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Demenza: la cura centrata sulla persona è possibile?
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Demenza: la cura centrata sulla persona è possibile?

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About this ebook

Il malato con demenza è una persona anche quando diventa totalmente dipendente? anche quando non parla più? anche quando sembra avere perso consapevolezza di sé? anche quando non riconosce più se stesso e gli altri?

Se vogliamo fare una cura centrata sulla persona è necessario aprire una riflessione profonda sull'essere persona in tutti gli stadi di malattia.

In questo Quaderno Anchise n. 4 il problema viene affrontato partendo dall'esperienza degli operatori che lavorano nelle Case per anziani poi vengono proposte risposte concrete alla luce dell'ApproccioCapacitante®.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 8, 2018
ISBN9788827854761
Demenza: la cura centrata sulla persona è possibile?

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    Demenza - Pietro Enzo Vigorelli

    633/1941.

    Prefazione

    Di fronte a una persona con demenza è possibile una cura centrata sulla persona?

    La domanda può sembrare una provocazione. In realtà si tratta di un problema serio.

    Quella che era stata una persona vitale e capace di gestirsi nel mondo, quando la malattia progressivamente arriva a uno stadio avanzato, viene automaticamente percepita come un malato. Il suo essere affetto da demenza tende ad assorbire tutta l’attenzione e a ridurre la sua dimensione di persona. L’anziano con demenza sembra perdere addirittura i principali connotati dell’essere persona. Dobbiamo ammetterlo.

    Il malato con demenza è una persona anche quando diventa totalmente dipendente? anche quando non parla più? anche quando sembra avere perso consapevolezza di sé? anche quando non riconosce più se stesso e gli altri?

    Se vogliamo fare una cura centrata sulla persona è necessario aprire una riflessione profonda sull’essere persona in tutti gli stadi di malattia.

    La Carta dei Servizi

    Viaggio in Italia per fare formazione nelle RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) e ho l’abitudine di chiedere una copia della Carta dei Servizi.

    Ho notato che in tutte si dichiara di mettere la persona al centro delle cure, ma poi sono carenti nell’esplicitare come viene declinato nella pratica quotidiana questo proposito.

    In concreto, che cosa bisogna fare o non fare per mettere le persone al centro delle cure?

    Per fare sì che la Carta dei Servizi sia uno strumento utile, per migliorare davvero l’assistenza, per proseguire nel processo di umanizzazione che è già in corso, è necessario fermarsi a riflettere.

    Domande in cerca di risposte

    Se vogliamo fare una cura centrata sulla persona conviene cominciare col porci alcuni interrogativi:

    Quando mi sento (o non mi sento) un persona? (v. Cap. 1.1)

    Perché mi sento persona? (v. Cap. 1.1)

    Che cosa significa essere persona? Che cos’è che qualifica un essere umano come persona? (v. Cap. 2)

    Un malato con demenza è ancora una persona? Anche in stadio avanzato? (v. Cap. 2)

    Come si può rispondere a queste domande dal punto di vista dell’Approccio capacitante? (v. Cap. 3)

    Solo dopo aver affrontato questi interrogativi possiamo rispondere in modo adeguato ad un’ulteriore domanda, quella che più ci interessa nell’attività quotidiana:

    Nelle RSA che cosa significa fare una cura centrata sulla persona? Che cosa bisogna fare? Che cosa bisogna non fare? (v. Cap. 4)

    Qual è la proposta dell’Approccio capacitante? (v. Cap. 5)

    Gli antecedenti

    Se cerchiamo in letteratura altri Autori che hanno affrontato il problema dell’essere (o non essere) persona anche in presenza di demenza, incontriamo per primo un gigante della psicogeriatria, Tom Kitwood* (1937-1998).

    Kitwood, come noto, è uno psicogerontologo inglese, promotore della Person-Centred Care (PCC). Per primo, proprio per poter realizzare una cura centrata sulla persona, ha ragionato sull’essere persona di chi vive con la demenza. Le sue riflessioni si sono sviluppate a partire dalla Terapia centrata sul cliente di Carl Ransom Rogers* (1902-1987, psicologo americano, promotore della Client-Centered Therapy). Rogers già nella scelta della parola cliente, invece della più usuale paziente, ha voluto sottolineare la sostanziale parità (in ambito psicoterapeutico) tra chi cura e chi è curato.

    Restando in ambito geriatrico, prima di Kitwood, in modo più semplice ma di grande efficacia, già Naomi Feil* (nata nel 1932, assistente sociale americana, promotrice della Validation) aveva sottolineato e valorizzato le emozioni dei grandi anziani disorientati e aveva evidenziato che le parole e i comportamenti delle persone con demenza, anche quelli più anomali, hanno un senso.

    Alla fine del secolo scorso anche Moyra Jones* (1936-2015, terapista occupazionale canadese, promotrice della Gentlecare) ha proposto un modello che si pone nel filone culturale della cura centrata sulla persona, occupandosi di ambienti, attività e persone per creare attorno alle persone con demenza un ambiente protesico che in qualche modo supplisca ai deficit causati dalla malattia per favorire la migliore qualità di vita possibile.

    Nelle pagine che seguono il Lettore potrà cogliere numerose intersezioni con le opere di questi Autori, ma l’Approccio capacitante e la sua idea di persona vogliono porsi come un approccio originale, anche se in buona parte concorda con basi ben consolidate poste da altri.

    La ricerca col metodo capacitante

    Il problema dell’essere persona si può affrontare in tanti modi.

    Si potrebbe partire da una ricerca etimologica, dalla persona come maschera nella cultura greca, o da una ricerca storica facendo riferimento ai contributi della filosofia, della psicologia, della sociologia e delle religioni, contributi importanti che peraltro fanno parte anche del mio bagaglio culturale.

    In questa occasione, invece, adotterò il metodo capacitante, un metodo che parte dall’esperienza, se ne distacca solo un poco per riflettere, poi torna subito alla pratica dell’assistenza per verificare quanto è stato concettualizzato.

    Per cominciare ho posto delle domande-stimolo sull’essere persona ad alcuni gruppi eterogenei di operatori coinvolti nella cura delle persone con demenza, a studenti in formazione e ad altri soggetti con storie diverse, dall’ingegnere all’artista al teologo**.

    Poi partendo dal materiale raccolto ho tentato una sintesi problematica del quadro emerso e successivamente ho descritto la proposta dell’Approccio capacitante, sempre restando aderente il più possibile all’esperienza vissuta dagli operatori, dagli anziani smemorati e da me stesso.

    *Riferimenti bibliografici

    Feil N. (1982), Validation: the Feil method. Edward Feil production, Cleveland, Ohio. Trad it. (1996), Il metodo Validation. Sperling&Kupfer, Milano.

    Jones M. (1999) Gentlecare. Changing the experience of Alzheimer’s disease in a positive way. Resources Ltd. Ed. It. Gentlecare. Un modello positivo per l’assistenza. Carocci, Roma (2005).

    Kitwood, T. (1997), Dementia Reconsidered: The Person Comes First. Buckingham, Open University Press.

    Rogers, Carl. (1951). Client-Centered Therapy: Its Current Practice, Implications and Theory. London, Constable.

    **I partecipanti all’inchiesta

    17 Allievi del Master di formazione formatori del Gruppo Anchise, anni 2017-2018 (elencati in appendice con le note biografiche); Operatori della RSA Antonio Nuvolari di Roncoferraro (MN); Studenti del 2° anno della Laurea magistrale in Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Allievi del Master in Psicologia dell’Invecchiamento dell’Università di Pavia; Allievi del Master di Psicologia Clinica Sanitaria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Familiari dell’Associazione ABC Onlus di Verona; Operatori e Familiari della Casa di Riposo Mons. G.B. Eula di Roccaforte di Mondovì (CN); Familiari dell’AIMA di Cremona; Operatori e Familiari del Comune di Scanzorosciate (BG); Allievi della Scuola di Psicoterapia IRIS di Milano; Operatori della Cooperativa CODESS, Udine; Operatori della RSA L’Arca di Desio (MB); Allievi del Master in Psicologia Territoriale dell’Università di Pavia. A tutti quelli che hanno dato un contributo, sia firmato che anonimo, va un sentito ringraziamento.

    La proposta dell’Approccio capacitante

    La cura capacitante basata sulla persona è la nostra proposta per dare un’anima e un indirizzo all’assistenza degli anziani smemorati e disorientati che vivono nelle Case per anziani. La proposta nasce dalla difficoltà a vedere nell’anziano con demenza di grado avanzato una persona, cioè un individuo che conserva dignità e che merita rispetto nonostante le sue caratteristiche dell’essere persona si siano eclissate, non sembrino più riconoscibili.

    Normalmente l’essere persona del soggetto adulto si associa con il suo essere razionale, emotivamente competente, consapevole, relativamente autonomo e capace di fare delle scelte, di decidere su quello che lo riguarda.

    Si capisce quindi come il venir meno della capacità razionale, della competenza emotiva, della consapevolezza, dell’autonomia e della capacità di scegliere metta in crisi il principio stesso su cui si fonda la cura: la persona.

    È necessario fermarsi a riflettere e ripensare la nostra immagine di persona; è necessaria una nuova teoria della persona che possa comprendere tutti, anche chi si trova negli stadi avanzati di malattia, se vogliamo concepire e praticare una cura basata sulla persona.

    Questo è il primo obiettivo degli appunti che seguono.

    Il secondo nasce da un’altra osservazione, forse banale ma spesso ignorata: i protagonisti della cura sono due.

    La cura basata sulla persona ovviamente mette al centro dell’attenzione chi ha bisogno di assistenza, ma noi vogliamo sottolineare anche, forse soprattutto, l’importanza dell’altro protagonista: l’operatore, in primis l’OSS (Operatore Socio Sanitario), poi tutti gli altri operatori che ruotano attorno agli anziani con demenza.

    Da un certo punto di vista potremmo dire che l’Approccio capacitante propone una cura basata sull’operatore.

    L’importanza di questo differente punto di vista risulta subito evidente.

    Mi piace pensare che l’altro, l’anziano smemorato, è quello che è, reagisce così come reagisce ed è al di fuori del mio dominio. Io, e con me tutti gli operatori, possiamo solo modificare noi stessi. Non siamo come dei marionettisti che muovono e animano gli anziani di cui ci occupiamo; non siamo esseri onnipotenti che condizionano la vita degli anziani fragili loro affidati.

    Noi siamo professionisti che possono dare un contributo per la felicità possibile dell’altro; noi possiamo solo creare condizioni favorevoli per una convivenza sufficientemente felice, nel qui e ora dell’incontro, insieme agli anziani smemorati e disorientati.

    Una persona, tante persone

    Quando pensiamo alle persone malate di Alzheimer dobbiamo ricordarci che sono tante, diverse da loro, che cambiano nel tempo.

    Ogni malato è diverso dall’altro, con il suo volto, la sua storia, i suoi affetti.

    Oggi sappiamo che la malattia di Alzheimer e probabilmente anche altre forme di demenza cominciano molti anni prima della comparsa dei segni clinici. Il malato di Alzheimer in fase preclinica non presenta nessun deficit cognitivo; quando poi presenta i primi segni di malattia questi sono indistinguibili dai piccoli deficit che possono essere presenti anche in persone non malate; c’è poi un lungo periodo che dura anni in cui i disturbi cognitivi diventano progressivamente più gravi e più frequenti per arrivare infine all’ultima tappa della malattia che coinvolge pesantemente sia la mente che il corpo.

    L’ultima tappa

    Quando la malattia arriva all’ultimo stadio il soggetto sta a letto, resta così come è stato posizionato, non è in grado di alimentarsi, è incontinente, non parla, non aggancia lo sguardo, sembra incapace di relazionarsi, reagisce solo (?) agli stimoli dolorosi.

    Arrivati a questo stadio possiamo vedere il malato in due modi diversi.

    Uno sguardo riduttivo

    Guardo il malato all’ultimo stadio e vedo un corpo che non ha più nulla di attraente, che ha perso gli attributi della persona e che è totalmente dipendente per la sua sopravvivenza da chi lo cura (operatori o familiari).

    Uno sguardo inclusivo

    Guardo il malato all’ultimo stadio e vedo il corpo di una persona che si è progressivamente ritirata fino a eclissarsi, che per sopravvivere ha bisogno del mio aiuto, per continuare a essere persona ha bisogno del mio sguardo e del mio riconoscimento.

    Questi due sguardi, quello riduttivo e quelle inclusivo, sono sottesi da due diverse teorie della persona e della cura.

    In questo libro propongo una teoria della persona che permetta all’operatore di avere uno sguardo inclusivo e di realizzare una cura efficace e gratificante durante tutte le fasi di malattia, anche quella terminale.

    I Saggi introduttivi

    Questo Quaderno si apre con due Saggi introduttivi che sono nati in modo autonomo ma che trovano numerose consonanze con quanto viene proposto nei capitoli successivi.

    Leo Nahon s’interroga sulla cancellazione della persona e riflette sull’influenza dell’ambiente relazionale nella cura dei malati di demenza, Susana González Ramírez sui rapporti tra depressione, demenza e benessere possibile. Entrambi i Saggi, così come parte degli altri capitoli, riflettono le lezioni magistrali che sono state tenute a Milano il 27 ottobre 2018 al Convegno Anchise La persona con Alzheimer è solo un malato?

    La Demenza cancella la persona? Leo Nahon*

    *Psichiatra, già Direttore S.C. Psichiatria Ospedale Maggiore Niguarda, Milano

    …me di me privo..

    Canto XXIX, Aspasia

    Giacomo Leopardi

    Non è un interrogativo così retorico come potrebbe sembrare, questo che pone Pietro Vigorelli, perché il rischio di una sparizione dell’identità personale a sé e agli altri, nel corso del progredire della demenza e soprattutto nelle fasi finali, esiste.

    Premetto che tra le tante significazioni della parola persona intendo qui l’identità come nucleo essenziale della persona, ovvero la soggettività della persona come elemento principale del suo riconoscimento.

    Chi cancella la persona?

    Il riconoscimento viene in gran parte diminuito e invalidato e a volte addirittura cancellato (specie in contesti di istituzionalizzazione) da parte degli altri quando la demenza comincia a essere profonda; in quel momento non sappiamo quanto sia invalidata dal soggetto stesso perché paradossalmente è proprio nelle fasi di entrata nella malattia che più acutamente e struggentemente questo senso di mancata percezione di sé e di quasi cancellazione viene percepito dal soggetto.

    Lo vedi? Sono io? Sono proprio io… si legge? Sono Alberto R.? C’è scritto, vero? Sono io, mi vedi..?

    Alberto pone questo interrogativo al suo tabaccaio, da cui compra le sigarette da una vita; ma oggi ha questo dubbio e vuole che insieme a lui, Francesco, il tabaccaio lo aiuti a fare chiarezza… allora gli squaderna sotto il naso la propria carta d’identità e lo invita accoratamente, ma anche un po’ aggressivamente, a fare questa verifica con lui…

    Sono io? E’ vero che sono io questo?

    Dopo poche settimane Alberto, insieme alla sua rivendicazione identitaria, viene ricoverato con diagnosi di Demenza di Alzheimer.

    Il sentimento di perdita di sé, di perdita della sensazione di familiarità col mondo, di non riconoscimento profondo che a un certo punto affiora nella demenza, precede di solito la percezione che i familiari o gli amici stretti possono avere di questo sfaldamento dell’identità, e insomma della struttura personale: giacché spesso il soggetto lo sente ancor prima che gli altri se ne accorgano.

    Peraltro è possibile che una persona che dall’esterno diremmo totalmente deteriorata ci sorprenda con delle affermazioni dotate di un insight impressionante:

    La signora Alma, con diagnosi di demenza ormai da molti anni, viene periodicamente interpellata sulla sua età, sul fatto che abbia figli, e quanti, e come si chiamino.

    Nel tentare di rispondere s’inciampa, confabula, tenta e ritenta, cerca e ricerca le risposte. Quando si accorge di non riuscirci, si ferma, mi guarda fisso, si drizza sulla schiena e fa un mezzo sorriso stanco: … è tutto dentro di me dice, e mi congeda.

    Nella confabulazione, a volte, affiorano

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