Il codice dell'Inquisitore: La trilogia dell'Inquisitore Vol.1
By Vania Russo
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In un vortice crescente di legami che si intensificano, distruggendo le barriere di freddezza e incapacità di relazionarsi di Ermes, grazie anche all'incontro travolgente con una paziente, Emma, l’indagine medico scientifica lo porterà a un confronto inatteso e decisivo: quello con il Codice dell’Inquisitore, un trattato di medicina risalente al 1600 redatto da Lazzaro, medico ebreo vissuto alle pendici del Grappa e protetto da uno dei più influenti inquisitori della Serenissima Repubblica: Ruggero Valenti. Ermes dovrà lottare contro la propria razionalità – e la brama di successo – per poter entrare in un mistero nato nel cuore della Venezia del Seicento, tra cospirazioni politiche, esoterismo e alta finanza farmaceutica.
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Il codice dell'Inquisitore - Vania Russo
intenzionale.
Prologo
«L’acqua e gli alberi e la superficie rosea delle rocce persero ogni colore e le nuvole bianche e scure pesavano minacciose. Solo le mosche se ne rallegravano, le mosche che annerivano il loro signore e facevano rassomigliare le budella gettate sulla roccia a un mucchietto di carbone luccicante».
Toccato da quelle parole, Ermes si girò a guardare Ettore, che aveva letto ad alta voce per poi tacere di nuovo, tornando a immergersi nelle pagine del romanzo, totalmente assorto. Lui, invece, sostò nella sensazione evocata dal ricordo di storie attraversate dentro il buio irrequieto di notti insonni; notti dilatate, gigantesche, infinite. Sospirò, tornando al presente, e con uno spicchio di sonnolenza nello sguardo appoggiò i pensieri sulla faccia dell’amico: Ettore Misnelli, genetista. Erano colleghi, lavoravano in un importante centro medico di Milano e condividevano gran parte delle loro giornate, compresa la pausa pranzo, quasi ogni giorno.
Intorno a loro annaspava la luce sciatta del neon agghiacciante e monocromatico che boccheggiava dal soffitto di un locale con tavolini tondi di metallo, sedie quadrate di metallo e posacenere rettangolari di metallo. Il bancone sembrava quello di una salumeria, con panini a basso costo e a ignobile gradiente di salubrità. Ermes si raddrizzò sulla sedia e si mise a sorseggiare il caffè, che ormai era della temperatura giusta: né freddo né caldo; il sound jazz del Blue in Green di Miles Davis rimbalzava sulle divise bianche delle cameriere, quasi tutte incattivite studentesse sottopagate, poi si impennava e saliva di tono, fermentando negli spazi e riempiendoli di malinconico languore.
Per Ermes il jazz aveva armonie familiari e confortanti.
«Sull’orlo interno della laguna, dove l’acqua era più bassa, quel chiarore che avanzava era pieno di strane forme che sembravano animali dal corpo fatto di raggi di luna e dagli occhi di fuoco. Adagio adagio, circondato da una frangia di forme lucenti che sembravano indagare, il corpo morto di Simone, fatto d’argento anch’esso sotto le costellazioni tranquille, si mosse verso il mare aperto...», tornò a leggere a voce alta Ettore. «Non è inquietante?», chiese.
«Cosa sarebbe inquietante?», domandò lui, distratto.
«Il Signore delle Mosche, insomma, quello che ti sto leggendo».
«Per qualcuno potrebbe esserlo».
«Tu lo avevi già letto?»
«Molto tempo fa, ero un ragazzino».
«Lo trovi ancora inquietante?»
«Lo trovo noioso».
«Noioso?», gli occhi scuri di Ettore si incupirono dubbiosi. «Un gruppo di ragazzini naufragati su un’isola deserta che fanno a gara ad ammazzarsi e che incontrano il diavolo è inquietante non noioso».
«Non incontrano il diavolo», replicò Ermes.
«Certo che incontrano il diavolo: la testa di maiale circondata dalle mosche».
«Appunto, incontrano una testa di maiale circondata dalle mosche».
«Che rappresenta il diavolo».
«Rappresenta le loro paure».
Ettore rinunciò al dibattito, acquietandosi, ma fu una tregua momentanea.
«Tu credi al diavolo?», chiese, infatti, abbassando il libro. Ermes lo fissò, non commentò; invece gli spostò davanti il bollettino che aveva in mano, un mensile informativo diramato dal centro medico nel quale lavoravano, facendogli notare un articolo.
Ettore si sporse e lesse.
«Indagini statistiche sull’incidenza di determinate patologie in luoghi geograficamente isolati», lesse il titolo quasi compitando, per via della posizione scomoda. «Ah! A tal proposito…». Si animò agitandosi e quasi cadendo dalla sedia a tre piedi, mentre cercava di aprire la valigetta, la cui cerniera era perennemente inceppata perché le cuciture finivano per cedere dovendo contenere lo stracolmo cui era sottoposta. «Ecco qua».
Gli piazzò davanti un documento, una lista generica, con un solo elemento evidenziato in giallo. Ermes prese il foglio.
«Ambulatorio odontoiatrico in vendita?», domandò, perplesso.
«Sì, non volevi avere qualcosa di tuo?»
«Non ho i soldi per comprare un ambulatorio mio. Ne abbiamo già parlato».
«Qui si tratta di un progetto seguito dal Centro Medico di Milano; per cui, guarda un po’, riguarda anche te che ci lavori. Individuano dei siti che secondo loro hanno una certa incidenza di patologie esclusive. Dovrebbe essere un paesino alle pendici del Monte Grappa o giù di lì, nella Valle dello Stizzon, che immagino sia un fiume. Mi sono informato: non c’è la farmacia; niente medico condotto; sembra isolato completamente dal mondo. Lo studio è di un dentista morto, un certo De Lazzer».
«Morto come?», chiese Ermes, curioso.
«Circostanze misteriose».
Un silenzio fastidioso vibrò dentro di lui, scalzando perfino l’eco della tromba di Miles Devis.
«Hai sempre voglia di scherzare», disse poi, eludendo ogni turbamento.
«Va bene, hai ragione, volevo attirare la tua attenzione, sono ancora dentro al libro di Golding. De Lazzer è morto in un incidente stradale».
«Comunque, non ho i fondi».
«Te l’ho detto, ti aiutano i capi, pagando parte delle spese, quasi tutte in realtà. I risultati delle ricerche sarebbero del Centro Medico, ma l’ambulatorio avrebbe il tuo nome sulla porta, e godresti dei guadagni e della fama legata alle indagini medico scientifiche. Mi pare una buona cosa no?»
«Non lo so, ci devo pensare. Sembra un posto dimenticato da Dio».
«E non sei contento? Se lo ha dimenticato non rischierai di incontrarlo, conoscendoti mi pare perfetto».
Ermes lo scrutò scettico, ma poi mise in borsa il documento.
«Valuterò».
Ettore tornò a leggere Il Signore delle Mosche, lui, invece, andò con lo sguardo alla signora con il cappotto a macchie dalmata e sorseggiò il caffè all’americana, ormai troppo freddo.
Capitolo 1
Seren del Grappa, dicembre 2009
Le armonie in sottofondo abboccavano il silenzio ottuso di quel mondo a lui estraneo; erano vibrazioni emotive che gli appartenevano e contribuivano a calmarlo, addolcendo la sua afflizione. La musica se l’era portata dietro da Milano fin lì, nella Valle dello Stizzon. Trasferendosi aveva creduto in un miglioramento concreto per la sua carriera, adesso, invece, ogni illusione era disarmata, ogni speranza spezzata: quella situazione non aveva la portata del cambiamento che gli spettava. Offrendogli quel posto, il Centro Medico di Milano gli aveva garantito un impiego tranquillo – fin troppo – e l’opportunità di fare indagine scientifica, perché c’era il sospetto che la valle custodisse un’area con incidenza di particolari patologie. Eppure, lui aveva riscontrato solo l’inusuale ricorrenza di una singolare deformazione della mandibola, capace di arrecare notevoli problemi a chi ne fosse affetto, e nulla di più; niente che giustificasse una sperimentazione e tanto meno articoli su importanti riviste scientifiche.
Da mesi continuava a interrogarsi sul cosa avesse indotto il Centro a inserire il sito tra quelli a elevato interesse per la ricerca medica, ma, non riuscendo a trovare risposte, alimentava il sospetto che avessero cercato di farlo fuori senza licenziarlo; una specie di confino. Sconfortante complottismo il suo. Non aveva basi per sostenere quell’idea. Era uno dei medici migliori del poliambulatorio, certo, qualche volta aveva dato rogne per gli onorari che gli liquidavano in puntuale ritardo, ma erano sempre state tutte recriminazioni sacrosante. Sbuffò, nervoso, non sapendo realmente cosa considerare come plausibile; sentendo che dietro quel sipario s’agitavano attori guidati da una qualche sapiente regia. C’erano molte cose non dette che aleggiavano nei deprecabili silenzi dei suoi datori di lavoro.
Si avvicinò all’unica finestra e mosse due dita a scostare le tende bianche, lineari, essenziali. Gli occhi azzurri, stanchi e profondi, vividi di curiosità e disputa, entrarono nel candore della neve che tutto copriva scendendo inesorabile. Nello spazio innevato c’erano la piazza, non grande, assediata da palazzi di varia misura, altezza e colore. Nel mezzo sorgeva la chiesa dedicata al nome di Maria Immacolata, con l’esterno vigoroso e vibrante di eco moderne, anche se probabilmente costruita su un edificio più antico; l’interno per lui restava un mistero: non ci aveva mai messo piede e non ne aveva la benché minima intenzione.
Seren era un borgo assopito nella valle cinta da monti, ermo muto e spettrale; almeno per la sua concezione di complesso urbano. Si trovava all’imbocco di una gola incantevole, che penetrava boschi e rive fin sotto al Massiccio del Grappa, al di là del torrente Stizzon e in adiacenza alla piana di Fonzaso. Il territorio pareva essere molto vasto e si inoltrava in una zona indiscutibilmente montana, che si slanciava in verticale. Chi vi saliva si azzardava lungo pendii floridi di boschi, via via sempre più disadorni, sassosi e scorticati. Nel paese vero e proprio Ermes aveva solo l’ambulatorio medico, l’alloggio lo aveva trovato a quattro chilometri da lì, località San Siro, un colmei, come lo chiamavano da quelle parti, un borghetto sopraelevato rispetto alla Val; non era che un pugno di case, con l’accesso quasi invisibile e in quel periodo letteralmente cancellato dal manto nevoso. Per raggiungere la casa, Ermes doveva infilarsi in una piccola e stretta stradina che si insinuava con brusca asprezza in un serpeggiare di tornanti a gomito, nell’ombreggiata guardia gelida di un boschetto. Là, posta in alto rispetto alla valle, ma più in basso rispetto al nucleo abitato, c’era una chiesetta del XII secolo, dedicata a San Siro, cui lui non aveva mai prestato attenzione.
Si scostò da quelle considerazioni, perché qualcuno stava salendo le scale scricchiolanti, verso il suo ambulatorio, la porta si aprì dopo poco. Lui non si mosse, restando nella luce aspra che penetrava dalla finestra; là si sentiva al sicuro in una privacy opportuna, perché dall’ingresso non potevano vederlo. Abbassò al minimo il volume dello stereo, le note scivolarono in un gelido sottofondo che le rese anonime, e si mosse con plastico automatismo, abbandonando il nascondiglio per fare il suo ingresso in scena con un sorriso cordiale sul volto, sempre lo stesso da replicare a ogni paziente.
«Buongiorno dotor. Ci scusi, siamo arrivati in anticipo».
«Buongiorno signora».
Abbassò gli occhi sul figlio della donna; il bambino di sette anni lo fissò con l’aria di chi non avesse alcuna voglia di avere a che fare con lui. Ovviamente il ragazzetto non accennò nemmeno all’ombra di un saluto, preferendo invadere la sala visite.
«Carlo, non toccare niente», lo riprese inutilmente la madre. «Lo sai che poi il dottore si arrabbia e ti mette il ferro in bocca».
Ermes sospirò.
Capitolo 2
Nei due primi mesi di lavoro presso l’ambulatorio, la maggior parte dei pazienti aveva passato il tempo a raccontargli di quanto il dentista che lo aveva preceduto fosse stato bravo, umano, caritatevole. Il vecchio collega si era occupato di loro come un saggio padre, dispensando non solo cure adeguate, ma anche motti di comprovata assennatezza. Quei discorsi, in genere, trovavano posto tra una visita e l’altra; in quel frangente che si ripeteva sempre uguale, più volte al giorno, in cui lui era impegnato a segnare sulla sua agenda la data dell’appuntamento successivo, e i pazienti si guardavano intorno osservando laurea, diplomi, certificazioni, riconoscimenti. All’inizio aveva provato fastidio, guardando a quei racconti come a un edificio costruito su dure pietre di paragone, ma poi nella riflessione aveva compreso che la propria inquietudine nasceva da altro. De Lazer era amato perché amava, e lui aveva conosciuto un altro medico con simile slancio per il prossimo: Lorenzo Ruggeri, suo padre. Quando ci pensava, una volta rimasto solo nella saletta d’aspetto, sentiva il cuore farsi ruvido. I ricordi lo bagnavano e lui non poteva che esserne scavato come un solco di battigia. Allora, mentre le immagini si accendevano e invadevano la mente, mettendolo all’angolo di un risentimento insopportabile, lui faceva scivolare le dita sulla manopola del volume e alzava la voce della musica, ma la sua controffensiva era poco efficace, perché presto o tardi la corrente di risacca lo trascinava al largo; così le assonanze tra musica e visioni diventavano incontrastabili e lui si ritrovava a guardare l’immagine residua di suo padre seduto su una poltrona di vimini, vestito dell’adagio giocoso di un colono inglese nel cuore di tenebra africano. In testa un cappello di paglia marrone, a tesa larga, abiti bianchi, limpidi, faccia sudata sotto i baffi grigi, la figura sorridente, ingoiata dalla folla pigiante di bambini con la pelle scura e gli occhi enormi. Quelle mani supplici trovavano puntualmente quelle di suo padre ad afferrarle.
In principio, arrivando a Seren, aveva temuto che non avrebbe mai visto un euro di guadagno; poi aveva scoperto che le persone in quel luogo avevano un atavico senso dell’onore e saldavano in maniera adeguata i debiti, anche prima e con maggiore regolarità di quanto non facessero i pazienti nello studio dell’ambulatorio a Milano. Allora, però, lui non maneggiava i soldi, ma percepiva uno stipendio più o meno regolare. Quella di Milano era una struttura privata, funzionale, forse troppo solerte nel proporre interventi, analisi invasive e quant’altro. In effetti, da quando si era allontanato da quel contesto, Ermes si era reso conto dell’ingente quantità di visite superflue che venivano proposte a flussi regolari ai clienti del Centro. Prima non ci aveva mai fatto caso, ingoiato nel gorgo logico ed economico della faccenda.
Sfiorò in punta di dita il ripiano della scrivania laccata, dopo considerò l’insieme del mobilio: non aveva cambiato nulla, non se ne era dato il tempo. Si adagiò più comodamente contro la spalliera della sedia, legno disusato che scricchiolò, e allora cadde con lo sguardo sui due cassetti a destra del tavolo. La sua gamba vi si accostava, ma lo spazio per aprirli era molto esiguo. Non li aveva mai indagati con la dovuta attenzione, anzi si rese conto di non averli notati, magari guardati, ma non considerati. Nell’attimo in cui entrava in quella scoperta lo stereo soffiò l’ultimo respiro armonico e un lievissimo tramestio fremette nell’apparente vuoto. Lui alzò gli occhi, guardando verso l’ingresso, con la netta percezione che qualcuno lo stesse osservando di rimando: un brivido pizzicò la pelle. Nulla di sensato, solo viscere e solitudine, si disse, scacciando la cosa come stress da trasloco. Si sporse verso i cassetti, aprendo il primo, in cui scovò alcune ricette mediche molto datate e qualche foglietto con appunti: date, nomi, località, numeri di telefono, piccole note su possibili infermità. Improvvisamente più coinvolto, provò a tirare più avanti il piccolo vano, per esplorare meglio, ma non ci fu modo di disincagliarlo: le guide erano state rese ribelli dal tempo e dall’uso. Scavò con maggiore cura, andando a tentoni con la mano in una posizione da furto con scasso. Spille per fogli, puntine, con cui si punse le dita che rovistavano alla cieca, una gomma per matita, tre penne nere. Richiuse.
Il secondo cassetto sembrava messo meglio, sembrava, ma in effetti non ebbe modo di appurarlo perché aveva una serratura che vanificò ogni tentativo di aprire. Infastidito, Ermes scese dalla sedia e, costringendosi nello spazio angusto tra scrivania e parete alle sue spalle, si mise in ginocchio per osservare quel miserevole ostacolo alla sua sete di conoscenza.
«Che cosa avranno mai messo qui dentro da dover chiudere a chiave? E soprattutto dove diamine sarà la chiave?», disse.
L’appuntamento successivo era alle 14.00. Aveva ancora tempo. Si diresse con determinazione verso il mobiletto in cui aveva trovato le uniche cartelle cliniche archiviate dal vecchio dentista. Lì c’era una serie di scatolette nelle quali aveva scovato oggetti senza valore, come gessi colorati, tappi di pennarelli, modelli in calco di arcate dentali e via dicendo.
«Eccola!»
Ricordava di aver visto una chiave, e soddisfatto tornò all’oggetto della sua curiosità. Infilò nella toppa e girò, il cassetto si aprì. Ermes rimase a guardare costernato: all’interno c’era solo un foglio giallo e stropicciato cui era attaccata una seconda chiave con una riga di nastro adesivo carta, su cui era scritto con grafia molto incerta: archivio vècio de sot.
«Archivio vecchio di sotto», mormorò, perplesso.
Si mosse di nuovo verso lo schedario delle cartelle cliniche e ne trasse una a caso. Dato che il dottor De Lazer non usava il terminale informatico per catalogare e archiviare i casi e i pazienti, appuntava tutto a mano su fogli di carta poi infilati in quaderni ad anelli tutti uguali, con la copertina gialla e un quadrato bianco con riferimento all’anno. Confrontò il foglietto e la scheda e trovò subito corrispondenza nel tratto di scrittura, particolarmente problematico da interpretare, artificioso, con il vezzo di alcune lettere come la elle, la di, la pi particolarmente altezzose e ridondanti. Non era un esperto, ma quelle somiglianze erano troppo evidenti per non essere certe.
Dunque esisteva un altro archivio, doveva essere altrove, ma era strano, perché quando gli eredi del defunto dottor Donato gli avevano mostrato l’ambulatorio, avevano più volte specificato che non esistevano altri locali oltre a quelli in cui ora Ermes si trovava. L’idea di non essere stato messo a parte di quel dettaglio lo risucchiò in un gorgo di sentimenti negativi: quegli stupidi non si rendevano conto dell’importanza per un medico di avere sotto mano tutto quanto riguardasse i pazienti. Mise foglio e chiave in borsa, restando un istante sospeso, irretito dalla faccenda, ma dovette distogliere i pensieri, perché la porta si aprì, qualcuno doveva aver bussato, ma lui non ci aveva fatto caso.
«Buongiorno dotor Ruggeri».
Chiuse con un gesto secco il cassetto.
«Buongiorno signora», rispose, raggiungendo la sala d’aspetto. «Prego, si accomodi», la invitò, distratto.
«Mi scusi el ritardo».
«Non si preoccupi per il ritardo, venga». La condusse nella sala visite. «Mi ha chiamato per un’urgenza se non sbaglio vero?». La aiutò a liberarsi del cappotto che appese subito dopo. «Di cosa si tratta?»
«Un dolor. Un dolor. Mi fa mal tutto qua. Tutta la boca».
Ermes osservò il movimento della mani della donna, non più giovanissima, ma piacevole d’aspetto, se solo avesse avuto dei modi meno virili e più aggraziati non gli sarebbe dispiaciuta tanto allo sguardo. Le dita di lei spinsero sulla mascella, mostrando il punto dolente. Ermes si avvicinò e osservò, senza toccare, mentre infilava i guanti di lattice verde. La donna lo guardava, attendendo con pazienza. A operazione ultimata, lui si accostò e appoggiò la punta delle dita sulla parte sofferente, strappandole un gemito sofferente.
«È piuttosto gonfia», commentò, continuando a esplorare con più cautela. «Si metta seduta».
L’ordine era stato piuttosto perentorio, e forse per questo lei eseguì come un soldato. Ermes ora la sopravanzava di un poco e poteva esaminare molto meglio.
«È una carie dotor?»
«No, non è una carie», rispose riflessivo e vagamente assente. Quindi la fissò, facendo le sue considerazioni: era ancora una volta un dolore al mascellare inferiore, il sesto quella settimana. «Si stenda per favore, ora la visito in modo più approfondito».
Capitolo 3
La sera era precipitata adombrando un giorno già freddo. La cortina di monti che faceva da sfondo a Seren del Grappa si stagliava limpida e gigantesca, eroica e ineguagliabile. La luna pendeva da nembi a velo, al colmo di luce, per cui il muto mondo sottostante era inondato da un torrente argenteo. L’umidità era stata spazzata via dal vento che per ore aveva soffiato gagliardo nella valle, sollevando a tratti anche polvere di neve, strappandola da quella accumulata a bordo via. Tuttavia, nuove nubi di tormenta premevano al confine della stellata, battagliere.
Dopo aver assolto agli impegni con le ultime visite della mattina, Ermes era uscito per andare a mangiare qualcosa in un piacevole ritrovo che aveva scovato non distante dall’ambulatorio. Si chiamava La Locanda del Cacciatore. Entrò, salutando con cortesia. Ormai lo conoscevano e quando lo incontravano ricambiavano con un certo ossequio.
«Che le porto dottore?»
«Una pizza».
«Non vuole qualcosa di tipico?»
Il proprietario, Giovanni, ci provava sempre a intavolare qualcosa di tipico; gli sorrise cordiale.
«Va bene, lascio fare a lei».
Per una volta cedette. L’altro rimase statico nella sorpresa, quindi si aprì in un’espressione di pura soddisfazione: lo straniero accettava un patto di non belligeranza culinaria, era più di quanto avesse sperato. Non appena si fu allontanato, Ermes prese il cellulare dalla tasca del cappotto che aveva lasciato sulla sedia accanto a lui, cercò in rubrica il numero di uno dei figli di De Lazer e avviò la chiamata. Mentre gli occhi vagavano senza seguire una rotta, il campanello della porta di legno massiccio tintinnò, avvisando Giovanni di un nuovo ingresso. Ermes, che era posizionato in modo favorevole, osservò i due che entravano: una donna infreddolita e un ragazzo insofferente, come se fosse sottoposto a supplizio. Lei salutò in modo espansivo, il suppliziato, invece, brontolò un buonasera privo di consistenza.
Lui, intanto, avviava un nuovo tentativo di chiamata, dopo il primo fallimento, nel mentre li osservava. La donna aveva i capelli d’un palpitante rosso irlandese, morbidi di ricci scarmigliati che si inanellavano come gioielli, gli uni negli altri e parzialmente raccolti, con una sorta di coda di cavallo che però non li stringeva in modo severo, ma li lasciava liberi di esprimere un’ineffabile, calda bellezza. Le luci della locanda ne esaltavano i riflessi particolari e accendevano di una boschiva evanescenza gli occhi di lei, di un verde travolgente. Il profilo era un disegno raffinato, privo di presunzione, eppure colmo di raffinata ispirazione; l’avrebbe guardata a lungo, come si ammira una bellezza che dà respiro e pienezza.
Il silenzio venne spodestato dalle note di una dolcissima musica in sottofondo. Ermes riconobbe subito la tromba di Devis nel policrono jazz dai colori scuri e densi. Se ne stupì alquanto, visto che