Il movimento cooperativo in India e il problema politico dell’emancipazione: Spunti di riflessione per una teoria politica della cooperazione
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Questo saggio analizza i diversi settori di diffusione cooperativa, con particolare enfasi sul settore agricolo, per evidenziare i nodi aperti della cooperazione indiana e i casi di successo. Attraverso uno sguardo transdisciplinare, viene messo in evidenza come la forma di impresa cooperativa, nelle sue differenti declinazioni, costituisca uno strumento efficace di mutamento sociale solo nel momento in cui interviene sulle asimmetrie esistenti, intese in termini di ricchezza e accesso alle risorse (economiche, sociali e culturali). Il movimento cooperativo indiano viene perciò analizzato in riferimento al contesto locale prestando particolare attenzione alla povertà e all'esclusione sociale. Esse vengono, infatti, considerate come fenomeni multi-dimensionali. Il presente saggio sostiene come la cooperazione abbia bisogno per svilupparsi di trarre nutrimento da prassi e teoria cooperative. Si sottolinea in questo modo la necessità di elaborare una teoria politica della cooperazione in grado di ridare forza al progetto cooperativo.
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Il movimento cooperativo in India e il problema politico dell’emancipazione - Gabriele Morelli
Ringraziamenti
Presentazione
Lo studio che viene presentato in questo saggio trova le sue origini nella tesi finale di un Master dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna – il Master universitario di I livello in Economia della Cooperazione MUEC, di cui l’autore fu brillante studente nel corso dell’annualità accademica 2013 -2014.
In misura diversa a seconda del contesto e del periodo storico, la quasi totalità delle società umane ha storicamente conosciuto il fenomeno delle disuguaglianze tra gli individui nell’accesso alle risorse naturali, economiche e sociali; tuttavia, le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza (disuguaglianza economica) sono andate via via crescendo – tanto all’interno dei singoli Paesi quanto tra Stati e aree subcontinentali – con la diffusione del modello economico mercantilistico prima, e con la progressiva affermazione globale
di quello capitalistico poi.
Se nelle società complesse la disuguaglianza economica si presenta, perciò, come un fenomeno in una certa misura inevitabile e, ricorrendo determinate circostanze ed entro certi limiti, per una corrente di pensiero, anche utile
(in quanto determinerebbe uno stimolo all’iniziativa economica individuale e collettiva), è pressoché unanimemente condivisa l’opinione secondo la quale l’eccessiva concentrazione delle ricchezza – che ne costituisce l’effetto inevitabile – rappresenti un grave problema di ordine sociale ed economico, determinando fenomeni di disgregazione sociale, conflittualità diffusa, sovra indebitamento e, dunque, un ulteriore drammatico impoverimento.
Le relazioni tra questi fenomeni sono da tempo note e conosciute, tanto che la riduzione della disuguaglianza è attualmente considerata dalle Nazioni Unite fra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.
Le disuguaglianze economiche possono essere contrastate e ridotte dall’azione degli Stati, tramite strumenti e misure legislative quali – a titolo di esempio - l’imposizione fiscale progressiva, l’introduzione di minimi salariali, programmi di istruzione pubblica, ma anche dall’iniziativa imprenditoriale collettiva di gruppi di cittadini accumunatiti da un medesimo bisogno, mediante la costituzione di imprese mutualistiche ed una economia cooperativa.
In questa prospettiva l’autore indaga il ruolo giocato dal locale Movimento Cooperativo nel processo di sviluppo socio-economico dell’India e di emancipazione dei cosiddetti ceti subalterni a settanta anni dalla sua indipendenza dal Regno Unito (1947), ricordandone gli obiettivi conseguiti, i risultati realizzati ed i prossimi traguardi, ma indagandone anche i limiti, le occasioni mancate e le questioni rimaste tutt’ora aperte.
Prendendo le mosse da un’analisi dei caratteri dello sviluppo capitalistico del sub continente indiano e da una ricognizione storica della genesi e della diffusione dell’impresa cooperativa nel Paese, Gabriele Morelli si sofferma sulle criticità e sui problemi irrisolti dell’esperienza cooperativistica indiana, e tra questi sulle sue complesse relazioni con il potere politico, locale e nazionale, e con le associazioni sindacali.
Lo studio prosegue con la contestualizzazione della cooperazione indiana in una società prevalentemente agricola e caratterizzata da peculiari rapporti tra genere, classe e casta, e si conclude con un primo bilancio e alcune considerazioni prospettiche.
Giovanni D’Adda
Manager Didattico
Master in Economia della Cooperazione MUEC
Introduzione
L’India rappresenta oggi un punto di osservazione privilegiato per comprendere le trasformazioni del sistema capitalistico globale, sia per la sua posizione di cosiddetta economia emergente sia per le contraddizioni che essa incarna.
In questo breve saggio utilizzo il caso indiano per tentare di contribuire al dibattito sulla cooperazione intesa non solo come espressione economica ma anche nelle sue implicazioni politiche.
Nella parte iniziale del testo propongo di allargare lo sguardo sulla cooperazione in India prendendo in considerazione il contesto più ampio dello sviluppo capitalistico e le sue conseguenze sociali, politiche ed economiche.
Nel secondo capitolo traccio un breve profilo storico del movimento cooperativo indiano distinguendo le principali fasi del suo sviluppo fino ai nostri giorni.
Nel terzo capitolo presento i principali nodi aperti della cooperazione indiana: il rapporto tra Stato e cooperative, la scarsa presenza cooperativa al di fuori del settore agricolo, la disomogeneità dei risultati cooperativi in termini di benessere sociale ed economico.
Nel quarto capitolo approfondisco la presenza cooperativa nel settore agricolo, principale settore economico di diffusione, evidenziandone tanto i limiti quanto i punti di forza.
Il quinto capitolo mi dà invece la possibilità di discutere in una prospettiva di intersezionalità – tenendo cioè conto delle variabili di genere, classe e casta – i vincoli e le possibilità di un’economia cooperativa.
Infine, nel sesto capitolo rileggo il dibattito teorico sul cooperativismo alla luce della ricostruzione storico-empirica del caso indiano.
Se è vero che l’impresa cooperativa internalizza costi che l’impresa for profit classica tende a scaricare sulla società, parlare di cooperazione in un contesto come quello indiano, caratterizzato da forti disuguaglianze e contraddizioni legate allo sviluppo capitalistico, diventa un’operazione decisamente rilevante per chi si pone l’obiettivo di studiare e promuovere modelli economici alternativi e sostenibili.
La tesi che intendo presentare in queste pagine è che la forma di impresa cooperativa può appunto costituire una valida alternativa all’organizzazione capitalistica, in particolar modo nei settori ad alta intensità di lavoro, e può essere vettore di mutamento sociale in favore di categorie marginali ed oppresse, a patto che vengano riconosciute tutte le variabili all’origine della marginalità e dell’oppressione stessa.
Non solo. La cooperazione può essere promotrice di mutamento sociale solo se connessa, empiricamente, a movimenti sociali e politici orientati all’emancipazione; filosoficamente, a una teoria politica in grado di supportarla e diffonderla.
Fig. 1 - Mappa politica dell’India, 2015
Fonte: Survey of India (http://www.surveyofindia.gov.in/files/POL_MAP_15M_with_watermark.pdf)
Contestualizzare la cooperazione: lo sviluppo capitalistico in India
L’India sembra costituire un vero e proprio caso
nel contesto dello sviluppo capitalistico mondiale contemporaneo presentandosi come exemplum di un enigma che si presenta in maniera sempre più pressante: come spiegare lo sviluppo capitalistico in quella parte di mondo che ne ha storicamente costituito la periferia? Come confrontarsi con la persistenza di forme economiche e sociali apparentemente pre-capitalistiche? Come spiegare, infine, la traiettoria decisamente differente dei Paesi postcoloniali che hanno visto, in alcuni casi come quello indiano, una crescita economica impressionante parallela ad una moltiplicazione di miseria ed esclusione? Non solo appare difficile definire una volta per tutte quella relazione sociale generale che chiamiamo capitalismo, ma ci troviamo continuamente a dover spiegare la persistenza, eppure mutevole nelle sue proporzioni e declinazioni, di accumulazione di ricchezza accanto ad accumulazione di miseria, di sviluppo e sottosviluppo, così come la permanenza, o addirittura la riproposizione, di forme del lavoro anomale
.
L’India conosce, infatti, una crescita del prodotto interno lordo continuativamente superiore al 6% dal 2003 ad oggi¹ e, contemporaneamente, conosce altri record decisamente meno rassicuranti: la crescita della disuguaglianza interna dei redditi tra i cosiddetti Paesi in via di sviluppo² e la presenza assai rilevante di forme di lavoro coatto, ovvero schiavistico o paraschiavistico, che la modernità capitalistica pretenderebbe aver eliminato³. Il mio obbiettivo non è tanto discutere nel dettaglio questo tema enorme e complesso, poiché non vi è spazio in questa sede, quanto piuttosto fornire uno sfondo in grado di problematizzare l’oggetto di studio: la cooperazione in India e il suo rapporto con l’emancipazione dei poveri.
In questo senso, mi sembra d’obbligo fare riferimento al lavoro dell’economista indiano Kalyan Sanyal, che nel suo Ripensare lo sviluppo capitalistico. Accumulazione originaria, governamentalità e capitalismo postcoloniale: il caso indiano (2010) sottopone a critica la visione dominante dello sviluppo capitalistico, tanto liberale quanto marxista, ponendo la questione radicale dell’esistenza e persistenza nello spazio postcoloniale di masse escluse dal circuito di riproduzione del capitale, e perciò non classificabili secondo le classiche categorie marxiane. Sanyal, da un lato, si confronta con le teorie che, dagli anni ’50 in avanti, hanno cercato di spiegare lo sviluppo economico e il suo correlato, il sottosviluppo, individuando di volta in volta cause e soluzioni diverse, per metterne in discussione gli assunti sui quali si sono basate.
Dall’altro, ponendo l’aggettivo postcoloniale accanto al termine capitalismo, sposta il focus della ricerca su un problema specifico: la complessità del mondo postcoloniale. Non solo le relazioni capitalistiche si sono qui date in forme diverse da quella che si sono avute in Europa occidentale o nel Nord America, ma si è altresì presentato il problema, ancora più radicale, dell’esistenza di masse crescenti escluse dal processo di accumulazione capitalistica e perciò completamente deprivate di ogni ricchezza sociale, persino della capacità di vendere la propria forza lavoro sul mercato e senza possibilità di rientrarvi in alcun modo. Queste masse costituirebbero, secondo Sanyal, uno spazio economico altro rispetto al capitale, seppure prodotto dallo sviluppo capitalistico. Come scritto in precedenza, l’aumento continuo delle disuguaglianze e la proliferazione dei mercati cosiddetti informali così come delle baraccopoli⁴, sembrano confermare la rilevanza dello sforzo teorico compiuto da Sanyal.
Il concetto di accumulazione originaria costituisce il nostro punto di partenza nella caratterizzazione del capitale postcoloniale. È possibile immaginare uno scenario in cui i diretti produttori sono separati dai loro mezzi di produzione, trasformati in capitale costante e variabile, ma in cui non tutti trovano un posto all’interno del sistema di produzione capitalistico. Privati di ogni accesso diretto ai mezzi di lavoro questi si ritrovano soltanto con la loro forza-lavoro, ma la loro esclusione dallo spazio della produzione capitalistica non consente di trasformare la loro forza-lavoro in merce. Sono condannati al mondo degli esclusi, di coloro che sono in esubero e di cui si può fare a meno, che non hanno nulla da perdere, neppure le catene della schiavitù salariale. […] Queste lande desolate, attraversate dalle figure spettrali dei reietti, dei marginali, degli scarti della nascita del capitale, dei rottami e delle macerie costituiscono un esterno rispetto alla autosussistenza
del capitale⁵.
Il problema nascerebbe perciò da quel fenomeno che Sanyal nomina «accumulazione originaria», da un lato riprendendo Marx, e dall’altro ricollocandolo dalle scaturigini del capitalismo al suo divenire. Questa mossa teorica consentirebbe di liberare le concettualizzazioni sullo sviluppo dal dogma storicistico della transizione come dall’etnocentrismo. In altri termini, «la narrazione del capitalismo postcoloniale»,
intesa come un concetto che presenta un insieme di capitale e non-capitale, […] cessa di essere una narrazione della transizione. Sia i marxisti sia i liberali hanno problematizzato la formazione economica del Terzo mondo all’interno del quadro della transizione: dalla tradizione alla modernità, dall’irrazionale al razionale, dal pre-capitalismo al capitalismo. […] Perciò le due tradizioni teoriche, malgrado le loro visioni del mondo e le metodologie siano differenti, condividono un’idea della transizione, una rottura con un prima
e un dopo
, in cui un ordine delle cose
apre la via a un altro ordine. Ma la caratterizzazione dell’economico postcoloniale come un insieme di capitale e non-capitale, con il secondo che emerge nello spazio prodotto dalla logica interna al primo, fa completamente a meno dell’idea della transizione. Se c’è una transizione possibile in questo scenario, essa è dal pre-capitalismo al complesso del capitale/non-capitale. La concettualizzazione del capitale postcoloniale