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La grande casa bianca
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La grande casa bianca

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About this ebook

Una grande casa sulla sommità di un colle a picco sul mar Tirreno, teatro dell’epopea di una famiglia, custode inconsapevole dei segreti di un’antica leggenda, attraverso anni e generazioni, in una Toscana misteriosa e incantata.
Dall’Era degli Etruschi,un varco aperto per il passaggio delle anime dei morti…
Un potente medium che catalizzerà le forze nel tentativo di chiudere il varco.
Una lotta epica tra il Bene e il Male, al termine di un terribile viaggio in una dimensione parallela.
“…Colle Nitti, silenzioso custode di antichi segreti di vita e di morte.”
LanguageItaliano
Release dateOct 17, 2018
ISBN9788869826887
La grande casa bianca

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    La grande casa bianca - Maurizio Gramolini

    Epilogo

    Altraga - Il colle

    Si staglia nitido sull’orizzonte.

    L’azzurro del Tirreno, sullo sfondo, a ovest, e la macchia mediterranea delle colline metallifere a est.

    All’occhio del passante quasi sempre sfugge il bianco della strada sterrata, delle poche curve che rapide conducono alla sommità e altrettanto spesso sfugge il nero metallo del cancello che apre la via alla grande casa bianca.

    Ma a volte anche l’occhio distratto coglie un movimento, un biancore che si agita in cima al colle, e guardando con attenzione appare, anche se fugacemente, per un solo istante, l’insieme della casa, delle grandi finestre e delle tende bianche che ondeggiano nella brezza, e che per prime hanno attirato il nostro sguardo.

    Molto più raramente un passante che si avventuri fino a lambire l’ombra del colle, percepisce quelle sensazioni che si provano entrando in un grande tempio antico, che lascia intuire le imponenti dimensioni del tempo trascorso e le tracce di coloro che, in epoche diverse, ne hanno attraversato le navate.

    E a volte quel passante così sensibile alza lo sguardo, senza sapere il perché, e per qualche istante osserva Colle Nitti, silenzioso custode di antichi segreti di vita e di morte.

    Prologo – Etruria - VI secolo a.C.

    Le fiamme delle torce, agitate dal vento, illuminavano la scena, creando ombre in movimento sulla spianata alla cui sommità si trovava il tempio con il suo portale Mundus (Mundus), il varco per l’oltretomba.

    Il suppliziato fu condotto al cospetto del Sacerdote Tagete, innanzi al Mundus; l’uomo, di corporatura robusta, incatenato e circondato da soldati, appariva sereno e del tutto indifferente sia alla propria sorte che a quanto lo circondava.

    «Tuchulcha, stai per ritornare negli Inferi ai quali appartieni.

    Il Mundus del colle di Altraga sarà sigillato con il tuo sangue e tornerà ad essere il varco attraverso il quale i morti lasciano questo mondo, e dal quale nessuno potrà tornare.» proclamò Tagete guardando il suppliziato negli occhi.

    «Nessuno potrà varcare il Mundus e tornare nel mondo dei vivi, neanche i demoni come te Tuchulcha.» continuò.

    E con queste parole aprì il portale del tempio e tracciò con una lancia un solco sulla soglia, a delimitare il Mundus.

    Tuchulcha sorrise e parlò con la voce di mille bambini: «tu non puoi nulla contro di noi…» il vento aumentò facendosi impetuoso e rischiando di spegnere le torce.

    «Il varco sarà riaperto.» continuò il demone con voce di moltitudine.

    Tagete fece un cenno ai soldati che fecero inginocchiare il suppliziato in prossimità del solco sulla soglia del tempio ed estrasse dalla veste un lungo coltello sacrificale.

    «Demone lascerai questo corpo insieme alla vita che lo abbandonerà e tornerai negli Inferi dai quali sei venuto!» esclamò Tagete afferrando Tuchulcha per i capelli, poggiandogli la lama sulla gola.

    Il vento si fece tempesta mentre si levarono sempre più assordanti le voci delle moltitudini emesse dal demone:

    «Non ci fermerete, il varco sarà riaperto. Non oggi. Non domani. Un uomo inconsapevole sarà il fulcro che aprirà il Mundus e i morti cammineranno sulla terra».

    E mentre la lama del coltello di Tagete apriva la giugulare di Tuchulcha, o per meglio dire del simulacro umano che il demone aveva posseduto, le grida delle moltitudini non cessavano di uscire dalle labbra del suppliziato, mentre il sangue si riversava sul solco tracciato sulla soglia del Mundus.

    Incredulo Tagete affondò la lama nel collo, tranciando la trachea e affondando tra le vertebre, mentre le grida assordanti e disumane del demone sembravano aumentare…il sacerdote continuò a infierire con la lama tagliando muscoli e tendini, tirando il cranio per i capelli…fino a che la testa del suppliziato non si staccò completamente dal corpo.

    Il sacerdote la resse per qualche istante per i capelli, osservando incredulo il volto contorto dalla rabbia con la bocca che ancora si muoveva producendo una terribile cacofonia di voci e versi animaleschi.

    Terrorizzato come tutti gli astanti, Tagete gettò lontano la testa urlante del demone, afferrò gli anelli dei due grandi battenti e chiuse con un tonfo sordo il portale del Mundus.

    La Setta - 1946

    I monaci Carmelitani risiedevano nella Basilica del Corpus Domini di Milano, un grande edificio di culto, caratterizzata da una seconda navata, scavata sotto il corpo principale della Chiesa, di dimensioni maggiori rispetto a quella superiore, quasi a dimostrare che, in questo luogo, i principali riti erano indirizzati alle viscere della Terra anziché all’Alto dei Cieli.

    Milano, domenica 10 febbraio 1946

    Alzò gli occhi e guardò suo padre, un misto di gioia e di timore nello sguardo.

    «Papà, dove andiamo, dove andiamo?» gridò entusiasta il bambino.

    «Oggi ti porto a giocare in un parco bellissimo, che non hai mai visto, prendi qualche gioco e il pallone.»

    Il bambino, sei anni, si precipitò nella propria cameretta e racimolò in gran fretta qualche gioco, quasi avesse paura che l’attimo svanisse o che suo papà ci ripensasse…

    Corse subito da suo padre, che lo aiutò a mettersi un paio di stivali imbottiti, un cappottone a quadri.

    «Vai a salutare la mamma e il tuo fratellino, prima di uscire.» lo fermò sulla porta.

    Corse a perdifiato in cucina, dove la mamma, Mayda, stava lavando i piatti, suo fratello addormentato nella culla. Baciò di fretta sua madre e fece un gesto vago in direzione di suo fratello.

    «Mi raccomando, non prendere freddo, state attenti siamo a meno cinque oggi, è tutto ghiacciato!» gridò loro sua madre dalla porta della cucina.

    «Non succederà nulla, stai tranquilla…» le rispose sorridendo suo padre mentre lui si precipitava a rotta di collo giù per i tre piani di scale che conducevano al cortile del grande palazzo in piazza Guardi.

    Quando suo padre giunse in strada, lo aspettava impaziente, ansioso di sapere da che parte dirigersi.

    «Andiamo a prendere il tram, vieni.» gli disse.

    Raggiunsero la vicina fermata del 5, e dopo poco arrivò il tram.

    Salirono su una vettura quasi vuota.

    Il bigliettaio gli sorrise, fumava e aveva l’aria infreddolita, suo padre pagò e mise in tasca il biglietto. 

    Si sedettero sulla panca di legno gelata, e lui vide passare la latteria dove mamma e nonna qualche volta gli compravano le caramelle, la drogheria del signor Raddrizzani e la cartoleria, il suo negozio preferito: vendeva anche giocattoli e sporgendosi dietro la spalla di papà, riuscì per un attimo a intravedere la pistola giocattolo che sperava prima o poi di farsi regalare.

    Scesero in centro e dopo pochi passi raggiunsero la fermata del 27 che li portò in Largo Cairoli, il grande piazzale antistante il Castello Sforzesco, avvolto in una leggera nebbia che pervadeva Milano da fine ottobre a metà marzo.

    Non era mai stato lì e rimase senza fiato a osservare l’imponente mole del Castello, sembrava uscito da una fiaba.

    D'istinto, forse intimorito, prese la mano di suo padre e insieme si incamminarono per attraversare il cortile del Castello e sbucare nel grande Parco Sempione.

    Vide il grande parco materializzarsi davanti ai suoi occhi emergendo man mano nella nebbia, mentre alle sue spalle, di pari passo, il Castello si ritirava, reimmergendosi nella gelida foschia umida, quasi stessero davvero vivendo una fiaba e il maniero fosse sparito con un silenzioso incantesimo.

    Nelle due ore seguenti giocò con altri bambini, fino a quando i nuovi amici lo salutarono si incamminarono verso casa. 

    Giocò ancora, questa volta a pallone con il suo papà, godendosi quel momento che rimase impresso nel tempo e nella sua memoria.

    Avvicinandosi l’ora di rientrare attraversarono tutto il parco e tenendosi per mano sbucarono in via Pagano.

    Usciti dal parco, dalla nebbia prese vita un edificio altissimo, oscuro e austero, circondato da un’alta cancellata.

    Si fermò ad osservarlo, come ipnotizzato.

    «Papà, cos’è quello?», domandò indicando la forma oscura.

    «È una chiesa, solo una chiesa…» gli rispose suo padre.

    Il bambino provò sentimenti contrastanti, l’edificio enorme, costruito in mattoncini rosso scuro, anneriti dallo smog, gli metteva paura, ma al tempo stesso lo attirava.

    Sentendosi sicuro, la mano nella mano grande di suo padre, si avvicinò alla cancellata.

    Suo padre lo guardò, incuriosito.

    Al centro della cancellata si trovava il varco che consentiva ai fedeli di accedere al sagrato e alla chiesa.

    Sul sagrato alcuni monaci, saio nero, incappucciati per proteggersi dal freddo, lavoravano per rimuovere il ghiaccio dai gradini che portavano ai tre grandi portali di entrata.

    Padre e figlio, mano nella mano, giunsero ai piedi dei gradini.

    Uno dei monaci si girò ad osservarli, il cappuccio a nascondere quasi del tutto le fattezze del volto ad eccezioni degli occhi, grigi, luminosi…inquietanti.

    Lo sguardo del monaco, ignorando del tutto suo padre, si posò su lui.

    Il monaco e il bambino si squadrarono per lunghi istanti, quasi si conoscessero.

    Un ghigno volpino e ferale comparve nella penombra del cappuccio. Un sorriso senza buon umore, che non raggiunse gli occhi.

    «Ben arrivato bambino!» la voce del monaco era profonda, cupa.

    «Ti andrebbe di fare un giro nella nostra Santa Dimora, magari accendere una candela?» il tono era divertito, quasi canzonatorio, ma evocava un certo senso di minaccia.

    Rimase pietrificato dal terrore. Dentro di sé stava provando il panico che si vive solo nel peggiore degl’incubi, ma senza il consapevole beneficio di potersi svegliare.

    Il bambino sentiva che se il monaco avesse potuto prenderlo gli avrebbe fatto del male e soprattutto non avrebbe mai più fatto ritorno a casa.

    Suo padre non percepì nulla di tutto ciò, ma, forse inconsciamente, sentì il disagio di suo figlio e si parò tra il bambino e il monaco.

    «Grazie Fratello, magari un’altra volta, ora dobbiamo rientrare.» e si voltò per andarsene, dovendo quasi strattonare suo figlio, che non riusciva a muovere un passo, le gambe molli.

    «Il Signore sia con voi, fratelli, sono certo che ci rivedremo, ci sarà un’altra occasione! Dove abitate, qui in zona?» insistette il monaco, un ulteriore sogghigno sarcastico e minaccioso, lo sguardo fisso sul bambino, pervaso di antica e malevola saggezza.

    «No Fratello, abitiamo nel quartiere di Città Studi, abbastanza distante…» rispose suo padre mentre lui riusciva faticosamente a scuotersi.

    Prima che lasciassero il sagrato il monaco li avvicinò e afferrò il bambino per un braccio, «Come ti chiami figliolo, vorrei ricordarti nelle nostre preghiere…».

    Si girò sopraffatto dalla stretta e dall’odore fetido proveniente dal saio nero e alzò il viso a per rispondere: di nuovo i loro occhi si incrociarono e per la prima volta nella sua ancora breve vita il cuore del bambino fu sommerso dall’angoscia…terribili immagini di monaci incappucciati che perpetravano atti di indicibile violenza su uomini anziani e malridotti e su bambini indifesi e terrorizzati.

    Quasi non si accorse di rispondere con voce atona, pronunciando il proprio nome e cognome, «Alberto, Alberto Assani…».

    «Un bellissimo nome! Sono certo che ci rivedremo.» gli fece eco il monaco.

    TI RITROVERÒ!

    Gli esplose nella mente come un grido.

    TI RITROVERÒ! E SARAI NOSTRO…

    Una affermazione, una minaccia, una certezza. 

    Solo la mano di suo padre impedì che cascasse a terra e sottraendolo alla stretta del monaco riuscì a smuoverlo.

    Raggiunsero la fermata del 30, che li riportò in centro dove il vecchio e familiare 5 li lasciò in via Beato Angelico. 

    Quella sera non riusciva a prendere sonno.

    Nel buio della sua camera, a notte tarda udì un leggero colpo provenire dalla piccola scrivania adiacente al letto, seguito subito da altri a intervalli irregolari. Il terrore aumentò a dismisura e non avendo il coraggio di chiamare i suoi, si addormentò esausto dopo diverse ore, nascosto e rannicchiato sotto le coperte.

    Il fenomeno dei rumori provenienti dalla scrivania, da quel momento si ripeté regolarmente quasi tutte le notti.

    Milano, lunedì 11 febbraio 1946

    Nonostante l’incontro con il monaco risultasse confuso e poco definito, per il bambino fu un’altra giornata terribile.

    Era il giorno in cui, dopo la scuola, doveva andare da solo a casa della nonna paterna.

    I suoi gli avevano insegnato la strada da percorrere a piedi, un chilometro e mezzo circa.

    Andare dalla nonna per lui era fonte di inquietudine, era abituato a stare dalla nonna materna, Adriana, dolce e solare, mentre l’altra era una vecchietta minuta, dagli occhi azzurrissimi e vivaci che ti scrutavano a fondo. Era affettuosa e gli voleva molto bene ma…la sua casa lo terrorizzava.

    Due locali molto piccoli, con un balconcino che dava sul cortile interno del palazzo. La casa era sempre buia, le tapparelle sempre abbassate, e l’atmosfera era spessa, ovattata, sembrava quasi che tutto si muovesse al rallentatore.

    Gli pareva sempre di percepire qualcosa o qualcuno, forme scure che si muovevano ai margini del suo campo visivo, e che non riusciva mai a inquadrare.

    Più di una volta ebbe l’impressione, con la coda dell’occhio, che quando non la guardava sua nonna si muovesse per la stanza galleggiando, scivolando silenziosa, senza muovere i piedi. 

    Fu lungo la strada che accadde l’orribile episodio.

    Incrociò un signore sulla cinquantina, che giunto a pochi metri da lui barcollò, gli occhi rovesciati a mostrare solo il bianco, un'orribile bava bianca alla bocca.

    Si fermò di fronte al bambino, malfermo sulle gambe, nessun altro passante sul marciapiede in quel momento.

    Le parole uscirono accompagnate da schizzi di bava, e lui riconobbe la voce profonda del terribile monaco del giorno prima…

    TI RITROVERÒ! E ALLORA SARAI NOSTRO…

    Il bambino lo osservava, terrorizzato e incapace di muoversi.

    L’uomo si girò di fianco, verso la strada e cadde in avanti a peso morto, colpendo lo spigolo del marciapiede con la gola, in un grande spruzzo di sangue che continuò per un tempo che sembrava infinito, allargando sul selciato una pozza di sangue sempre più grande.

    L’uomo, cadendo sullo spigolo del marciapiede, si era squarciato la gola morendo sotto i suoi occhi in pochissimi minuti.

    Il bambino rimase immobile, pallido come un morto, appoggiato al muro, mentre alcune persone accorse dai vicini negozi cercavano di prestare soccorso al malcapitato a terra.

    Qualcuno gli

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