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Il Professor Scelestus
Il Professor Scelestus
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Ebook124 pages1 hour

Il Professor Scelestus

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Nel Collegio degli Ulivi, aristocratico istituto per ragazzi bene, tre amici e una ragazzina affrontano un'avventura fantastica: il loro buon maestro Lorenzini scompare improvvisamente e viene sostituito da un incredibile insegnante, il professor Scelestus. Il nuovo professore, orribile a vedersi e disgustoso nelle sue abitudini, nasconde un magico segreto. Riusciranno Pipo, Doc, Tyson e Camilla a scoprire cosa si cela dietro quella stramba figura? Tra magie, dottori premurosi, omini verdi e simpatici pappagalli, vivremo le esilaranti avventure dei quattro amici, sino all'imprevedibile finale. Sempre che Scelestus non intralci i nostri piani...

"Il professore puzza come un uovo marcio, non insegna nulla,
ha l’aspetto di un dinosauro carnivoro,
possiede un orologio strano, mangia insetti a colazione,
bisbiglia da solo guardandosi nelle tasche."
LanguageItaliano
PublisherLa Penna Blu
Release dateSep 30, 2018
ISBN9788895974170
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    Il Professor Scelestus - Cinzia Pierangelini

    felice

    Il Professor Scelestus

    Era la creatura più insolita e repellente che si possa immaginare: un fantasioso miscuglio tra una talpa, un rettile e un uccello. Avanzò nell’aula a passi lenti, strascicando i piedi e dondolando la testa larga come un cocomero. Si muoveva con circospezione, come un animale che lasci la tana.

    Non era affatto alto ma, di sicuro, abbastanza grasso e calvo; portava piccoli occhiali tondi, con lenti spesse come fondi di bottiglia, dietro cui brillavano, insolitamente vivaci, due occhietti maligni da Velociraptor. Indossava un abito vecchio e stropicciato che, in tempi migliori, doveva essere stato grigio, pieno di macchie d’ogni forma e colore, con profonde tasche sformate dall’uso. Il naso aquilino era adornato da un abominevole porro peloso, che sembrava poggiato lì per impedire agli occhiali di scivolargli in bocca tra i denti giallastri, storti ed enormi come quelli degli squali.

    Al panciotto, con una grossa catena d’oro, teneva legato un orologio d’insolita fattura che, allo scoccare della prima ora di lezione, diffuse nell’aria l’accenno di una melodia triste e dolcissima.

    No... non notai certo tutto ciò nel momento in cui il nuovo insegnante entrò nell’aula. In realtà, per un bel pezzo, non riuscimmo a vedere nulla, impegnati com’eravamo a tapparci il naso per l’improvviso, nauseabondo odore sprigionato nell’aria dall’arrivo di Scelestus. Un fetore acido di gatto morto e cane bagnato, condito da bisognini di fratello piccolo e frutta marcia. Così almeno lo definì, in seguito, il mio amico Tyson.

    Due o tre dei miei compagni si precipitarono a spalancare le finestre, senza neanche chiedere il permesso alla direttrice, trattenendo il fiato come se fossero in apnea.

    Miss Amelia, d’altronde, sembrava non accorgersi di nulla: era rimasta immobile, come trasformata in una statua, con un ghigno ebete stampato sul viso; e anche più tardi, lasciandoci per tornare ai suoi impegni, quell’arpia continuò buffamente a sorridere, come intontita. Notammo, col passare del tempo, che ogni volta che s’imbatteva in Scelestus il suo umore, incredibilmente, migliorava e il suo becco arcigno si abbelliva di un sorriso da vera idiota. In realtà, sembrava sotto l’influsso di un incantesimo: non faceva che lodare le doti eccezionali del professore e il suo curriculum – più unico che raro!.

    Insomma, una vera stramberia; ma niente in confronto alle stranezze che accadevano ogni giorno in classe, soprattutto al cambio dell’ora, e al bislacco metodo d’insegnamento adottato da Scelestus.

    Le lezioni del professor Scelestus

    Volenti o nolenti dovemmo accettare il nuovo tipo di scuola del professor Scelestus.

    Qualcuno, è vero, provò a scrivere a casa per lamentarsi, ma chi mai dà credito a un ragazzino? E soprattutto quando sostiene che:

    il professore puzza come un uovo marcio,

    non insegna nulla,

    ha l’aspetto di un dinosauro carnivoro,

    possiede un orologio strano,

    mangia insetti a colazione,

    bisbiglia da solo guardandosi nelle tasche.

    Inutile aggiungere che, poverini, furono obbligati a ritrattare ogni parola.

    Miss Amelia ci fece anche una bella ramanzina, poiché aveva dovuto rassicurare molti genitori e convincerli della regolarità delle lezioni e della indiscussa bravura del nuovo insegnante.

    Non dimenticherò mai il luccichio maligno negli occhi del professor Scelestus mentre la direttrice ci rimproverava, aspramente, promettendoci durissimi castighi se avessimo continuato a raccontare stupidaggini.

    Eppure, lo giuro, raccontavamo la pura verità. In due mesi non avevamo imparato nulla; anzi, a dirla tutta, cominciavamo a dimenticare anche ciò che avevamo appreso in passato. Sì, certo, il professore blaterava tutta la mattina, ma sembrava ragionare tra sé e sé, più precisamente pareva conversare con la sua giacca; passeggiava avanti e indietro tra i banchi, con le mani sempre in tasca, trascinandosi dietro le stringhe slacciate delle scarpe ed emanando un tale lezzo da fare invidia a uno zoo.

    A volte ci sembrava di riconoscere qualche argomento di lezione, un termine scientifico, per esempio, ma subito ci rendevamo conto che il professore non si stava rivolgendo a noi: semplicemente borbottava in maniera incomprensibile.

    Ci interrogava però, questo sì.

    Una volta a settimana, in ordine alfabetico, ci rivolgeva un’unica domanda, sempre con lo stesso tono, guardando distrattamente fuori dalla finestra. «Che fa la capra sopra la panca?» chiedeva.

    Tutti, ovviamente, imparammo subito la risposta corretta: «Sopra la panca la capra campa». A volte, quando sembrava un po’ meno disattento del solito, variava la domanda da un allievo a un altro, «Che fa la capra sopra la panca? E sotto? Chi muore sotto la panca? Chi muore sopra la panca?», tentando di metterci in difficoltà.

    Oppure ci faceva ripetere tutto lo scioglilingua per esteso, molte volte di seguito e sempre più velocemente; nel frattempo sembrava assopirsi e il suo sguardo diventava vuoto e assente.

    «Sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa, sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra...»

    Da lontano, ne sono certo, doveva sembrare un esercizio, e così credeva sicuramente la direttrice che, entrando un giorno, all’improvviso, durante una di queste esecuzioni collettive, ci disse tutta contenta: «Bravi ragazzi! Le coniugazioni, ripetute in questa maniera, non le dimenticherete mai più!»

    Così alla fine del primo quadrimestre ci furono solo due insufficienze: un ragazzino che non stava mai attento e faceva morire la capra sopra la panca e poi, immancabilmente, la faceva resuscitare sotto; e un altro che aveva la erre moscia, quindi diceva sopva, capva e cvepa e, quando sciorinavamo tutto lo scioglilingua, si metteva a piangere perché rimaneva sempre indietro. Era con immenso piacere che Scelestus si rivolgeva a quei due prima di assegnare loro un insufficiente: «Non avete studiato? Ma bene, c’è un girone dell’inferno per gli asini come voi! Siete proprio dei somaracci e verrà il diavolo in persona a portarvi via! Verrà col forcone a punzecchiarvi la lingua, ve la ridurrà come un colabrodo, vedrete...»

    Lo diceva con tale serietà e godimento che avremmo potuto giurare che stessero per spuntare proprio sulla sua testa le corna da diavolone.

    La maggior parte di noi aveva però splendidi voti e la stupida direttrice non stava in sé per la contentezza.

    A Scelestus non importava nulla del nostro rendimento scolastico, era più che palese. I suoi pensieri erano rivolti altrove e il suo parlottio incomprensibile s’interrompeva solo in un’occasione: quando entrava una mosca!

    Allora, all’improvviso, sembrava vederci. Un’agitazione frenetica s’impadroniva di lui e la nostra presenza lo disturbava moltissimo. Ci intimava il silenzio e, veloce e sinuoso come un gatto, con passi felpati e leggeri, si avvicinava all’incauta vittima e... Zac!, l’acchiappava nel pugno in men che non si dica. Poi, tenendo l’insetto tra le mani, si avvicinava alla finestra e, volgendoci le spalle, faceva il gesto di liberarlo. Alcuni di noi, però, vedevano chiaramente che invece, con incredibile voracità, se l’infilava in bocca. Immaginate il disgusto? No, scommetto che non mi crederete neanche.

    Eppure questo non sarebbe stato, tutto sommato, ancora nulla se...

    Mi presento

    Solo adesso mi rendo conto di aver corso un po’ troppo e di non essermi neanche presentato. Mi chiamo Paolo, Pipo per gli amici; mi chiamano così a causa della mia statura, non proprio adeguata ai miei dieci anni. Insomma sono piccolo, cioè basso, e magro e ho un cespuglio di capelli rossi ribelli a qualsiasi disciplina, così almeno dice mia nonna.

    Nessuna delle mie compagne mi fa il filo, ma ci ho fatto l’abitudine; e poi papà mi ripete sempre che: «Per le donne c’è tempo... fin troppo.»

    In ogni caso non m’importa granché delle femmine, perché ho due amici inseparabili: Doc, diminuitivo di doctor, detto così perché ama fare esperimenti su rane, lucertole e altri innocenti animaletti; e Tyson, come il grande pugile, il ciccione più ciccione e mangione che

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