Face Mask
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Anteprima del libro
Face Mask - DEBORAH VIDALI
2018
CAPITOLO UNO
Prima mostra personale
26 giugno 2015 – New York
Emma arrivò a Manhattan tra la 24 West e la 57th Street con un Uber e la galleria d’arte era lì, per lei spaventosa, ad aspettarla, per farla stare questa volta dall’altra parte dell’obiettivo. Entrò nell’edificio e confondendosi tra un gruppo di persone vestite elegantemente, strinse i denti e si incamminò verso gli spazi posti vicino al giardino interno. L’emozione le ribolliva nel petto. Si guardò ad uno specchio che, posizionato in modo strategico, faceva sembrare quel corridoio di passaggio ancora più grande, e tutte le sue insicurezze ritornarono a galla. Non importava cosa diceva a se stessa, quella stupida vergogna del cazzo, quegli anni di gelido isolamento, non sembravano abbandonarla. Non importava che ora riuscisse ad attrarre i ragazzi. Rimaneva quella a non essere mai stata baciata fino a quando era andata alle superiori. Non importava sapesse di essere intelligente o di avere degli amici che la supportavano. Sotto sotto, era ancora quella ragazza. Cazzo! Non sarebbe riuscita a respirare quando le avrebbero puntato i riflettori addosso. Perché lo avrebbero visto. Lo avrebbero visto tutti che era ancora quella ragazza grassottella che non riusciva a inserirsi.
Poi si concentrò e il suo riflesso la fissò con aria di sfida, come sempre.
Francy le corse incontro non appena si affacciò alla sala, prima che la hostess le chiedesse l’invito.
A parte pochi invitati, nessuno conosceva il volto di Emma perché aveva sempre preferito mantenere l’anonimato e parlare attraverso le sue immagini. Ora però era arrivato il momento di uscire dall’ombra.
La sala era molto grande, illuminata soffusamente e con luci artificiali che andavano a colpire, secondo un preciso studio di illuminotecnica, le fotografie posizionate con cura. Al centro di quella prima stanza c’era l’immagine di una bambina.
Francy sembrava più una ragazzina eccitata che la sua agente. Sembrava più emozionata di lei ed Emma provò un’ondata di affetto.
Si lasciò guidare da lei, verso quell’immagine. Ricordava quella foto, l’aveva scattata un pomeriggio di primavera mentre camminando a Williamsburg era rimasta incantata da quello che aveva visto. Un bimba di non più di quattro o cinque anni era seduta sul marciapiede polveroso, con dei vestiti sgualciti e sporchi, i capelli scarmigliati e una sbucciatura sul ginocchio. Ma sul suo viso c’era un’espressione di pura meraviglia mentre guardava il piccolo fiore che aveva colto, nato tra le crepe dell’asfalto. Il suo cuore, in quel momento, si era gonfiato, mentre in ginocchio catturava quell’attimo così vero.
Alcune persone radunate lì intorno stavano osservando l’immagine. Il cuore le batteva così forte che sembrava scuotere la sala e il suo contenuto. Francy scivolò leggera verso l’uomo che sembrava più preso da quella fotografia, allungò una mano affusolata e gli toccò la manica.
Fece scivolare l’altra mano in quella di Emma mentre il signor Rouche si girò verso di loro. Aveva capelli argentei lisciati all’indietro, un volto interessante, di corporatura robusta e uno smoking nero che gli stava a pennello. Parve sorpreso dalla presentazione, e quando il suo sguardo incrociò quello di Emma la sua bocca si curvò in un sorriso.
Lei si sentì avvampare e Francy scoppiò nella sua tipica risata, limpida e argentina.
Emma decise di assumere l’espressione impassibile che aveva sempre quando non sapeva come comportarsi.
Il signor Rouche alzò il bicchiere di liquido chiaro dal quale stava bevendo e ne buttò giù un sorso, pensieroso.
La sua amica e agente si rivolse di nuovo al signor Rouche e lei si chiese di sfuggita se si chiamasse Xavier come il professore degli X-man. Sembrava tipo da riuscire a leggerle nella mente.
Francy continuò:
Trasudava sicurezza ed Emma avrebbe voluto tapparle la bocca.
Francy non ebbe un attimo di esitazione.
Il signor Rouche aveva un profumo speziato, intenso ma non fastidioso, sicuramente costosissimo. La prese sottobraccio e si avvicinarono verso l’ingrandimento della foto successiva. Forse quei modi cortesi erano una prerogativa degli uomini illustri o forse degli uomini ricchi e colti e lei aveva poca esperienza con entrambe le categorie. Camminava al suo fianco, alla disperata ricerca di qualcosa di intelligente da dire. All’improvviso si rese conto che il signor Rouche non si aspettava nessuna battuta arguta, ma era profondamente assorto nella contemplazione dell’immagine che aveva davanti.
Solo allora si accorse dell’opera che stava guardando.
Emarginata
era posizionata su un cavalletto nero e l’illuminazione metteva in risalto ancora di più quel gioco di chiaroscuri che caratterizzava l’immagine e che pareva uscire dalla sua cornice a voler dire qualcosa.
Come un flashback le ritornò in mente la giornata in cui quell’immagine era stata fermata nel tempo. Si ricordò di quanto determinata fosse stata a trovare uno scatto.
Era ben consapevole che Francy non capisse nulla dei suoi discorsi ma non importava. Voleva andare a Hoboken perché da quando era arrivata a New York non c’era mai stata e voleva farlo quel giorno; era come se una vocina l’avesse spinta a farlo prima di partire per Londra dove sarebbe rimasta per una settimana.
Sarebbe andata a far visita ai suoi genitori che non vedeva ormai da almeno quattro mesi. Ma prima, aveva bisogno di uno scatto che facesse da apripista per la sua mostra personale. Voleva lo scatto
che avrebbe lasciato tutti bocca aperta.
Collaborava già come freelance con più di un giornale e anche con due agenzie pubblicitarie di rilievo. Il suo nome ormai era una garanzia; era professionale, puntuale, capiva al volo i bisogni di chi le commissionava un lavoro e per questo era molto ricercata. Ovviamente ne era felice. Reputazione, denaro, e che il suo nome fosse tra i più conosciuti nel mondo della fotografia pubblicitaria e di moda era appagante. Ma voleva di più. Voleva che la gente vedesse quello che lei vedeva attraverso l’obiettivo. Non scenette preconfezionate, ma vita vera. Emozioni vere.
Ripensare a come aveva iniziato, le faceva venire i brividi. Aveva sempre pensato che nella vita molte cose, involontariamente, le avrebbe dimenticate e sapere che con uno scatto avrebbe potuto congelarle esattamente com’erano, l’aveva resa e continuava a renderla felice. Sarebbe stato ancora più bello se qualcuno avesse inventato un qualcosa che nelle foto intrappolasse anche i suoni, gli odori, le lacrime, le risate, l’amore. Tutto in uno scatto, tutto fermo lì, per sempre.
Aveva camminato lungo la riva occidentale del fiume Hudson da dove poter ammirare la splendida vista sullo skyline di Manhattan, promettendosi di ritornare la sera perché le luci della città sul fiume sarebbero state un perfetto connubio di colori. Era arrivata finalmente nel New Jersey, stato che da sempre era l’emblema dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti: infatti tra i circa 50.000 abitanti, una percentuale rilevante erano quelli di origine italiana. Bastava pensare che una delle più grandi voci italo-americane di sempre, Frank Sinatra, era nato in quella piccola comunità a ridosso della Grande Mela. Si era addentrata nei vicoli di una città visibilmente in festa e questo, paradossalmente al fatto che fosse la prima volta che la vedeva, l’aveva fatta sentire a casa. I marciapiedi pullulanti di persone che stavano festeggiando l’Hoboken Italian Festival e le strade con un viavai di pedoni e auto. Aveva preso il telefono per sentire i suoi genitori e confermare che di lì a qualche settimana si sarebbero rivisti. Ma, mentre era rimasta in attesa della voce di sua madre, il suo sguardo vagante e incuriosito si era bloccato, letteralmente, su una ragazza che, semi nascosta dietro a un angolo, aveva schivato un gruppo di ragazzine. Loro erano appena uscite dalla famosa pasticceria di Buddy, il Boss delle torte
, tutte molto ben vestite, magre, bionde con i capelli lunghi e le classiche voci da gallinelle viziate; mentre lei era rimasta lì, da sola, dentro ad un maglione sformato nonostante fosse settembre e la temperatura fosse mite, per nascondere tutti i chili di troppo. Pantaloni larghi, capelli scuri e un po’ spettinati e, mentre le guardava andarsene, ognuna con il proprio muffin tra le mani, sbocconcellando e ridendo in modo plateale, sulle sue guance erano scesi dei lacrimoni. Lo stomaco di Emma si era contratto, stringendosi talmente tanto da provocarle dolore e la nausea era cominciata a salire insieme a tantissime emozioni ormai sopite da tempo. Tutto era tornato a galla in un battito di ciglia: le derisioni, le prese in giro, le cattiverie, gli insulti, l’emarginazione di un tempo. Aveva messo il telefono in tasca e con un gesto spontaneo aveva afferrato la reflex che portava con sé. Aveva attraversato la strada cercando di non farsi notare, quasi senza badare alle auto, e si era messa all’angolo opposto in modo da poter guardare senza essere vista. Aveva scattato finché non si non si era accorta che la macchina aveva qualche problema, non riusciva più a mettere a fuoco. L’aveva scostata dalla faccia per controllare l’ottica, ma la sfocatura non era sparita; anche lei stava piangendo e i suoi occhi erano colmi di lacrime come quelli di quella ragazzina che in quel momento, era sparita. Emma si era guardata in giro per cercarla, avrebbe voluto consolarla, avrebbe voluto assicurarle che avrebbe potuto farcela, avrebbe voluto dirle di non mollare. Sicuramente sarebbe stata dura, difficile, tutta in salita, ma perseverando sarebbe riuscita ad uscire da quell’involucro che la soffocava, che la sotterrava, che la rendeva solo un impedimento da schivare. Avrebbe voluto prenderla per mano e confortarla ma… si era volatilizzata. Aveva controllato sul display della macchina per rendersi conto di non aver sognato, di averla vista davvero. Ed era lì, la sua immagine era lì. Con tutto il suo dolore. Alcuni capelli appiccicati alla faccia, bagnati dalle lacrime. Poi un altro scatto dove gli occhi erano scesi a guardare le sue forme. Un altro ancora a riguardare le ragazzine che continuavano a ridere. E un altro ad asciugarsi la faccia con la manica del maglione e poi un altro, mosso, sfocato, dove probabilmente lei se n’era andata ed Emma aveva singhiozzato.
Aveva ripescato il cellulare, che evidentemente, mentre lei scattava aveva continuato la sua chiamata.
Aveva trovato lo scatto giusto. Tutti quei sentimenti, tutte quelle emozioni, tutto quel dolore, sarebbero passati attraverso quelle immagini e chi le avesse guardate con attenzione avrebbe sentito, almeno in parte, quello che lei aveva provato, quello che lei aveva subito fino alla sua metamorfosi; o almeno lo sperava.
Appena era arrivata a casa, in serata, si era buttata sotto la doccia, aveva indossato dei pantaloni in cotone leggero e una canotta. Aveva ordinato giapponese da Mister Zeng e messo tutte le foto fatte durante la giornata sulla memoria del computer e su tutti gli altri dispositivi a sua disposizione.
Il fiume Hudson; il Pier C Park uno dei moli più recenti, una specie di piccola isola galleggiante con uno splendido panorama su Manhattan; il molo A dove era stato costruito un memoriale dedicato ai soldati americani salpati alla volta dell’Europa durante la seconda guerra mondiale; la stella in stile hollywoodiano in onore di Frank Sinatra davanti alla casa in cui era nato, erano stati i soggetti della sua Canon. Ma dopo aver fotografato quella ragazza, non aveva più fatto alcuno scatto, troppo sconvolta probabilmente da tutte le emozioni che aveva risvegliato. Aveva continuato a guardare quelle immagini e ogni volta che si concentrava su di lei, i suoi occhi diventavano lucidi.
Era un’immagine forte, piena di angoscia. Ed in quel momento, in mezzo a tutta quella gente, per un attimo la vide con gli occhi degli altri e il respiro le si mozzò in gola. Non era solo la foto del viso di una ragazza in sovrappeso che, con le lacrime agli occhi, guardava verso il nulla; era sofferenza, era dolore. L’immagine era aperta all’interpretazione di ognuno, senza pensare per forza al significato che le lei le aveva attribuito, ma trasudava una forte emozione. Si era vista e rivista molte volte in quell’immagine, anche dopo la sua metamorfosi fisica. In fin dei conti, non era bastato perdere tutto il suo sovrappeso per cancellare anni di sguardi e commenti sprezzanti. Emma non disse nulla, ma guardò oltre, sperando che il signor Rouche passasse all’opera successiva.
Lei sentì che la fissava e alzò gli occhi.
Le rivolse un sorriso, che si sforzò di ricambiare. Sapeva che avrebbe dovuto parlargli della fotografia, venderla, vendere se stessa, ma non poteva. Non sapeva come fare. Solitamente i lavori le venivano commissionati e poi lei, semplicemente, portava le immagini tra cui venivano scelte quelle che avrebbe acquistato il committente.
Seguì un silenzio imbarazzato. Alla fine fu lui a prendere la parola, salvando entrambi.
Si sentì come scoperta, e tutto a un tratto avrebbe voluto sparire nell’ombra della stanza, da dove poter osservare senza essere osservata.
Era al braccio di una persona che poteva essere enormemente utile alla sua carriera. O meglio, a quella parte della sua carriera che per lei voleva dire sentirsi finalmente realizzata e libera.
La sua voce era tenera e gentile.
Il cuore le batteva dolorosamente nel petto.
E passarono oltre.
La serata continuò in un turbine di abiti costosi e complimenti che le davano alla testa.
Compiaciuta da tutte quelle attenzioni, passò da un mecenate entusiasta all’altro mentre Francy interpretò egregiamente il ruolo di chaperon.
In un momento di pausa, tra un ospite e l’altro, Emma si ritrovò difronte all’immagine dove i soggetti erano una chiesa e un cimitero della campagna inglese. L’aveva intitolata Sacro e profano
e benché le sue immagini non avessero spesso come soggetto il paesaggio, quella volta era stata attirata proprio dai colori di esso. Ricordava quella serie di scatti, fatta quando la sua mente e il suo cuore erano in subbuglio.
L’anno precedente, dopo essere stata presente alla partita di football NFL che si era disputata a Londra, e dopo una serata e una nottata alquanto bizzarre, aveva deciso di prendersi un giorno per pensare…
La strada si era snodata tranquilla tra vallate di cui non si scorgeva la fine e piccoli ponticelli in pietra. Il vento aveva soffiato intenso, frustando le chiome di eriche e ginestre, allacciandole insieme in un miscuglio di porpora e giallo che pareva uscire dal pennello di un impressionista. E poi c’era stato lui, il verde, che non era solo un colore, ma un insieme di forza e leggerezza, di pace e ardore, capace di cancellare in un istante ogni certezza. Perché di colpo non era più un misero sfondo su cui posare distrattamente lo sguardo prima di approdare a ben più intense bellezze. D’un tratto era lui il protagonista, il personaggio principale a cui il resto avrebbe fatto da contorno. Era brillante e insieme cupo, armonioso e delicato, eppure forte e irruento, come la vita che nascondeva. Emma non aveva mai visto un colore così. Immersa nella romantica bellezza della campagna inglese aveva attraversato decine di paesini, per lo più piccoli agglomerati di case disposte intorno ad una chiesa circondata da un prato puntellato di cupe lapidi inclinate. Aveva sentito come una sorta di strano misticismo nell’aria, come se sacro e profano in quei luoghi fossero tanto vicini da potersi toccare. Ed era stato tanto inquietante, quanto curioso. Perché nella sua mente ogni cosa doveva avere un ruolo, ogni posto una sua funzione e se prima di allora le era sembrato chiaro che la chiesa fosse un posto di speranza, a quel punto non riusciva a comprendere quale messaggio intrinseco dovessero invece portare quelle costruzioni alla gente del posto. Era come dire: pregate e abbiate fede, ma sappiate che prima o poi là sotto finirete. Era strano, e forse anche un pochino macabro e il suo pensiero era rimasto sospeso tra sacro e profano. Poco più tardi, nuvole minacciose avevano sovrastato ogni frammento di luce e un tuono era rimbombato nell’aria. Grosse nubi cariche di pioggia avevano raggiunto l’idilliaco paesaggio che stava attraversando, spinte da quello stesso terribile vento che l’aveva accolta all’arrivo. Una volta, aveva sentito dire da qualche parte, che in Inghilterra si potevano vivere tutte le stagioni in un sol giorno, tanta era la mutevolezza del clima. Aveva sbuffato, lanciando uno sguardo preoccupato all’orizzonte. Il verde brillante che solo qualche istante prima l’aveva affascinata si era trasformato in una grossa lingua grigio scuro che da ogni dove sembrava inseguirla, pronta a inghiottirla. Le ginestre e le eriche si erano dissolte e al loro posto avevano lasciato un leggero strato di vapore, che si levava sinistro nell’aria con sempre maggior insistenza. Aveva rallentato confusa, cercando di vedere qualcosa oltre la coltre di nebbia che intanto era salita dalla brughiera, e aveva capito che la sua era stata una scelta affrettata, per non dire assolutamente insensata. Noleggiare una vecchia macchina e inoltrarsi in posti di cui non aveva mai nemmeno sentito parlare, solamente per togliersi dalla testa quel giocatore di football, era senza alcun dubbio la sciocchezza più grande che avesse mai commesso. Certo, il pretesto di aver la possibilità di scattare delle immagini uniche in paesaggi mozzafiato era stata un’ottima scusa per non pensare al reale motivo che l’aveva fatta andare talmente su tutte le furie da aver bisogno di isolarsi dal mondo per almeno un giorno. Non era la prima volta che lo faceva, certo; prendere la sua Canon e partire per mete non stabilite, senza nessuno, solo per isolarsi e ritrovare la calma. Ma quella volta era stata veramente una scelta azzardata
Certo era stato che quella gita
avesse prodotto una serie di immagini molto belle e una, ora, era lì esposta, a ricordarle però, due occhi color dell’autunno; strati e strati di castano intenso che si fondeva al verde di foglie appassite, il tutto spruzzato da pulviscoli dorati. Due occhi che non potevano essere veri. Due occhi che doveva togliersi dalla mente.
Verso la fine della serata, la sua amica si fermò e salutò qualcuno dall’altra parte della stanza, facendole segno di avvicinarsi. Le persone davanti a lei le impedivano la vista degli ultimi invitati appena entrati in sala.
CAPITOLO DUE
Una serata diversa
26 giugno 2015 – New York
Una cinquantina di persone affollavano gli ambienti della galleria, sparse tra il tavolo del buffet, i corridoi e le sale tappezzate di fotografie di varie dimen