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Rossa la sera dell'avvenire
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Ebook416 pages5 hours

Rossa la sera dell'avvenire

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About this ebook

Mafalda Testa, 11 anni, trascorre in paese la spensierata estate che separa la conclusione delle elementari dall’inizio della scuola media; Carlo invece, nome di battaglia di Anselmo Bonacini, 22 anni, studente universitario fuoriuscito dal Pci di Reggio Emilia, vive in clandestinità come combattente dell’organizzazione rivoluzionaria Frontiera Rossa che ha

costituito un proprio nucleo anche a Bergamo.

I due personaggi intrecceranno le proprie esistenze in un crescendo di giornate sempre più drammatiche fino a giungere al violento finale, dove il rosso del sangue si confonderà, in un’immagine dalla forte valenza simbolica, con il rosso dell’ultimo tramonto d’estate.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 17, 2018
ISBN9788827852668
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    Rossa la sera dell'avvenire - Roberto Robert

    Scalisi

    INTRODUZIONE

    Questo Paese non si salverà,

    la grande stagione dei diritti risulterà effimera,

    se non nascerà in Italia un nuovo senso del dovere.

    Aldo Moro

    Un popolo che ignora il proprio passato

    non saprà mai nulla del proprio presente.

    Indro Montanelli

    Non avrebbero potuto essere più diversi tra di loro, Aldo Moro e Indro Montanelli.

    Pugliese il primo, toscano il secondo.

    Sinceramente cattolico e praticante l’uno; fieramente ateo senza però mostrar professione di laicismo l’altro.

    Riservato, lo sguardo sovente assorto e velato di malinconia lo statista democristiano; scoppiettante e ironico il grande giornalista.

    Animale politico per eccellenza Moro, dedito all’impegno nello Stato e nelle istituzioni, alla gestione della cosa pubblica nel suo significato più nobile e autentico; battitore libero Montanelli, insofferente alle regole, alle convenzioni, all’ipocrisia imperante.

    Ma dove la differenza si fa estrema, fino a toccare gli antipodi dell’infinita caratterizzazione umana, è nel loro modo di comunicare, in particolare di scrivere.

    Aldo Moro è involuto, criptico, centellina pensieri, arabesca discorsi infiniti dove anche le pause e le sfumature assumono significati particolari; tanto che il lavoro di esegesi di alcuni suoi passi è talmente improbo da rasentare l’impresa, a volte assume più importanza il non espresso che il manifestato. Rimane come esempio insuperato l’impareggiabile ossimoro delle convergenze parallele, coniato per identificare un processo politico di progressivo avvicinamento, pur nel mantenimento delle rispettive ideologie, tra democristiani e comunisti.

    Indro Montanelli, al contrario, da buon toscano sa assestare in pochissime righe salaci sferzate a chiunque. Per anni, sul Giornale nuovo da lui fondato e diretto, l’occhio dei lettori corre immediatamente in prima pagina a cercare il Controcorrente, un trafiletto dove il giornalista e scrittore mette sovente alla berlina i potenti, a qualunque partito appartengano, oppure ironizza sulle italiche usanze. Ma anche nel respiro narrativo più lungo, il romanzo come il saggio, Montanelli è di penna svelta e godibilissima e riesce sempre ad appassionare ogni suo lettore.

    Una cosa però accomuna i due, e non si tratta di circostanza di poco conto: entrambi finiscono, sia pure con esiti diversi, nel mirino dei terroristi delle Brigate Rosse.

    Il 2 giugno del 1977 Indro Montanelli, seduto su una panchina dei giardini di Porta Venezia a Milano, viene colpito alle gambe da una scarica di proiettili. Ricoverato, operato d’urgenza, qualche anno dopo stringerà la mano a uno dei suoi aggressori.

    A distanza di pochi mesi dall’agguato a Montanelli, il 16 marzo del 1978 avviene la strage di via Fani a Roma: i brigatisti trucidano i cinque uomini della scorta e rapiscono Aldo Moro. Cinquantaquattro giorni dopo, il 9 di maggio, al termine d’una infruttuosa e mai del tutto esplicitata trattativa tra Stato e Brigate Rosse, il suo corpo esanime viene ritrovato all’interno del bagagliaio di un’auto.

    Montanelli e Moro sono due tra gl’innumerevoli Italiani che pagano un pesante tributo di sangue al folle disegno brigatista, la pretesa di spazzar via tutti coloro che si oppongono alla rivoluzione che avrebbe instaurato la cosiddetta ‘dittatura del proletariato’.

    * * * * *

    Gli anni Settanta non sono facili per l’Italia. Il 68 ha rivoluzionato il mondo mettendo in moto un meccanismo che si propaga rapidamente su entrambe le sponde dell’Atlantico; le imponenti manifestazioni del maggio francese porteranno ad analoghe seppur minori iniziative anche in Italia, dove esplode la protesta nelle Università, nelle fabbriche, nei quartieri popolari, e dove nuove parole d’ordine vengono lanciate e gridate per le strade.

    Il nascente terrorismo politico, che sgomenta profondamente il nostro Paese, è per gli Italiani un fenomeno del tutto inatteso. Il decennio si apre con l’attentato di piazza Fontana a Milano, avvenuto presso la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura il 12 dicembre del 1969, e si chiude, ma soltanto sul piano simbolico, con il più sanguinoso episodio della storia repubblicana, la bomba alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980.

    Diverse sono state le matrici della violenza terroristica: anarchica, di destra e di sinistra; diverse sono state le modalità con le quali questa si è manifestata. Tipica del terrorismo nero e di quello anarchico è la figura del cosiddetto bombarolo, colui che colloca vigliaccamente un ordigno in un luogo ove sia possibile causare il maggior numero di vittime allo scopo di creare terrore e angoscia nei cittadini. Gli anni Settanta sono stati squassati da un gran numero di queste stragi, citare solo le più cruente non vuole essere offensivo nei confronti di tutte le altre: la già menzionata bomba di piazza Fontana a Milano che causa 17 morti e 88 feriti, attribuita sia agli anarchici che ai neofascisti; la bomba dell’anarchico Bertoli di fronte alla Questura di Milano, con altri 4 morti e 52 feriti; la bomba neofascista di piazza della Loggia a Brescia nel 1974, che provoca 8 morti e 94 feriti; l’attentato neofascista al treno Italicus, avvenuto anch’esso nel 1974, 12 morti e 44 feriti; infine la strage alla stazione di Bologna del 1980, anche quest’ultima da addebitarsi alla vasta area dell’eversione nera, che da sola causa il doppio delle vittime rispetto a tutte le altre assieme: 84 morti e oltre 200 feriti.

    Il terrorismo di sinistra, rappresentato principalmente dalle Brigate Rosse, preferisce invece individuare bersagli precisi e simbolici come il poliziotto, il magistrato, il giornalista, il docente universitario, affinché queste morti fungano da monito per tutti, e le sue azioni si sono dispiegate in un arco di tempo che va dai primi anni 70 alla fine degli anni 80. Quanto più il mondo istituzionale, del lavoro, delle parti sociali, delle professioni, ha mostrato di voler respingere il folle disegno estremista, tanto più gli eversori hanno alzato il tiro colpendo con estrema crudeltà chiunque abbia tentato di opporsi a loro. Sul selciato sono rimasti, tra gli altri, i corpi di Francesco Coco, procuratore della Repubblica; di Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino; dei giornalisti Carlo Casalegno e Walter Tobagi; del magistrato Riccardo Palma; del sindacalista Guido Rossa; del colonnello dei carabinieri Antonio Varisco; del professor Vittorio Bachelet; degli economisti Ezio Tarantelli e Roberto Ruffilli; di innumerevoli appartenenti alle forze dell’ordine. Nel quindicennio che intercorre tra la metà degli anni 70 e la fine degli 80 le sole BR hanno rivendicato 86 omicidi; decine sono stati compiuti da altre organizzazioni di estrema sinistra; diverse centinaia il computo complessivo del terrorismo di ogni colore.

    Non appaia cinica o meramente cronachistica, al lettore più sensibile, l’elencazione delle vittime. Dietro a ogni nome vi sono famiglie, affetti, relazioni sociali, passioni civili; accanto ad ogni bara sono sfilati parenti, amici, rappresentanti delle istituzioni; sempre si sono udite levarsi le consuete parole: ricordo affettuoso per chi è mancato a causa del proprio impegno, solenne promessa di interrompere la catena di lutti e dolore.

    Non sempre purtroppo questo è stato possibile, in parte per le oggettive difficoltà di contrastare organizzazioni illegali dotate di innumerevoli risorse, in parte per l’esistenza di zone grigie se non di vere e proprie connivenze all’interno della società nel suo complesso e, forse, anche tra alcuni settori delle istituzioni.

    Le Brigate Rosse rimangono però nella memoria del Paese soprattutto per essersi rese responsabili del rapimento e della successiva uccisione di Aldo Moro nella primavera del 1978, quando oltre allo statista persero la vita i cinque appartenenti alla sua scorta, tutti uomini delle forze dell’ordine. Fu quest’ultimo, tra tutti, l’omicidio politico per eccellenza, finalizzato a impedire la costituzione del Governo di unità nazionale tra democristiani e comunisti, guidato da Andreotti, che avrebbe definitivamente cooptato il Pci al potere realizzando entrambi i disegni dei rispettivi leader politici, Moro e Berlinguer.

    L’impressione, in Italia e nel mondo, fu enorme, quello che però apparve l’apice della furia brigatista divenne contemporaneamente la causa della riscossa morale e civile del Paese. La rete delle organizzazioni clandestine venne quasi completamente smantellata; molti tra i loro militanti presi, processati e incarcerati; lo Stato, i partiti, i sindacati, le istituzioni, riuscirono ad avere ragione e finalmente spegnere quel fuoco che, altrimenti, sarebbe ancor più divampato nelle fabbriche, nelle scuole, in ogni piega della società.

    In anni recenti gli atti di matrice terroristica sono ripresi, un gruppo clandestino si è autodefinito ‘Nuove Brigate Rosse’ ed è stato responsabile dell’omicidio di due tra i maggiori giuslavoristi italiani, Massimo D’Antona e Marco Biagi; gli stessi componenti di questa organizzazione hanno ripetutamente minacciato di morte un terzo professore e parlamentare, Pietro Ichino.

    Non stupisce, al cittadino più attento, questo accanirsi dei terroristi contro singoli rappresentanti della società civile e significativamente contro chi si occupa delle riforme della disciplina dei contratti di lavoro.

    * * * * *

    Questo libro non intende essere un romanzo storico nell’accezione propria del termine. Il motivo è evidente, i pochi lustri trascorsi confinano gli anni 70 in una sorta di limbo: non più cronaca, perché le notizie oggi si bruciano ormai nel brevissimo volgere di una stessa giornata, e non ancora storia, in quanto molti dei protagonisti sono attualmente presenti sulla scena e troppi dolori non ancora sopiti, né forse potranno mai esserlo.

    La volontà dell’autore non è nemmeno quella di scrivere un saggio su quegli avvenimenti, già molti vi si sono cimentati e tra questi diversi tra coloro che a suo tempo hanno impugnato le armi. La pubblicazione delle memorie degli ex terroristi, lungi dall’aver contribuito a una miglior conoscenza dei fatti, ha in realtà spesso scatenato le giuste proteste e rimostranze dei familiari che tuttora piangono i propri morti.

    Quest’opera è semplicemente una narrazione ambientata in un tempo definito, l’estate del 1970, nella quale vengono a mescolarsi eventi, luoghi e personaggi reali assieme ad altri elementi invece immaginari.

    Lo scopo dell’autore è chiaro.

    I lettori più smaliziati possono, in una ipotetica sfida con sé stessi nell’attingere direttamente ai propri ricordi o alle proprie conoscenze, distinguere quello che è vero da ciò che è frutto di fantasia. I rimandi all’interno del libro non mancano, chi ha vissuto quegli anni riconoscerà persone, situazioni, fatti ben precisi; per alcuni vi sono solo accenni sfumati, per altri invece il richiamo è più esplicito.

    Gli altri, quelli che ancora non c’erano o che a quel tempo non si sono interessati troppo alle vicende dei cosiddetti anni di piombo, possono trarre spunto da questa lettura per decidere di dedicare parte del proprio tempo a eventuali approfondimenti che riguardino quel particolare momento storico.

    La realtà italiana del 1970 è stata oggetto di ricerche accurate, sia attingendo informazioni dalla stampa dell’epoca sia approfondendo singoli argomenti con l’ausilio di vari testi di narrativa e saggistica.

    A tutto questo vanno aggiunti i ricordi personali e le sensazioni dell’autore: la protagonista del romanzo infatti, attraverso i cui occhi il lettore vive diversi tra gli avvenimenti narrati, non casualmente è sua coetanea.

    Non si devono lasciar cadere le parole di Aldo Moro, di Indro Montanelli, di tutti coloro che hanno levato il loro civilissimo grido umano e politico contro la violenza e la sopraffazione.

    Occorre far uscire dalla vaghezza, dalla non conoscenza, dal limbo dell’indeterminato e del non noto, di non essere cioè né cronaca né storia, tutto quello che è accaduto.

    Conoscere e comprendere sono dunque i primi passi di un lungo percorso verso una ritrovata dignità, verso una nuova stagione di diritti e doveri, verso un sapere più orgoglioso e pieno.

    R. R.

    PRENDI UN ALTRO PICCOLO PEZZO DEL MIO CUORE, BABY

    I

    Ma come t’han conciata? Sembri appena saltata fuori dal paese dei Bagonghi.

    Lo sguardo di Camilla si soffermò, scrutandola più volte, sulla figura di Mafalda in piedi di fronte a lei. Orripilata, l’espressione più adatta per descrivere sua cugina era proprio quella.

    Mafalda abbassò la testa lentamente e si osservò tutta.

    Braghe leggere di tela, tinta indefinita tra il vinaccia e il ciliegio sbiadito.

    Maglietta sbracciata a righine verticali gialle e verdi che accentuavano la sua magrezza.

    Sandali in cuoio, le punte delle cinghie svettavano arricciandosi verso l’esterno. Almeno, nonostante le insistenze di sua madre, si era rifiutata di mettere i calzini.

    Cosa c’è che non va? domandò. Non le era mai accaduto di sentirsi così a disagio con Camilla.

    Lascia stare, scema, sbuffò l’altra, in fondo non è colpa tua. Certo che la zia ha un gusto...

    Mafalda era partita verso le otto di quella mattina, in equilibrio instabile sul sellino posteriore del Galletto color sabbia di nonno Giacomo. Erano scesi da Castello fino ad Albino, poi il nonno l’aveva fatta salire sulla corriera per Bergamo dove, nei pressi della stazione dei pullman, sarebbe venuta a prenderla la zia Carla per accompagnarla fino a casa, un piccolo condominio nella zona delle Poste. Si trattava di una delle vie più esclusive del centro città, a ridosso delle Mura, zona di famiglie benestanti.

    Zio Giovanni, il fratello della mamma di Mafalda, i soldi se li era trovati belli e fatti una ventina d’anni prima quando aveva conosciuto la Carla, l’unica figlia del cavalier Ettore Epis che era il più importante costruttore edile della provincia. Un ottimo partito corteggiato da almeno metà dei giovanotti della Bergamo che contava; così lo zio, come soleva dirsi allora, aveva attaccato per bene il cappello in casa Epis divenendo il braccio destro del futuro suocero e aiutandolo nei cantieri sparsi per tutta la Lombardia.

    Il giorno delle nozze qualcuno tra i numerosi presenti aveva però storto il naso. Un semplice geometra, figuriamoci. Nemmeno un ingegnere, o almeno un architetto. Un geometra di paese, una specie di zoticone interessato esclusivamente alla ditta del vecchio Epis.

    A dispetto dei maldicenti, il matrimonio si era invece rivelato solido; poi la nascita di Camilla aveva ancor più rafforzato l’affetto che legava gli zii, oltre che trasformare il burbero cavalier Ettore in un nonno dolcissimo che stravedeva per la nipote.

    Zia Carla aveva scorto Mafalda scendere dagli scalini della corriera e le era andata incontro sorridendo.

    Ciao, cucciola. Tutto bene? le aveva domandato abbracciandola stretta.

    Ciao, zia. Sì, la mamma ha detto di salutarti tanto e di ringraziarti.

    Andiamo, la macchina è là in fondo.

    Le aveva tolto dalle spalle la sacca con il ricambio e il necessario per la notte, poi si erano avviate svelte fino a raggiungere una Mini color verdone.

    Sali, forza.

    Dimenticavo, la mamma mi ha detto di salutare anche lo zio.

    Non ti preoccupare, oggi lo vedi a pranzo quando torna dal lavoro.

    Carla Epis aveva guidato rapida lungo il viale alberato che saliva verso Città Alta svoltando poi un paio di volte in strade laterali, raggiunto il cancello che portava ai garage aveva infine posteggiato l’auto.

    Vedrai Camilla come sarà contenta di vederti. aveva detto a Mafalda.

    Non pareva proprio.

    Forza, scema, vieni di là, vedo se riesco a raccattare qualcosa da metterti, esclamò Camilla scuotendo la testa, non penserai che mi faccia vedere dai miei amici con una tirata assieme a sto modo.

    Mafalda la seguì docilmente, entrarono in una stanzetta che fungeva da ripostiglio quasi completamente occupata da armadi alti fino al soffitto.

    Qui c’è tutta la roba smessa. Dovrebbero esserci dei miei vecchi vestiti, magari trovo qualcosa che ti va bene.

    Frugò, buttò all’aria un paio di ripiani, ne trasse un fagotto di abiti, li esaminò uno per uno.

    Su, prova questi, Camilla le allungò un paio di jeans e una Lacoste azzurra, li ho portati fino a due anni fa. Se anche ti sono un po’ larghi in qualche modo li aggiustiamo.

    Mafalda si tolse i panni restando solo con le mutandine.

    Madonna come sei magra, commentò Camilla, sembri uno di quei negretti dell’Africa che si vedono in televisione. Ma ti danno da mangiare a casa?

    Si rivestì in fretta, ancora più imbarazzata di prima. Ritornarono in camera.

    Fatti vedere, dai. Camilla la prese per un braccio, la rigirò un paio di volte davanti allo specchio interno del suo armadio. Va be’, potrebbe anche andare, disse alla fine pur non del tutto convinta, se non altro perché di meglio comunque non c’è. Lasciala fuori la maglietta, che adesso ti cerco una cintura per tener su i jeans. E dagli un giro sul fondo a quei pantaloni, arrotolali un po’, scema, altrimenti ci inciampi dentro.

    Le recuperò anche un paio di scarpe, Mafalda portava il trentaquattro e Camilla scovò le Superga bianche che aveva usato alle medie nelle ore di ginnastica.

    Allora, che te ne pare? le chiese alla fine contemplando l’opera. Non che da brutto anatroccolo fosse diventata un cigno, ma almeno appariva accettabile.

    Mafalda rimase ritta davanti allo specchio, si rigirò più volte sui fianchi.

    Erano solo i vestiti raccattati di sua cugina, ma le sembrò di essere bellissima.

    Grazie, fu l’unica parola che riuscì a mormorare.

    E questa da dove salta fuori?

    E’ mia cugina, rispose Camilla con l’aria decisamente annoiata, te l’ho detto che veniva a trovarmi.

    Il ragazzo squadrò Mafalda con una faccia tra il sorpreso e il divertito. Era un tipo alto e secco seduto su di una Lambretta, i capelli lunghi fin oltre le spalle e una barbetta incolta che gli incorniciava i lineamenti del volto. Di sicuro era più vecchio di Camilla, dimostrava almeno una ventina d’anni anche se in realtà ne aveva diciotto, a ottobre sarebbe andato in quinta Scientifico.

    Ma è una bambina, obiettò. Quanti anni ha?

    Undici, ti avevo detto anche questo.

    Undici e mezzo, precisò Mafalda.

    La ragazzina restò in balia del suo sguardo per un tempo che le parve infinito, poi lui si presentò. Ciao, Nicola Gritti. Ma tu chiamami Nico.

    Ciao, Nico, io sono Mafalda.

    Mafalda e basta, era già abbastanza strano così e ci mancava appena un soprannome per metterla ancor più in difficoltà.

    Erano da poco uscite di casa, la mattinata era scivolata via mollemente senza che avessero combinato alcunché di interessante. Zia Carla aveva iniziato a organizzare i bagagli per Santa Margherita Ligure, sarebbero partiti venerdì pomeriggio per arrivare entro l’ora di cena. Agnese, la domestica, terminato di rassettare le camere si stava predisponendo a preparare il pranzo, e quindi le due cugine s’erano trascinate per le stanze senza un obiettivo preciso. Mafalda però friggeva, poteva rimanere in città per meno di due giorni e le sembrava assurdo starsene a sprecare tutto quel tempo. Certo per Camilla era diverso, lei a Bergamo ci viveva e non sentiva il bisogno di andarsene fuori a tutti i costi; ma per Mafalda no, ogni istante era prezioso e non poteva essere sciupato. Solo verso un quarto a mezzogiorno Camilla si decise: dai che andiamo, scema, le aveva detto infilando il portoncino che dava sul pianerottolo. Agnese si era raccomandata di rientrare non oltre l’una, ma Camilla era già fuori con Mafalda che la tallonava manco fosse stata un cagnolino.

    Finalmente a vedere un po’ di mondo, anche se fino a quel momento non avevano fatto altro che starsene sedute su di una panchina in pietra posta all'ombra degli ippocastani del Sentierone.

    Suonò mezzogiorno e uno alla volta arrivarono gli altri del gruppo. Due, i fratelli Suardi, giunsero su di un Vespone, Filippo compagno di Nico e Giovanni di sedici anni in classe con Camilla; poi Francesco Carminati che frequentava il Classico in Città Alta ma era tollerato nel gruppo perché era stato alle medie con Filippo e Nico, proprietario di una Zundapp 100 argentea modificata in tutto, carburatore, testa e scarico; infine un quinto ragazzo su di un Caballero rosso fuoco che si presentò come Ceresoli.

    Ma senza la Zucchi la compagnia non poteva dirsi completa.

    Simona Zucchinali detta la Zucchi, la migliore amica di Camilla fin dalle elementari nonché sua esclusiva confidente per gli affari amorosi, rappresentava il sogno proibito della maggioranza dei ragazzi dello Scientifico.

    Alle feste della Zucchi si poteva fare di tutto, ubriacarsi, cantare a squarciagola, scopare, tirare gavettoni di piscia, ingozzarsi d’ogni ben di dio, tanto durante quelle feste i suoi non c’erano e nessuno sarebbe venuto a controllare.

    Gli aperitivi con la Zucchi si trasformavano in piccoli show improvvisati al momento: una volta fingeva di vomitare sul pavimento del bar, un’altra si muoveva all’interno del locale come fosse una handicappata, un’altra ancora inscenava falsi alterchi con il primo amico che si prestasse occasionalmente allo scopo, tanto suo padre era uno dei penalisti più influenti della città e di gente che osasse protestare ce n’era ben poca.

    I morosi della Zucchi erano considerati i ragazzi più fortunati che ci fossero al mondo: per almeno un paio di mesi era garantita loro una esorbitante dose di sesso forsennato, tanto lo sapevano che la pacchia non sarebbe durata a lungo e conveniva approfittarne finché ce n’era.

    La Zucchi finalmente si materializzò di lì a pochi minuti giungendo a piedi con fare indolente, Mafalda la sbirciò di sottecchi cercando di non farsi scorgere né da lei né, soprattutto, da Camilla.

    Capelli castano rossicci, una cascata vaporosa di boccoli. Solo un accenno di trucco, era già bellissima di suo. Occhioni da bambola, li spalancava sbattendo le palpebre a dovere mentre fissava l’interlocutore. Labbra carnose, le increspava sinuose mentre pronunciava le a, le o e soprattutto le u. Camicetta mezza sbottonata sulla pelle nuda e con i lembi annodati giusto sopra l’ombelico, era più quello che lasciava volutamente adocchiare di ciò che rimaneva coperto. Jeans stretti in vita e scampanati sotto il ginocchio. Scarpe leggermente affusolate e con poco tacco.

    Mafalda ne restò affascinata. Le pareva di aver incontrato un’attrice, una diva; ma non una qualsiasi, bensì una di quelle famose, come si vedevano nei film americani. E Camilla, che fino a quel momento le era sembrata la ragazza più carina del mondo, di fronte all’amica appariva poco più che una bambinetta qualunque.

    Tu sei la cugina di Camilla, quella con il nome strano, la apostrofò subito lei. Io sono Simona, ciao. Sono la Zucchi, aggiunse sorniona.

    Ciao, io sono Mafalda.

    Simona o Zucchi, come era più opportuno chiamarla? Nel primo modo certo no, aveva intuito che nessuno usava il suo vero nome e sarebbe parsa ridicola. Però Zucchi le pareva fin troppo azzardato, in fondo l’aveva appena conosciuta e non era abbastanza in confidenza. Decise di prendersi un po’ di tempo.

    Chi s’è fottuto le mie cinquemila lire? urlò all’improvviso Simona Zucchinali facendo girare le teste di tutti i presenti all’interno del bar Balzer, uno dei più eleganti del centro.

    I ragazzi erano entrati da pochi minuti e nel locale, data l’ora, iniziavano a essere serviti i primi aperitivi. Qualche professionista uscito anzitempo dallo studio, i soliti perdigiorno assiepati al bancone, un paio di impiegati filati via di soppiatto dai vicini Uffici Statali, il vociare della piccola compagnia di studenti risuonava allegra in mezzo a quella clientela altrimenti più discreta.

    Cazzo, avevo cinquemila lire qui in tasca, continuò. Dai, stronzi, chi se le è fregate?

    Gli avventori abituali ripresero a sorseggiare gli aperitivi, la Zucchi l’avevano già vista all’opera in altre occasioni; solo i camerieri, oramai rassegnati al peggio, alzarono gli occhi con un sospiro.

    Forza, chi è stato?

    I maschi risero sguaiati, poi il maggiore dei Suardi la provocò: Non te lo diciamo, se vuoi saperlo ci devi perquisire tutti uno per uno.

    Cominciamo subito, rispose lei sfrontata. Spinse Filippo all’indietro, lo schiacciò contro il bancone e lui, benché più robusto, si lasciò sopraffare lanciandole nel contempo uno sguardo ironico. Lei iniziò a ficcargli le mani dappertutto, sotto la maglietta, lungo i fianchi, attorno alle natiche; poi le fece scivolare nelle tasche davanti dei jeans indugiando nei dintorni della zip. Filippo sghignazzava fingendo di difendersi, in realtà la cosa lo stava solleticando parecchio; ma gli altri intervennero quasi subito, la faccenda della perquisizione era troppo ghiotta e sapevano che il gioco non sarebbe proseguito all’infinito. Così ciascuno ricevette la sua dose di attenzioni e di toccatine ben assestate anche se la banconota, com’era da aspettarsi, non saltò fuori.

    La ragazza di colpo sgranò gli occhi voltandosi verso Mafalda che era rimasta immobile a fissare la scena appena conclusasi.

    Allora sei stata tu. Dai, fammi vedere. Si avvicinò alla bambina, le alzò la maglietta di scatto mettendo in mostra il suo corpicino ossuto. Mafalda, colta di sorpresa, restò bloccata per qualche istante; poi, colma di vergogna, iniziò a protestare in modo imbarazzato: Lasciami... no, cosa fai... io non ho fatto niente...

    Comparvero all’improvviso, tra le mani di Simona che scorrevano furiose sull’addome della ragazzina, le famose cinquemila lire. Ecco dov’erano! Le avevi tu, stronzetta che non sei altro!

    A Mafalda venne da piangere; però voltandosi verso Camilla in una disperata ricerca di aiuto si accorse che sua cugina la stava guardando divertita e così facevano anche gli altri. Scoppiò in lacrime, si tirò giù la maglietta completamente a disagio tra tutte quelle facce che la schernivano, e tra i singhiozzi riuscì soltanto a mormorare: Non ho fatto niente... non sono stata io...

    La Zucchi intanto si era recata alla cassa, aveva allungato le cinquemila lire per pagare mentre i ragazzi si avviavano all’uscita. Solo al momento di prendere le moto si accorsero che Mafalda non c’era.

    Dov’è quella scema? domandò Camilla.

    È rimasta dentro, rispose Simona, se vuoi vado io.

    Lascia stare. Camilla tornò indietro, rientrò, la scorse seduta a un tavolino che si asciugava gli occhi e tirava su con il naso.

    Dai, scema, non hai capito? Era uno scherzo.

    Andarono fuori, Camilla davanti e Mafalda dietro a testa bassa.

    Non ti sarai mica offesa, le chiese la Zucchi, guarda che scherzavo.

    La bambina restò silenziosa.

    Guardami, Mafalda. Guarda.

    Simona si tolse da tasca una banconota da mille lire, la ripiegò in una mano; poi le poggiò le palme sulle guance ancora arrossate dal pianto accarezzandola appena; infine gliele fece sfilare lungo il corpo sfregandole in ultimo sul dietro dei pantaloni. Mafalda rabbrividì al contatto, le bruciava ancora l’umiliazione di poco prima, ma fu costretta a sollevare il volto.

    Guarda.

    La Zucchi allungò una mano, le toccò una tasca posteriore dei jeans, ci infilò solamente il pollice e l’indice ed estrasse le mille lire.

    Hai capito? Era solo uno scherzo.

    Mafalda abbozzò un sorriso.

    Va bene, non fa niente, le rispose.

    Dai, scema, che andiamo a casa, le disse Camilla.

    II

    Durante il pranzo l’attenzione di zio Giovanni fu attratta, più che dalla presenza della nipote, dalle notizie del Giornale Radio. Il Governo Rumor s’era appena dimesso e lo sciopero generale indetto per la giornata seguente era stato revocato; ora sarebbero iniziate le rituali liturgie tipiche di ogni crisi, mentre i partiti avrebbero iniziato la consueta pratica di accusarsi l’un l’altro in merito alle rispettive responsabilità.

    Zio Giovanni comunque un’idea a riguardo se l’era fatta, e ben precisa: la colpa era da ascriversi esclusivamente ai socialisti, che a Roma volevano starsene al governo con la DC mandando il PCI all’opposizione, mentre nelle Giunte regionali intendevano allearsi con i comunisti scaricando i democristiani.

    I socialisti sono la rovina dell’Italia, sentenziò con la bocca mezza piena del riso freddo appena servito in tavola da Agnese, e anche i sindacati. Pensano solo a scioperare, quelli, come se non si dovesse invece avere in testa di lavorare, altro che storie.

    Ulteriori giudizi, mentre in tavola giungeva il roastbeef, vennero peraltro rivolti anche alla DC e ai suoi capi, ritenuti dallo zio troppo morbidi nei confronti dei socialisti. Che bisogno c’è di corrergli dietro così tanto? sbottò. Che si fottano, Nenni e i suoi compagni. Se vogliono andare assieme ai comunisti che ci vadano, così si levano una volta per sempre dalle balle.

    Fu solamente un’occhiata severa della moglie, che accennò con la testa alla presenza di Mafalda, a fargli interrompere le sue salaci considerazioni; così la conversazione, proprio ciò che temeva la bambina, scivolò subito su come fosse trascorsa la mattinata delle due ragazze.

    Chissà cosa avrebbe raccontato adesso Camilla, come l’avrebbe presa in giro; invece della disavventura con la Zucchi non si parlò. Forse per sua cugina quegli scherzi erano talmente abituali che non valeva nemmeno la pena di riferirli in casa, ma per lei si era invece trattato di un’esperienza dolorosa. Camilla restò sul vago: siamo state sul Sentierone, abbiamo preso un aperitivo con i soliti amici, e mentre parlava Mafalda evitò di guardarla quasi volesse nascondersi. L’arrivo in tavola della macedonia troncò ogni discussione.

    L’ansia di Mafalda riprese però improvvisa quando intuì, da una telefonata ricevuta da Camilla verso le quattro del pomeriggio, che avrebbe dovuto rivedere la Zucchi e tutti gli altri in occasione di una specie di festa che si sarebbe tenuta quella stessa sera. Tentare di scantonare non era possibile, avrebbe fatto la figura di una bimbetta lagnosa e già s’immaginava i commenti di quei ragazzi di fronte alla sua improvvisa diserzione; ma nemmeno le andava di doversi ripresentare del tutto inerme, certo sarebbe stata nuovamente bersaglio di qualche ulteriore beffa della Zucchi. Di parlarne con Camilla non era il caso; decise infine, dopo mille tentennamenti, che sarebbe sì andata, ma rimanendo decisamente sulle sue. Erano ragazzi più grandi ma questo non li autorizzava a trattarla in quel modo, così bastava starsene zitta e farsi i fatti propri, magari si sarebbero presto stancati di prendersela con lei.

    Intorno alle sette Camilla la chiamò in bagno. Vieni, scema, non puoi uscire così. Più tardi andiamo a una festa.

    Aveva tirato fuori dalla specchiera tutti i suoi trucchi, li aveva allineati per bene facendo poi sedere la bambina sul bordo della vasca. Una passata di fondotinta, una pennellata di fard, ombretto e mascara sugli occhi, rossetto, a Mafalda non venne risparmiato nulla. Infine, Camilla prese una boccetta color carminio e la aprì: Dai, togliti le scarpe, esclamò, che ti pitturo le unghie dei piedi, così mentre asciugano ti faccio anche le mani.

    L’operazione completa prese ancora alcuni minuti; al termine la cugina, affinché il risultato potesse ammirarsi in tutto il suo splendore, rimediò a Mafalda un paio di suoi vecchi sandali dorati con un accenno di tacco.

    Guardati.

    Mafalda si alzò traballando un poco, si avvicinò allo specchio, si contemplò: non sembrava davvero più lei. Non fosse stato per quei capelli, tanto aggrovigliati da apparire un cespuglio… Restò silenziosa, non le pareva proprio il momento di lamentarsi, ma Camilla aveva già capito. Afferrò una bomboletta, le sparò in testa uno sbuffo

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