntavo contro. – Il mio unico problema, socio, sei tu! – esclamai.

    L’Entradista si spinse indietro contro lo schienale della sedia e allargò le braccia in un gesto di esasperazione. Poi si strinse nelle spalle e convertì la sua maschera in un’espressione di sincera incredulità. Era disarmante. Aveva sempre

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