Il paese degli orchi - Crescere una figlia difficile: crescere una figlia difficile
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Book preview
Il paese degli orchi - Crescere una figlia difficile - Lorella Chechi
COLOPHON
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2018 Oltre edizioni
http://www.oltre.it
ISBN 9788899932350
Collana *edeia - letture del mondo
Titolo originale dell’opera:
Il paese degli orchi
Crescere una figlia difficile
di Lorella Chechi
Indice
Autore
Prefazione
1. Cucciolo Rosa
2. Una piccolissima goccia
3. Paola e Matteo
4. La sensibilità delle parole
5. L’altalena, è di tutti!
6. La lunga lotta per il sostegno
7. Facciamo sempre tutto il possibile
8. Nonno Elia
9. Se potesse
10. Nonno Ugo
11. Non ho bisogno di nulla. Ho fretta!
12. Un affare privato
13. Nonna Olga
14. La vita che cambia
15. Un arrivo scontato
16. Un bombardamento elettrizzante di suoni
17. L’ombra bambina
18. Una lotta continua
19. Per sempre diversa
20. La luce dei suoi occhi
21. Un comportamento parecchio problematico
22. Le violenze sui disabili
23. Preoccuparsi non serve a niente
24. La nuova relazione
25. Carmen e i pettegoli
26. Due universi
27. La piscina
28. Fango-terapia
29. Forti sensi di colpa
30. L’acquario
31. La separazione consensuale
32. Nonna Eleonora
33. La giovane Lavinia
34. «Mamma e Elea»
35. Il prelievo di sangue
36. Puoi soltanto amarla immensamente
37. L’amicizia
38. La legge parla chiaro
39. L’appuntamento all’anno prossimo
40. Un’energia inspiegabile
41. Il compleanno e le frange di Carmen
42. Le difficoltà non vanno in vacanza
43. Al mare sull’Adriatico
Postfazione
LORELLA CHECHI
Lorella Chechi, è nata il 20 settembre1967 in un podere dell’Alta Maremma, in provincia di Grosseto. La passione per i libri e le discipline letterarie l’hanno spinta a conseguire la maturità classica e la laurea, in Lettere moderne a indirizzo storico, a Siena nel 1993. Oggi insegna in una scuola secondaria di primo grado a Grosseto.
Il 18 settembre.2008 è diventata mamma, da grande
, di una bella bambina. Le difficoltà sono iniziate prima della sua nascita e la paura di non farcela è stata tanta.
Chiara, figlia unica, è meravigliosa ma faticosissima.
PREFAZIONE
Nell’estate del 2015, delusa ancora una volta dalla scarsa efficienza delle strutture e dei servizi pubblici ed esausta dalle troppe complicazioni burocratiche, che quotidianamente mi si presentano davanti, decisi di andare a parlare con un giornalista di un quotidiano locale. La cortesia e la comprensione caratterizzarono l’incontro, ma arrivati alla conclusione le sue parole furono: «Ha perfettamente ragione nella nostra città e nella società tantissime cose non funzionano riguardo all’handicap, infatti le lamentele da parte delle famiglie con figli disabili sono continue, ma le problematiche che mi ha esposto sono numerose. Quindi, raccolga le idee su carta e poi ritorni da me.»
A fine estate dopo un estenuante pomeriggio trascorso al parco con «la mia piccola tiranna», spiazzata dalla vocina di una bambina, che spronata dalla nonna mi urlò in faccia «L’altalena, è di tutti!», ho sentito la prepotente esigenza di mettermi a scrivere per sfogare la mia rabbia e l’ennesima delusione. Mi sono tornate alla mente le parole di quel giornalista.
All’inizio la mia intenzione era proprio quella di seguire il suo consiglio, ma mentre battevo le dita sulla tastiera del portatile, Chiara si è avvicinata per avere la mia attenzione e all’improvviso il desiderio di parlare della nostra durissima realtà si è impossessato completamente di me. Non potevo più fare finta di niente, dovevo usare le parole «come unico modo efficace per favorire riflessione e comprensione in chi la disabilità non la vive in prima persona.» Mi sono sempre rifiutata di rinchiudere mia figlia in casa
, di tenerla lontana dai luoghi affollati, per evitare che desse fastidio agli altri e ho intenzione di continuare su questa strada.
Stare zitta è un lusso che non mi potevo più permettere
. Questa storia è per Chiara-Elena, per tutti quelli che, spesso, vengono messi da parte perché diversi e per tutti quei genitori che sono consapevoli di dover lottare per farsi ascoltare nella speranza di aiutare a costruire una comunità umana più accogliente e inclusiva, alla quale nonostante tutto
devono continuare a credere.
Immediatamente decisi di non raccontare in prima persona, perché sarebbe stato troppo doloroso, inoltre ritenni giusto non coinvolgere più di tanto il mio compagno e affatto la mia famiglia. Quindi, mi sono costruita una maschera, mischiando la fantasia alla realtà e utilizzando la scrittura in terza persona. Dalla mia vicenda personale è nata una storia verosimile, che affronta lo spinoso argomento della diversità e dell’handicap intellettivo.
Dopo un anno, mi sono sentita ancora più forte e felice della mia scelta: avevo realizzato il sogno di scrivere un romanzo e soprattutto quel lungo percorso introspettivo mi aveva aiutato a comprendere in modo migliore me stessa e ad avvicinarmi a quel mondo diverso
in cui è immersa mia figlia.
Nonostante le protagoniste principali siano Elena e la sua mamma Paola, grazie alla mia maschera ho avuto la possibilità di dare spazio ai punti di vista, alle emozioni e agli stati d’animo del padre, Matteo, dei nonni, degli amici e di tutte quelle persone che ruotano intorno a questa famiglia.
Non so se ci sono riuscita, ma uno dei miei propositi è sempre stato quello di non giudicare nessuno e di rispettare le opinioni e le angosce degli altri, poiché il dolore è un qualcosa di straziante e molto personale, e proprio per questo di solito «... è difficile che il vissuto e la sofferenza individuali coincidano in una sola verità.» Nel libro, infatti, non ci sono né buoni né cattivi, unicamente persone umane: alcune più fragili, altre più forti davanti ad un ritardo mentale a livello grave con tratti autistici, «... una situazione da accettare per quello che è con coraggio e tanto amore, senza possibilità di significativi cambiamenti.»
Alla classica domanda a chi è rivolto questo libro? rispondo che la mia intenzione è di coinvolgere tutti: chi prova paura e imbarazzo di fronte alla diversità, chi crede di essere preparato ad affrontare una situazione anomala, chi pensa che un figlio diversamente abile ti renda la vita più ricca, chi non riesce a vincere sempre su quello sfinimento psicologico che logora lentamente, chi è convinto che un figlio disabile sia speciale e chi ritiene che ogni figlio, con o senza handicap, sia sempre speciale. I quarantatré capitoli de Il paese degli orchi sono brevi, alcuni brevissimi. I numerosi dialoghi, a mio avviso, rendono il racconto scorrevole, vivo e vero: il lettore riesce, non soltanto, a partecipare alle avventure snocciolate dal narratore, ma probabilmente a penetrare dentro l’animo dei protagonisti.
Ho trovato il coraggio di narrare questa storia, facendo a me stessa alcune volte anche violenza, perché ritengo che la malattia, l’handicap, il dolore, soprattutto se riguardano la prole, soltanto vivendoli sulla propria pelle si possono davvero comprendere. In questo manoscritto si respira la fatica quotidiana, i sensi di colpa, l’impotenza, la paura, la frustrazione, che provano i genitori. Sono due scalatori, Paola e Matteo, lasciati soli, di frequente, da uno Stato sociale che «apparentemente sembra funzionante, ma nella realtà concreta è quasi inesistente. E quando c’è, non incide nella risoluzione delle problematiche più gravi e urgenti.» Ogni giorno si trovano davanti quell’alta montagna costituita dai tanti ostacoli burocratici, dai pregiudizi, dall’indifferenza e da un servizio pubblico senza soldi, stracarico di pazienti, costretto a fornire «trattamenti non sempre tempestivi e validi.»
Accanto alla paura del futuro e alla convinzione che l’handicap diventi piano piano un affare privato e i disabili una minoranza non sempre tollerata in una società stanca e vuota, c’è comunque, nello stesso tempo, nonostante tutte le difficoltà, la determinazione ad andare avanti senza piagnistei e retorica, per il bene del Cucciolo rosa, che ha tutto il diritto di vivere al meglio quell’avventura straordinaria che è la vita.
1. CUCCIOLO ROSA
La bambina dorme sul divano.
La testa sotto il cuscino e la gambina sinistra dal ginocchio in giù sollevata verso il soffitto.
A tale visione Paola pensa che la figlia sia ancora sveglia.
Quando capisce che il suo cucciolo è nel mondo dei sogni, sorride e le si mette a sedere accanto.
Le accarezza i folti capelli.
Sono morbidi e tantissimi come i pensieri che affollano immancabilmente la sua testa. Il vestitino corto mette in mostra il sedere nudo: «Accidenti, si è spogliata di nuovo!» Sapeva che i bambini come Elena non volevano costrizioni e anche gli abiti erano dei limiti al loro bisogno di libertà.
La piccola, infatti, al mare non tollerava il costume e in casa, anche durante l’inverno, aveva iniziato a togliersi tutti gli indumenti.
Un pomeriggio, mentre fuori il cielo si stava scatenando e il vento piegava le chiome degli alberi, dopo essersi denudata completamente, pretendeva per forza di uscire. Addirittura, si era messa lo zainetto sulle spalle per far capire meglio quale era il suo desiderio colpendo con pugni e calci la porta per protesta.
La madre, di fronte a quelle esilaranti scenette, sorrideva divertita anche se il pensiero che sentisse il bisogno di spogliarsi in pubblico o in classe, davanti ai compagni, la preoccupava tremendamente.
Ha deciso di approfittare del sonno della figlia per pulire casa.
Sa già che non ce la farà mai a terminare l’opera ma è determinata a provarci, anche perché al risveglio dovrà dedicarle ogni sua attenzione.
Il pavimento della cameretta è invaso da pupazzi di ogni forma e colore, che abitualmente dimorano sopra il letto.
«Guarda! Il mio Cucciolo Rosa!»
Lo raccoglie e lo accarezza con delicatezza.
È il primo peluche che Paola aveva avuto in dono.
È di colore rosa confetto con un bavaglino bianco legato al collo con scritto Love.
Ha un inaspettato brivido di nostalgia.
La prima volta che ha visto Elena anche l’orsetto era con loro. Era stato sistemato in un angolo della culla ai piedi della neonata.
Matteo glielo aveva portato insieme ad una orchidea e lei gli aveva chiesto di metterlo accanto alla bambina, aggiungendo: «Le farà compagnia quando io non ci sarò.» Era il giorno dopo il parto, nel tardo pomeriggio, che vide per la prima volta la sua neonata. Suo marito l’aiutò a scendere dal letto.
Un’infermiera appena entrata in turno, le sorrise e la salutò: «Come sta signora, va a conoscere la sua piccolina?»
Poi avvicinandosi all’altezza dell’orecchio con garbo bisbigliò: «Mi raccomando, parli poco, altrimenti la pancia non si sgonfia!» Paola sospirò, Matteo la guardò e si mise a ridere.
«Sono tutti noiosi, soprattutto le ostetriche. Signora non parli, altrimenti ingurgita aria e la pancia non si sgonfia!» sbuffò contrariata.
Nell’atrio incontrarono due bambini che stavano entrando nel reparto maternità insieme al padre. Andavano a trovare la mamma e a conoscere il nuovo arrivato.
La ragazzina, seria seria, con delle trecce lunghissime che le scendevano sulla schiena, teneva in una mano un mazzo di fiori e nell’altra un pacchettino con un grande fiocco azzurro. Il fratellino, eccitatissimo, faceva domande a raffica tirando con impazienza la mano del papà, che a fatica riusciva a controllare l’emozione: «Come è questo fratellino? Perché lui sta con mamma? Quando viene a casa? Dove dormirà?»
Paola e Matteo accennarono ad un sorriso davanti alla curiosità del bambino, inteneriti da quel bel quadretto familiare, anche se la donna appena oltrepassarono la porta, continuò di nuovo a borbottare: «Non mi importa se mi rimarrà questa maledetta pancia. Io voglio sapere che cos’ha mia figlia e quando la potrò portare via da qua!» esclamò in maniera decisa.
«Rilassati, devi avere pazienza» disse il marito mettendole il braccio intorno alle spalle e spingendola dolcemente verso l’ascensore.
L’uomo sembrava tranquillo.
Lui la piccola già la conosceva.
Il giorno prima, dopo il cesareo, era salito nel reparto di terapia para-intensiva neonatale seguendo quella specie di navicella spaziale al cui interno era stato adagiato il suo bambolotto appena nato.
Si era precipitato per pochi minuti nel reparto di Ostetricia dalla moglie per prendere il sacchetto con il cambio delle tutine e nuovamente era sparito di sopra, quasi di corsa. Lei era agitata, non vedeva l’ora di conoscerla, di stringerla, di sentire il suo odore, di baciarla e stringerla di nuovo.
Entrarono nella stanza delle culle.
Matteo prese con delicatezza quella rosea e paffutella bambolina e la porse alla moglie. Paola si sedette.
La tenne tra le braccia.
Era paralizzata, non riusciva a muoversi.
Non era in grado di parlare.
Scoppiò a piangere.
L’infermiera staccò la comunicazione telefonica e si avvicinò: «Signora, è normale, si è emozionata.»
«Lo vede quant’è bella sua figlia!» mormorò accarezzando con lo sguardo commosso i due genitori e quella creatura adorata e tanto attesa.
«Ora si calmi, la piccola deve mangiare, provi ad allattarla» disse aiutandola.
I singhiozzi la scuotevano.
Non riusciva a calmarsi.
Il marito baciando e accarezzando ora l’una ora l’altra delle sue donne cercava di tenere sotto controllo il batticuore.
Le lacrime scendevano prepotenti anche dagli occhi della neonata.
Aveva fame, non era capace ad attaccarsi al seno materno e strillava sempre più arrabbiata.
Soltanto con l’arrivo del biberon la piccolina si quietò.
Paola vide l’orsetto rosa che la stava guardando con due occhietti piccoli e neri. Sfiorò con le labbra la guancia morbida della sua bambina, la adagiò delicatamente dentro la culla, la coprì e le mise accanto il pupazzo.
Si piegò e la baciò di nuovo.
«Buonanotte piccola mia, questa tenera cucciolotta ti farà compagnia.»
«Tu sei il mio tesoro, il mio meraviglioso Cucciolo Rosa» sussurrò accarezzandola dolcemente.
Tanti altri animaletti erano stati regalati alla piccola ma quel peluche era speciale, anche se ormai era tutto spelacchiato e senza un occhio.
Aveva conosciuto Elena dalla nascita.
Lei, che non giocava mai con i suoi pupazzi, alcune volte era stata vista stendersi sul letto con l’orsacchiotto in mano: lo accarezzava, lo sbaciucchiava e con le dita gli toccava gli occhi e la bocca. Grazie a quel piccolo orsetto la donna aveva iniziato a chiamare la figlia Cucciolo Rosa.
2. UNA PICCOLISSIMA GOCCIA
Paola riesce a riordinare le camere da letto, il bagno e a spolverare velocemente lo studio. Prima che la figlia si svegli, ripensa alla conversazione mattutina avuta con Carmen, la sua più cara amica.
Avevano iniziato a lavorare nell’azienda vinicola nello stesso anno. La donna, separata da tanto tempo, era la compagna di un medico che viveva nel capoluogo toscano. Con devozione e discrezione era stata vicina a Paola nei momenti più bui e complicati mostrando tanto affetto anche ad Elena. Ma non sentendosi all’altezza di rimanere da sola con la bambina, aveva sempre preferito uscire insieme alla sua mamma per farla evadere dalla gravosa routine oppure aiutarla a scoprire se c’era qualche terapia nuova da sperimentare o qualche bambino con una patologia simile per avere un confronto. Paola si ricorda delle parole di Carmen: «Inviami i risultati della risonanza magnetica di Elena, così, domenica li farò leggere al neuropsichiatra infantile, amico di Walter.» Quel pezzo di carta lo avrà esaminato in mille occasioni, ma è sempre come se lo leggesse per la prima volta.
Quei termini tecnici la inquietano, la fanno sentire impotente.
Lo sguardo come sempre si ferma sulla frase che l’aveva colpita fin dalla prima volta più delle altre: ... si segnala aspetto pseudoschizencefalico della corteccia cerebrale.
Quella parola, lunga e impronunciabile, la spaventa. Anche la presenza di corteccia cerebrale la rende nervosa. Un pomeriggio durante una fugace sosta in un bar, in effetti, la sua amica l’aveva messa al corrente che la corteccia cerebrale era importantissima perché aveva un ruolo centrale nelle funzioni mentali e cognitive, come il pensiero, la coscienza, la memoria, la concentrazione e il linguaggio.
Ritorna con la mente a quella mattina in cui la dottoressa le comunicò l’esito dell’esame senza mai guardarla negli occhi. Teneva la testa bassa e con un filo di voce le fece l’esempio delle bolle di sapone: «I neuroni non si sono sviluppati, sono come tante bolle di sapone che sono scoppiate nella parte del cervello che è stata colpita.» Infatti, nella relazione che Paola tiene tra le mani c’è scritto: ... ha determinato un arresto della migrazione neuronale...
Inoltre quel giorno, insieme ai dettagliati riscontri dell’esame, costretta dalla sua professionalità, le riferì tutta la verità sulle probabili conseguenze: «Dobbiamo guardare la bambina, è bellissima, non sembra avere problemi motori ed è ancora tanto piccola, ha soltanto tre mesi» premise prendendo tempo, mentre il cuore della mamma sembrava che si fosse fermato in attesa che la giovane donna terminasse il suo angosciante verdetto.
«Il mio compito, però, è quello di metterla al corrente di tutto. Non potrebbe mai accadere ma quello che le devo rivelare forse la sconvolgerà.»
Rimase immobile, ancora in attesa.
«Ripeto, non è detto che succederà!» continuò con un filo di voce.
Gli occhi di Paola fissavano la dottoressa, che alzando leggermente la testa concluse il suo delicato discorso: «Elena potrebbe soffrire di convulsioni per tutta la vita.»
Non si spaventò.
Non chiese altre spiegazioni.
In quel momento la sicurezza che lei e Matteo insieme ce l’avrebbero