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La bella putta
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La bella putta

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About this ebook

Ciò che accadrà quando aprirete questo libro sarà imprevedibile. Vi ritroverete ad osservare con pietà un uccellino implume cadere dal nido, contemplando quanto la natura riesca ad essere soave e spietata ad un tempo. Il punto è che questo piccolo preambolo vi distrarrà dal viaggio nel tempo. Al vostro rialzare lo sguardo, tutto sarà normale, intorno a voi. Anche la carrozza che giungerà di lì a poco, anche i suoi occupanti, anche il loro modo di parlare ed i rispettivi ruoli sociali. Tutto sarà perfettamente coerente. In altre parole, vi ritroverete nel passato senza rendervi conto di come ci siete arrivati. Ma tant’è. Giacché vi trovate lì, fareste meglio a trovarvi qualcosa da fare. L’autore, Daniele Begato, vi aiuterà in questo. I suoi personaggi e tutto ciò che li circonda sono estremamente vivi, palpitanti, autentici ed appassionanti, dando vita ad un intreccio splendidamente orchestrato. E non è un caso che si sia scelta una parola che, in qualche modo, ha a che vedere con l’arte dello spettacolo. Il romanzo stesso è concepito come una commedia di goldoniana memoria, suddiviso in tre atti, con tanto di elenco dei personaggi. Mancherebbero gli interpreti, ma non è cortese privare qualcuno di un piacere. Rompete la quarta parete e... pensateci voi!

Daniele Begato è nato a Meda, in provincia di Milano, nel 1975. Ora vive a Monza con la famiglia. Insegna da undici anni religione cattolica nella scuola dei salesiani di Don Bosco a Sesto San Giovanni ai ragazzi del triennio tecnico. Ha conseguito il baccalaureato in Filosofia presso la Pontificia Università “Angelicum” di Roma, la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano e la laurea in Scienze Religiose presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose (ISSR) di Milano. 
 
LanguageItaliano
Release dateOct 13, 2018
ISBN9788893847834
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    La bella putta - Daniele Begato

    figlia

    Personaggi principali

    il conte di ***

    la contessa sua moglie

    lisa figlia del Conte e della Contessa

    oberto maggiordomo del Conte

    mastro filippo cocchiere e stalliere

    elsa figlia di Mastro Filippo

    adelchi d’arbes precettore di Lisa

    frate pascasio cappuccino

    ugo tagliaboschi Commissario di Polizia

    donna catte cuoca

    un giudice

    una lucherina

    ATTO PRIMO

    1

    Sul ramo di un tiglio morto affacciato appena sotto il ciglio di una polverosa strada che immetteva in un bosco fitto di altri alberi, una coppia di lucherini aveva portato la vita rinchiusa sotto il fragile guscio di piccole uova deposte una a distanza di un sol giorno dall’altra. Il soffice corpo materno le aveva scaldate per poco più di una dozzina di giorni mentre il maschio, complice, correva dietro alle mosche e tornava verso il nido e si sporgeva pettoruto da esso come pronto a dar battaglia. La natura li proteggeva sorridendo probabilmente di loro e delle loro buffe abitudini.

    Ignara probabilmente, se non per istinto, di ciò che le accadeva sotto il ventre e dentro i gusci, un giorno, la madre, sentì qualcosa muoversi sotto di lei e capì subito. Drizzò le zampe e chinò il capo tra esse fin quasi a rompersi il collo, quindi tutta contenta tornò ad adagiarsi sul suo primo pulcino. Ogni giorno il miracolo si ripeteva sotto gli occhi lucidi di quei due genitori che forse avrebbero potuto avere un solo anno di vita e già sapevano fare il loro dovere. Si schiusero così cinque uova che nascondevano altrettanti lucherini: tutti neri, tutti brutti. Dei piccoli corpi implumi si vedeva solo il becco aperto, quasi volessero mangiarsi la madre. Il capino, piccolo quanto una capocchia di spillo, sembrava pesare quanto un mulo a giudicare da quei poveri colli lunghi e stretti che sbattevano di qua e di là come i colli degli ubriachi. Dei piumini spettinati comparivano di giorno in giorno ad adornare quel tenero quadretto mentre il guano imbrattava le pareti del nido sempre più stretto. I genitori, invece, si rincorrevano e si affannavano per riempire quei gozzi gialli e gonfi come zampogne sonanti che non smettevano mai di avere fame. Quando quella dimora legnosa si fece troppo piccola (sia pure per il guano o per l’esplosione dei corpi e delle penne) per ospitare quella famiglia, il primo nato spiccò il volo. Non sarebbe più tornato al nido, ma la madre e il padre lo avrebbero nutrito come un figlio. I fratelli dal nido non stavano più nella pelle e volevano buttarsi anche loro mentre lo incitavano dalla vetta invidiosi. Quanta nuova vita da un tiglio morto! Il giorno successivo altri tre lucherini presero il volo assetati di libertà e tremanti di paura. L’ultima nata – una femmina – li guardava come da una prigione posta su di una torre e pigolava che sembrava piuttosto un pianto di un neonato. Ma si sa che a un lucherino di dieci giorni non si può chiedere di essere saggio e, appena la mamma fece il segno di seguire i fratelli, si buttò giù dal nido che non aveva ancora tutte le penne. La codina corta – come in tutti i pulcini – le impedì di prendere la via che gli occhi le avevano segnata e le forze le vennero meno proprio quando il sogno della libertà sembrava ormai raggiunto. Picchiò a terra un colpo violentissimo e dopo un attimo si mise a pigolare. L’ala destra era spezzata. La madre si avvicinò come per studiare la situazione e poi la abbandonò per dedicarsi agli altri fratelli. Tanto appariva premurosa con quelli e tanto fu crudele con la più piccola. In un momento la povera lucherina comprese quanto fosse dura la vita e, fissando le rughe del tiglio morto, attendeva che venisse qualche cosa di brutto a prendersela per sempre. In fondo questo era il destino di molti lucherini appena nati ed era già fortunata che una gelata o qualche uccellaccio non l’avesse portata via la notte stessa della schiusa. Provava a sbattere l’altra ala per vedere se poteva spiccare un volo anche così ma, oltre al dolore e al senso di impotenza, non riuscì a sperimentare altro. Girava su se stessa come una trottola fino a che non si trovò a contatto con la corteccia del tiglio morto e iniziò anch’essa a perdere vita. I fratelli e i genitori ormai non si curavano più di lei e anzi saltellavano felici in preda a un’euforia ingiustificata. La natura, generosa, ha dotato la femmina di molti uccelli di colori più sobri per potersi mimetizzare meglio presso i predatori durante la cova. La lucherina, adagiata a terra in quel modo, poteva così apparire come una foglia secca anche davanti agli occhi di un gatto o di un gufo. E, mentre stava lì immersa in questi pensieri ad attendere la fine di tutto, udì con i suoi orecchi invisibili un rumore tremendo. Non si mise neppure a pensare cosa potesse essere, non avendo cognizione di altre realtà fuori delle quattro cose conosciute nel nido, ma ebbe egualmente paura e il suo piccolo cuore iniziò a battere tanto forte da farle tremare tutto il corpo.

    2

    Il cavallo procedeva al trotto tirandosi dietro il cocchiere e il suo padrone assorti in pensieri affatto nuovi. Il cocchiere teneva gli occhi sulle redini come se temesse che si spezzassero da un momento all’altro. Il suo padrone, vestito tutto di nero, con una pipa in bocca sorrideva beato torturando con la mano destra uno dei bottoni della sua giacca. Quindi abbandonato il bottone, si mise a fischiettare un motivetto gaio. Pertanto il cocchiere si sentì in dovere di dire qualcosa: «Avete sentito, signore, del Papa?».

    «No, non so di papi. Non me ne curo di religione. Son Conte io» rispose con un tocco d’impertinenza nella voce.

    Dopo un miglio riempito di silenzi, però, si pentì di quella scortesia e volle dare credito al suo povero cocchiere: «Gran cosa un cocchiere istruito! Di grazia, Mastro Filippo, insegnatemi voi quel che si ha da conoscere al giorno d’oggi di religione».

    «Compatitemi, signor Conte, ma davvero non so nulla. Ho solo messo l’orecchio in una conversazione tra galantuomini mentre ero in città».

    «E che dicevano dunque questi galantuomini?».

    «Ragionavano attorno a qualche carta che il signor Papa avrebbe vergato. Una carta che mandava al diavolo la schiavitù e coloro che l’avevano in stima!».

    «Oh!» disse prorompendo in una grassa risata il Conte, «ecco dunque di cosa ci si occupa a Roma: di schiavitù. Davvero un gran papa questo Gregorio. Schiavitù. Verrà buono l’argomento contro gli austriaci».

    «Signor Conte, compatitemi, non urlate sì forte o ci manderanno in galera tutti e due!» disse in fretta Mastro Filippo.

    «Asino che siete! Paura quando si sta in compagnia di un Conte mio pari!».

    «Perdonatemi, signore, sono un povero pazzo!».

    «Ora sì che vi conosco! Dunque anche voi siete contro questa schiavitù? Professate anche voi che un signore e un cocchiere debbano sedersi sopra il medesimo mulo?».

    «Signor Conte, voi mi mortificate. Io certe cose non so dirle! Il mondo lo si deve lasciare come è stato fatto dal buon Dio. Vi sono i signori e vi sono coloro che non lo sono. E questo ha sempre, diciamo, aggiustato tutte le cose perché, quando il signore aveva fame, il servo gli faceva da mangiare e quando vi era un brigante, il signore difendeva il servo».

    «Sarà come dite voi, ma non son io se in capo a due giorni non avrò letto tutte le carte di questo signor Papa sulla schiavitù. Che possa nascere qualcosa di buono per la mia casa? Finalmente, gli austriaci ci tengono come bestie in una gabbia».

    Ei capisce tutto a modo suo. È davvero un animo stravagante. Se si parla di libertà per gli altri, non ci sente, se si parla dei fatti suoi, è tutto un orecchio. Ora si mette in testa di muover guerra all’imperatore per avere in cassa più danari. Ma li darebbe piuttosto al diavolo che al suo cocchiere. E, mentre Mastro Filippo ragionava nella sua mente queste cose, fu destato dalla voce del suo padrone che gridava: «Fermatevi!».

    «Signore?».

    «Ho visto qualcosa muoversi. Forse è un animale. Guardate lì!».

    «Dove?».

    «Per terra¹» disse il Conte gridando forte.

    «Sembra un uccellino caduto dal nido. Volete che provi ad afferrarlo?».

    «Sì, vorrei portare qualcosa a mia figlia».

    L’uccellino provò a ribellarsi, ma senza troppo vigore, e Mastro Filippo ebbe gioco facile nel catturarlo.

    «Signore, è un lucherino. Una femmina direi dal colore».

    «Un lucherino femmina andrà benissimo. Lo metteremo nella gabbia dove stava il merlo fino all’anno scorso».

    «Signore, ha un’ala spezzata, sarà meglio lasciarlo dov’è. Può ancora fare la felicità di qualche cornacchia o di qualche gatto».

    «O di qualche serpente».

    «O di qualche serpente, certo».

    «No, lo voglio mettere in una gabbia. Lo voglio salvare. Sempre che Papa Gregorio ce lo permetta, si capisce».

    Mastro Filippo teneva con una mano il lucherino, che tremava come un bambino nella bocca di un orso, mentre con l’altra le redini e così si diressero verso casa mentre il cavallo trasportava tutti e tre.

    1 Momolo Cortesan (Atto I, Scena I). Si tratta della prima battuta della prima commedia di Carlo Goldoni. Tutte le citazioni sono tratte esclusivamente dalle opere del commediografo veneziano.

    3

    La casa si iniziava a intravedere già da un chilometro di distanza nonostante un salice frustato dal vento cercasse di nasconderla ondeggiando i suoi molli rami come capelli di ragazza. Era una casa che sembrava essere nata per restare da sola, isolata. Attorno a essa, le altre abitazioni erano disposte con discrezione, ma distanti. Il terreno sul quale sorgeva era vergine, incontaminato, si era preservato tale nei secoli, solo sul lato orientale sorgeva un piccolo bosco di peschi, che in primavera era la meraviglia dei passanti. I muri di fuori erano di un rosa zuccherino come il cielo del mattino in certi giorni quando le nuvole sono accese dal primo sole. Erano muri nobili, altezzosi, eretti da qualche mano scaltra forse mezzo secolo prima. Di notte dalle finestre il cielo si mostrava stellato, ma più sotto, attorno al salice, le tenebre infuriavano tremende. Era una casa costruita su tre piani, più lunga che alta. Al piano di sopra si accedeva tramite due scale speculari in legno che conducevano alle stanze della famiglia del Conte di ***. Al piano terra sul lato destro vi era la cucina, la dispensa e le stanze della servitù, al lato opposto un salone per i ricevimenti e uno studiolo dove il precettore dava lezioni alla Contessina. L’ultimo piano prevedeva una mansarda adibita a studio per il Conte. All’esterno, oltre al piccolo pescheto, vi era una stalla per i cavalli e un pollaio invisibile ai passanti perché collocato dietro l’abitazione. A un centinaio di metri dalla casa correva una strada sterrata sulla quale ogni giorno passava un calesse – detto trutin – che portava a Milano in poco più di cinque ore.

    La primavera del 1840 non era ancora cominciata e Adelchi D’Arbes, con i suoi trent’anni e il suo ciuffo bruno sugli occhi a guisa di cavallo se ne stava seduto sulla panca fuori dal portone d’ingresso a discorrere con Oberto, il maggiordomo del Conte a servizio da vent’anni in quella casa. Adelchi D’Arbes era un giovane manierato, forse appena un poco ripieno di sé e, a detta di qualche fanciulla, affascinante. Dopo un peregrinare di qualche anno era stato assunto come tutore dal Conte di *** per il bene di sua figlia quindicenne. E per il medesimo bene le sue lezioni avrebbero dovuto svolgersi alla presenza del maggiordomo, ma ciò non avvenne che raramente. Il suo cognome era l’eredità più ghiotta che il destino gli avesse donato: infatti, egli era nipote per parte di madre del D’Arbes che nel Settecento era stato il più grande Pantalone che mai aveva calcato un teatro ed era stato per merito suo se il grande commediografo veneziano Carlo Goldoni aveva abbandonato la toga per il socco. E se è vero che ad Adelchi D’Arbes quel cognome aveva permesso sempre di mangiare un pezzo di pane sotto un tetto, è anche vero che lo aveva relegato a vita a essere semplicemente il nipote del grande D’Arbes e niente più. E questo era il suo cruccio, che celava sotto un finto sorriso carico di invidia.

    «Signor D’Arbes, oggi la vostra lezione l’ho gustata assaissimo!» lo celiò Oberto messosi a sedere un poco discosto sulla panca fuori della grande villa.

    «Abbiamo tutti da imparare qualcosa. E voi più di altri!» gli rispose il precettore.

    «Ma meno di voi!».

    «Siete molto più vecchio e certamente avete avuto molte occasioni per imparare qualcosa, ma alla fine siete solo un cameriere».

    «Maggiordomo!».

    «È quel che ho detto: un cameriere maggiordomo».

    «E voi cosa credete di essere invece?».

    «Il precettore della Contessina».

    «Alla padroncina, che è semplice, potete dare a intendere tutto quel che volete, ma io non credo sì facilmente²».

    «Siete il padrone dei vostri sentimenti».

    «Indi in città si dice che siete nipote di quel Pantalone di vostro zio».

    «Senz’altro. Senz’altro» replicò un poco mosso Adelchi D’Arbes, che, quando si parlava del leggendario parente, entrava in escandescenze e si confondeva.

    «E questo vostro zio vi voleva bene?».

    «Senz’altro. Benissimo!».

    «E però non vi lasciò nulla!».

    «Che il diavolo vi porti. Mi ha lasciato questo bel cognome!».

    «Bello veramente».

    «Vi piace tormentarmi».

    «E via, non vi accendete, noi maggiordomi non sappiamo con chi divertirci se non giocando un poco coi precettori. Indi, quando ve ne andrete, mi lascerete un vostro volume per ricordo di vostro zio?».

    «Senz’altro! Ma perché poi me ne dovrei andare? Voi, piuttosto, che ve ne farete di un libro che quasi non sapete leggere?».

    «Perché non me lo insegnate voi che avete del gran tempo?».

    «Questa poi! Riposare la mente dopo una buona ora di insegnamento vi sembra ozio?».

    «Indi mi insegnerete o no a leggere a voce alta?».

    «Senz’altro! Senz’altro!».

    E così continuarono stuzzicandosi per altri dieci minuti sino a quando Oberto il maggiordomo disse quasi gridando: «Ecco il Conte che arriva. Fatemi mettere i guanti per accoglierlo».

    2 Il tutore (Atto II, Scena XVI)

    4

    Il calesse guidato da Mastro Filippo percorreva la strada che immetteva alla tenuta del Conte di ***. Il cavallo aumentò da solo il passo come potesse vedere oltre il paraocchi e oltre il muro la biada già pronta che lo attendeva. Mastro Filippo, invece, perlustrava con la mente in ogni luogo della stalla per vedere se gli riuscisse di trovare la gabbia che era stata già del merlo e che doveva servire alla lucherina già quasi morta di paura. Avvicinatisi ancora una decina di metri s’avvidero del precettore e del maggiordomo.

    «Signore, guardate il signor Oberto e il signor D’Arbes in ozio» disse il cocchiere tra il divertito e il maligno.

    «Asino!» gli rispose il Conte che si concedeva solo questa parola fuori dal galateo. «Tra di voi dovreste almeno tenervi per mano!».

    Cos’è questo tra di voi? Noi chi? Noi servi? Noi schiavi? Noi che non valiamo nulla e meno di nulla? Noi che dobbiamo dire tutta la vita di sì col capo? Noi che, non dico una casa, ma neppure una tana o un nido ci tocca e che anche le bestie stanno meglio? Io vorrei quasi strizzare questo uccellino tra le mani come faccio coi polli solo per fare un dispetto alla Sua Signoria Illustrissima questo aveva in animo di rispondere al suo signore quel povero Mastro Filippo, ma non lo fece un po’ per timore e un po’ per rispetto. Al mondo gli era rimasto solo quel lavoro da cocchiere e una figlia di vent’anni che si manteneva tra la cucina e la lavanderia del Conte e della Contessa. La moglie se n’era andata quando la figlioletta aveva quattro anni lasciando l’educazione della piccola sulle sole spalle del povero marito che in quegli anni si era smagrito e aveva reso la sua pelle come un cencio. Ora quella sua figlia aveva imparato a vivere e sgobbare e lui, quasi vecchio, sapeva bene che di gente che sapeva guidare un cavallo nella sua stalla non vi era solo lui al mondo e neppure era il migliore di tutti. E così taceva mangiandosi il fegato dentro la sua stalla quando non lo vedeva nessuno. Il calesse entrò quindi nell’ultimo tratto di quella stradina e più si avvicinava più si potevano udire le voci dei due uomini dire ancora qualche cosa prima che di tacere e di alzarsi in piedi per dar degna accoglienza al loro padrone.

    «Signore!» dissero D’Arbes e il maggiordomo togliendosi il cappello mostrando quel che c’era sotto.

    «Oberto, portatemi un bicchier d’acqua».

    «Subito, signor Conte».

    «Mastro Filippo, andate per quella cosa, svelto!».

    «Vado».

    «Signor D’Arbes, come è andata la lezione?».

    «Benissimo. La Contessina ha davvero un’intelligenza straordinaria».

    Bastò dire Contessina perché questa uscisse come magicamente dalla casa per presentarsi al padre. Era un’incantevole damigella bionda di quindici anni che vestiva uno scialletto color aragosta di drap de dame che le mettevano in risalto le belle guance di porcellana. Visto il padre, lo salutò con un inchino e rientrò in casa scomparendo come in una visione.

    In pochi minuti Oberto fu di ritorno col bicchiere d’acqua, mentre Mastro Filippo giungeva dalla stalla con una gabbietta dentro la quale aveva posto la lucherina.

    «Cosa avete in quella gabbia, Mastro Filippo?» domandò D’Arbes.

    «Un uccello trovato per strada».

    «Bravo, Mastro Filippo!».

    «Io son scaltro, so bene uccelar³».

    «Mi pare un verzellino!» disse Oberto arricciandosi il naso.

    «Macché verzellino, è un lucherino. Una femmina» gli rispose il cocchiere.

    «Io non so distinguerli, mi sembrano uguali» ammise il maggiordomo.

    «È perché siete un asino!» voleva rispondergli Mastro Filippo, che invece gli disse: «Guardate almeno il becco. Il lucherino l’ha più fine».

    «Indi è come dite voi, ma perché lo avete raccolto?».

    «Il Conte vuole così».

    «Così sia!» conclusero tutti quanti a fior di labbra.

    L’uccellino si era messo sul fondo della gabbietta, verso l’angolo e appiattito ansimava terrorizzato. Mastro Filippo cacciò un dito tra le sbarre per toccarlo quasi a voler dimostrare davanti a tutti che fosse vivo, sebbene nessuno lo dubitasse. L’uccellino al colmo della paura iniziò a sbattere furiosamente contro le pareti della gabbia in modo compulsivo. A quella vista D’Arbes provò quasi pena e non volle guardare oltre.

    «Cos’ha a quell’ala?» domandò Oberto con ribrezzo.

    «Credo che sia spezzata!» ammise il cocchiere fingendo di non saperlo per non offendere il Conte.

    «Spezzata o non spezzata, lo voglio regalare a mia figlia!» disse il Conte infastidito. A tutti parve un’ottima idea, come se solo in quel momento Dio avesse illuminato le loro menti e si fossero aperti i cieli sopra di loro per far comprendere la sola verità che fosse anche il bene per tutti quanti. Rientrarono dunque in casa, il Conte per primo e secondo Mastro Filippo con la gabbia. Gli altri stavano al seguito.

    3 Gli uccellatori (Atto I, Scena IX)

    5

    Lisa aveva quindici anni e doveva farne sedici nel mese di ottobre.

    «Un brutto mese per nascere» aveva detto il Conte, quando ne aveva avvertito il primo vagito, ed erano le prime parole che la piccina aveva udito venendo al mondo. Allevata nel recinto della tenuta dei suoi genitori, aveva segnato davanti a sé un futuro importante e un matrimonio fortunato. Ella sapeva di essere una creatura eletta. Una specie di principessa in tono solo leggermente minore. Sua madre e suo padre l’adoravano e, non avendo avuto altri figli, avrebbero destinato tutti i loro possedimenti a quella figlia. Lisa non aveva amici che potesse considerare dei pari suoi, ma si contentava di avere una servitù e un precettore di tutto rispetto. Di tanto in tanto scambiava qualche parola con Elsa, la figlia di Mastro Filippo, una ragazza di un lustro maggiore di lei, per la quale nutriva simpatia e rispetto, ma che non poteva considerare compagna di giochi e confidente.

    Il viso di

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