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I luoghi e i misteri dell'arte. Secondo premio letterario internazionale «Città di Barletta»
I luoghi e i misteri dell'arte. Secondo premio letterario internazionale «Città di Barletta»
I luoghi e i misteri dell'arte. Secondo premio letterario internazionale «Città di Barletta»
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I luoghi e i misteri dell'arte. Secondo premio letterario internazionale «Città di Barletta»

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"I luoghi e i misteri dell'arte", l'antologia della seconda edizione del Premio letterario internazionale "Città di Barletta". Dopo i Racconti nel castello, altre fantastiche storie esplorano tutto ciò che è arte, dal genio creativo all'essenza umana. Emozioni, intrighi, misteri che si snodano mirabilmente in un dedalo affascinante, riscoprendo la scintilla divina presente in ognuno di noi.
Racconti presenti (in ordine di classifica):
1°: “La notte dei miracoli” di Francesca Ramacciotti
2°: “L’alba che verrà” di Luigi Brasili
3°: “10 Settembre ’43” di Cosimo Ugo Paolo Miccoli
4°: “Studio di artista” di Giuliana Damiani
5°: “Inno alla gioia” di Marina Mastrangelo
6° ex-aequo: “Dell’arte, il cuore” di Martina Montenegro
6° ex-aequo: “La collezione Maricondo della Marra Marrano” di Fiorella Borin
8°: “Le nozze rosse” di Stefania Mattana
9°: “Viaggio in Florida” di Grazia Gironella
10°: “I miei quadri” di Cosimo Ugo Paolo Miccoli
LanguageItaliano
PublisherLa Penna Blu
Release dateOct 1, 2018
ISBN9788895974149
I luoghi e i misteri dell'arte. Secondo premio letterario internazionale «Città di Barletta»

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    I luoghi e i misteri dell'arte. Secondo premio letterario internazionale «Città di Barletta» - Luigi Brasili

    Barletta"

    La collezione Maricondo della Marra Marrano

    di Fiorella Borin

    «Quanto ci vorrà?» domandai con apprensione.

    Il meccanico si asciugò le mani in uno straccio bisunto.

    «Lo spinterogeno è andato. Dovrò cambiarlo e ci vuole il suo tempo. Le conviene trovarsi qualcosa da fare per le prossime due ore.»

    Era un buon suggerimento. Avrei approfittato di quelle due ore per visitare il paese in cui il guasto alla macchina mi aveva obbligato a fermarmi. Mi gettai sulle spalle il soprabito e uscii dall’autofficina. Minacciava pioggia, in giro non si vedeva anima viva. Tutti i negozi avevano le saracinesche abbassate, chi chiuso per turno, chi per malattia, chi per lavori di manutenzione; l’ultimo addirittura per cresima del nipote.

    Entrai nell’unico bar aperto della piazza.

    Dietro il bancone una donna di mezza età, grassa e occhialuta, si stava dando lo smalto viola sulle unghie. Ordinai un caffè. Me lo servì con uno sbuffo di fastidio e subito tornò a occuparsi delle sue manone. Mentre sorseggiavo la ciofeca, mi cadde lo sguardo su una locandina appiccicata sulla porta d’ingresso.

    Palazzo Stavridis

    Esclusiva mondiale!

    Solo oggi e per la prima volta in Italia

    vengono esposte al pubblico tutte le opere

    della prestigiosa collezione Maricondo della Marra Marrano.

    Un evento unico e irripetibile!

    Non mancate!

    Seguiva, scritto in piccolo, l’indirizzo.

    «Scusi, è lontano Palazzo Stavridis?» domandai all’ostessa.

    Il donnone non alzò neanche la testa dal pennellino intinto nello smalto. «Quando esce, vada a destra per cento metri, poi a sinistra per cinquanta metri, poi prenda il vicolo a sinistra e se lo trova davanti.»

    Destra, sinistra, ancora sinistra, ripetei fra me. Sarei arrivato lì in un batter d’occhio. Una mostra poteva essere un ottimo modo di occupare le due ore che mancavano alla riconsegna della mia auto.

    «Non ho mai sentito nominare questo Maricondo della Marra Marrano» dissi. «E dire che mi occupo di arte da quarant’anni buoni… Sa, sono un giornalista specializzato e scrivo su *** e su °°°.» Scandii con orgoglio i nomi delle due testate, convinto di fare bella figura.

    La cicciona mi lanciò un’occhiata di commiserazione da sopra gli occhiali, quindi tornò a occuparsi dei suoi artigli violetti.

    Inghiottii, insieme all’ultimo sorso di ciofeca, anche l’amarezza.

    «Cosa dice? Mi consiglia di andare a vedere la mostra?»

    L’ostessa si contemplò soddisfatta le manone e cominciò a sfarfallare le dita, facendo saettare lampi violetti. Lo smalto era, oltre che dichiaratamente cafone, pure fluorescente.

    «In tutta sincerità, me la consiglia?» provai a insistere.

    «Io son pagata per fare la barista, mica per dare consigli» replicò, soffiandosi sulle unghie. «E poi a me i giornalisti mi son sempre stati su i ball.»

    Pagai e uscii.

    Dopo due minuti ero a Palazzo Stavridis: una costruzione barocca, in pietra gialla, appesantita da cariatidi, grifoni, balconate cadenti, mascheroni in gesso dalle bocche sghignazzanti, e minata da crepe vistose. Un’infiltrazione di acqua piovana aveva danneggiato irrimediabilmente l’affresco che ornava il sottotetto. Non mi sembrò un gran danno, visto che raffigurava donnine ignude inseguite da demoni rossi e cornuti armati di forconi, che erano a loro volta inseguiti da pipistrelli, alle cui calcagna stava la Morte in persona, una falce nella mano destra e un martello nella sinistra. Aggrottai la fronte su questa simbologia un po’ fuori dagli schemi tradizionali e varcai il portone d’ingresso, che immetteva in una sala dal pavimento di marmo nero. La luce era fioca, l’atmosfera spettrale. Su ciascuna delle sei colonne di marmo ugualmente nero che avrebbero dovuto abbellire la stanza, erano incisi teschi con le tibie incrociate.

    Non c’era coda al botteghino. A dire il vero, non c’era neanche l’ombra di visitatori. Il salone era completamente deserto, a eccezione di un ometto che mi venne incontro festante.

    «Benvenuto! Le stacco il biglietto, sono quindici euro!»

    Aprii il portafoglio ed estrassi la tessera di giornalista.

    «Sono qui per lavoro» dissi con soavità, sperando di sembrare convincente.

    Il volto dell’omino si allargò in un sorriso da cavallo.

    «Bene! Benissimo! Allora la accompagno di sopra. Le farò da guida, ma lei chieda, chieda pure, faccia tutte le domande che vuole. Su quale giornale scrive?»

    Sciorinai con fierezza i nomi delle due testate.

    Il sorriso svanì in un battibaleno, sostituito da una smorfia affranta. «Beh, meglio di niente» lo sentii borbottare. Poi, ritornato gioviale, mise sulla bocca le mani a imbuto e chiamò: «Caccavale! Ahò, Caccavale! Vieni a sostituirmi al botteghino, ché accompagno su un giornalista!»

    Emerse da uno sgabuzzino un omone grande e grosso, con le sopracciglia alte due dita e gli occhi che guardavano uno a destra e l’altro a sinistra. Teneva in mano un enorme panino con la mortadella.

    «Stacca tu i biglietti, Caccavale, e ricordati che i giornalisti entrano gratis. Caso mai ne venisse un altro» aggiunse, indicandomi con un cenno del capo.

    Hai voglia che ne viene un altro brontolò Caccavale. Squadrò me con l’occhio destro e la porta d’ingresso con l’occhio sinistro, quindi azzannò il panino e mi girò le spalle.

    «Venga, venga» mi incoraggiò l’anfitrione, «mi segua, mi segua» e cominciò a salire di corsa le scale. Dopo dieci gradini avevo già il fiato corto. L’omino, invece, saltellava davanti a me come un cerbiatto e aveva già imboccato la seconda rampa.

    Aumentai l’andatura.

    Arrivati al piano nobile, mi sentivo battere nel petto uno stantuffo e soffiavo come un mantice.

    «Prego, prego» disse l’ometto, fresco come un bocciolo di rosa, indicandomi la porta di destra, sulla quale campeggiava la riproduzione in formato extra-large della locandina vista nel bar.

    Sottolineai con il dito il nome di Maricondo della Marra Marrano e biascicai un flebile: «Chi era?»

    L’omino fece tanto d’occhi. «Non lo sa?»

    Scossi la testa. La faccia dell’ometto si trasformò nel manifesto dell’indignazione.

    «Ah già. Figuriamoci se uno che scrive su…» si interruppe per non infierire e si sistemò con sussiego i baveri della giacca.

    «Permetta che mi presenti. Sono Gedeone Stavridis, proprietario di questo palazzo e discendente del nobile Maricondo della Marra Marrano, che fu illuminato collezionista d’arte, insigne poeta ed eccelso scrittore.»

    Trascinandomi per la manica del soprabito, mi condusse nella sala di sinistra, al centro della quale campeggiava un busto di bronzo che riproduceva le fattezze di un uomo anziano, dalla barba biforcuta. Due imponenti favoriti gli ingombravano le guance e distoglievano l’attenzione dal nasone a becco e dalle labbra asimmetriche, ma non bastavano a far passare in secondo piano i due occhiacci spiritati che sembravano schizzargli fuori dalle orbite. I casi erano due: o lo scultore era scappato dal manicomio per modellare il busto, o Maricondo della Marra Marrano era un fenomeno di bruttezza.

    Stavridis mi batté una mano sulla spalla.

    «Che ne dice, eh? Si vede, eh, si vede brillare in quegli occhi così espressivi il lampo del genio!»

    Osservai meglio i globi a palla da tennis del Marrano e notai una preoccupante somiglianza con gli occhi strabici di Caccavale.

    Mi astenni da qualsiasi commento.

    Distolsi lo sguardo dall’apparato oculare del defunto, e mi soffermai sulla rigogliosa corona d’alloro che gli cingeva la fronte. La singolarità dell’ornamento consisteva nel fatto che i rametti d’alloro si dipartivano dalle sue orecchie (invero notevoli per dimensioni, e alquanto a sventola), percorrevano il collo e si irrobustivano sui baveri della giacca. Scoprii così che quella che a prima vista mi era sembrata una cravatta, era in realtà il fusto della pianta d’alloro.

    «Ha colto l’allegoria, eh, l’ha colta?» esclamò tutto allegro lo Stavridis. «Dal suo cuore di poeta nasce la pianta più cara ai poeti! Il suo sangue alimenta l’alloro, lo vivifica, lo consegna all’immortalità!»

    Deglutii e biascicai un flebile assenso.

    «Prenda appunti, ora, prenda appunti!» trillò l’ometto. «La storia del mio antenato è degna di un romanzo. La scriva sul suo giornale, anzi la scriva su tutti e due i suoi giornali, più gente la legge e meglio è, e pazienza se quei due giornali… ma meglio di niente! Tiri fuori il block-notes, io gliela detto e lei scriva, eh, scriva tutto!»

    Ne avevo avuto abbastanza. Non avrei scritto una riga su quel Marrano della malora, tanto meno sotto dettatura. Tesi la mano per congedarmi da Stavridis e dai cimeli del suo antenato, quando un fulmine illuminò a giorno la stanza, subito seguito da un tuono assordante. In un batter d’occhio si scatenò l’inferno.

    Pioggia, grandine, turbini di vento: al di là della finestra volavano frasche, cartelloni stradali, bandiere, vasi di gerani, cappelli di paglia e mutandoni strappati dalle corde del bucato.

    Impensabile uscire con quell’ira di dio. Cavai di tasca biro e block-notes e mi rassegnai a fare il dettato.

    Stavridis sorrise compiaciuto, si raschiò la gola e iniziò la conferenza.

    «Il nobile Maricondo della Marra Marrano nacque sul finire del Cinquecento in località imprecisata. Ignoto fu il padre, assai più nota la madre, ma i motivi della sua notorietà preferirei non venissero citati. Ha scritto? Bene, allora cancelli l’ultima frase, che è irrilevante.»

    Con un tratto di biro feci sparire ogni traccia della notorietà materna. Non potei però trattenermi dall’obiettare: «Mi colpisce il fatto che il padre fosse ignoto. Ritenevo fosse imparentato con i della Marra di Barletta.» Mi balenò il ricordo della bellissima mostra sul De Nittis, organizzata a Palazzo della Marra a Barletta: era stato un evento indimenticabile, sul quale avevo scritto i migliori articoli della mia carriera.

    «No. Nessuna parentela» tagliò corto l’ometto. «In realtà Maricondo non era un della Marra, ma un della Morra. La madre, capirà, la madre, quando non faceva la… ma cosa fa, scrive? Non scriva, perdìo! La madre, dicevo, quando non stava nel bord… insomma, quella santa donna si guadagnava onestamente il pane giocando alla morra nelle taverne. Insegnò il mestiere al figlio e il geniale Maricondo perfezionò a tal punto la sublime arte della morra da mettere insieme un discreto gruzzoletto, che gli permise di provvedere ai bisogni materni con prodigalità e sempiterna, commovente devozione. Ha scritto la frase sulla sempiterna devozione? La scriva, la scriva!»

    La scrissi in stampatello, in modo da ricordarmela.

    «E questo Marrano era un soprannome?»

    «Ma certo!»

    «E mi può spiegare perché…?»

    Stavridis sospirò. «All’epoca in cui il nobile Maricondo entrò nell’età adulta, per far fruttare il capitale accumulato con la morra aveva due sole possibilità: impegnarlo in un’attività lavorativa che avrebbe assorbito tutte le sue forze, fisiche e psichiche, abbrutendosi e diventando via via più simile a un animale da soma, oppure…»

    «Oppure?»

    «Oppure far fruttare il denaro standosene in panciolle e dedicando le proprie energie fisiche e psichiche a ben più elevati ideali. Essendo un uomo dall’intelligenza superiore alla media, l’insigne Maricondo scelse senza indugi la seconda via.»

    «E cioè?»

    «Ma lei non è mica tanto sveglio, sa? Ci vuole tanto a capire che si mise a prestar denaro a chi ne aveva bisogno? E siccome a quel tempo l’usura era un reato e potevano prestare quattrini solo le banche o gli ebrei, lui, non potendo fare il banchiere, fece l’ebreo! Si convertì, fece per dieci anni l’ebreo, imprestò soldi a destra e a manca, poi contò i soldi che aveva nascosto nel cassone, vide che erano abbastanza, abiurò pubblicamente e tornò a fare il cristiano. Gli appiopparono il nomignolo di Marrano per questo motivo, oh, ma cosa fa, scrive? Non scriva, perdìo!»

    Feci sparire con un tratto di biro le parole usuraio e abiura.

    Lanciai un’occhiata verso la finestra: purtroppo pioveva a cascate, l’intervista doveva continuare ancora un po’.

    «Mi dica lei cosa devo scrivere.»

    «Oh, finalmente un’idea sensata! Ma lo sa che lei, quando vuole, sa ragionare bene? Andiamo avanti. All’età di trent’anni circa, l’insigne Maricondo trasformò il proprio cognome, evocatore di taverne e passatempi triviali, in della Marra. Ottenne questo risultato corrompendo alcuni notai… Ma cosa fa, scrive? Cancelli quel corrompendo, lo cancelli subito!»

    Cancellai.

    «Ora scriva. Scriva, su, non resti lì impalato con la biro per aria. All’età di trent’anni, dicevo, l’insigne Maricondo della Marra divenne conte e là in fondo può ammirare il suo stemma nobiliare.» Mi indicò un gigantesco scudo di gesso che troneggiava sulla parete di fronte. Strizzando gli occhi, riconobbi due mani che si fronteggiavano, l’una mostrando quattro dita, l’altra il solo pollice, in campo azzurro. La mano con quattro dita era circondata da pipistrelli, quella con il pollice da foglie d’alloro.

    «Divenne conte, dicevo» proseguì lo

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