DREAM: Quando un sogno diventa realtà
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Anteprima del libro
DREAM - Rosalba Rimoldi
PROLOGO
Cinque anni prima
Era una sera fredda e ventosa di fine agosto.
Cupe e oscure nubi si stagliavano sulla volta celeste, coprendo a intermittenza una bellissima ma angosciante luna piena.
Le stelle, che di solito in questo periodo dell’anno risplendono brillanti e vivaci nell’etereo cielo, faticavano a farsi strada tra le nuvole, le quali sembravano correre l’una dietro l’altra, come se si inseguissero in una staffetta infinita, senza vincitori né vinti.
L’aria era ghiacciata, quasi come se, invece di essere nel mese di agosto, si fosse in pieno inverno, con dieci gradi sotto zero. L’inquietudine creata da quel clima insolito non faceva altro che rispecchiare e amplificare il sentimento di panico estremo e di shock che provavo in quei frangenti. Mi guardavo in giro, a destra e poi a sinistra, e ancora a destra, cercando di capire cosa fosse successo. Era tutto ovattato, non sentivo rumori, suoni o voci; non percepivo nient’altro che vuoto misto a terrore, con una sfumatura di incredulità.
Un tocco leggero e continuo sulla mia spalla destra mi svegliò da quello stato di trance in cui ero caduta. In quel momento fu come se al posto del nulla, del silenzio, la mia testa si fosse risvegliata di colpo, le mie orecchie si fossero riaperte, i miei occhi si fossero accesi; un’emicrania fortissima mi colpì in pieno, facendomi strizzare occhi e fronte, non sentivo nient’altro che un rumore simile ad un trapano che mi perforava il cranio.
Un dolore allucinante...
Una voce mi chiese se stessi bene, io non feci altro che annuire, e poi scuotere il capo come se avessi dentro una bomba ad orologeria pronta ad esplodere nel cervello.
A quel punto capii che probabilmente non stavo bene per niente, tentai di far mente locale e capire ciò che era successo, ma niente, sembrava che la mia testa non riuscisse a connettere.
Riuscii ad agitare un braccio e toccarmi la tempia destra, per poi far ricadere la mano verso il suolo, sporca di sangue. Il mio sangue. Allora ricordai a frammenti che non ero sola in quella che un tempo era stata una macchina, e in quel momento, invece, non era altro che un ammasso informe di rottami. Non riuscii a guardarmi in giro per molto, perché il dolore alla testa era troppo forte.
Probabilmente morirò, me lo sento.
Incominciai a concentrarmi su cosa stava succedendo intorno a me, tentai di aprire di più gli occhi, che sentivo gonfi, troppo gonfi, e comunque non riuscivo a vederci nitidamente. Udii rumori assordanti provenire da ogni lato, non capivo se a destra, o sinistra, o sopra; percepii tocchi e movimenti di persone – forse angeli – che tentavano di riportarmi alla luce. Erano soccorritori del primo soccorso, intuii grazie alle tute rosse e bianche catarifrangenti che indossavano, probabilmente arrivati a sirene spiegate poco prima, e circondati da luci blu e illuminati da fari bianchi e accecanti. Sembrava di essere in paradiso e contemporaneamente all’inferno.
Gli angeli – come li soprannominai – mi aiutarono a muovermi e mi sfilarono pian piano dall’abitacolo della vettura ( o meglio, di ciò che ne restava), e notai un mormorio sorpreso e preoccupato al tempo stesso, ma non capii se stavano parlando di me.
Non capivo molto, in quel frangente. Arrivai però ad una conclusione, che ero grata a Dio di aver salva la vita. In quell’ammasso di rottami fumanti fui l’unica ad essere stata estratta viva. Un ragazzo vestito di rosso continuava a sussurrarmi parole calme, serene, quasi piccole preghiere, dandomi ogni tanto anche dei piccoli tocchi alla spalla, mentre mi avevano caricata su una barella pronta per essere trasportata urgentemente al pronto soccorso più vicino con un’ambulanza. Non ricordo i lineamenti, i tratti fisici di quel ragazzo; non memorizzai purtroppo il nome, né qualsiasi altra informazione utile. Anzi, probabilmente non capii nulla di ciò che mi aveva detto per tutto quel tempo, era come se mi sentissi su una trave alta 10 mila metri, pronta a eseguire la figura dell’angelo, sospesa nel vuoto, un baratro infinito; se fossi caduta, non sarei sopravvissuta. Ma c’erano molte persone che sussurravano e mantenevano viva quella poca attenzione che ancora riuscivo ad avere, e soprattutto quel ragazzo che cercava di mantenermi sveglia.
Sentivo intanto dolori allucinanti lungo tutto il corpo – probabilmente mi stavano bloccando sulla barella - e capii che dovevo resistere ancora per un po’, quando qualcuno mi allacciò un collare rigido per far sì che la mia testa non fosse sbalzata di qua e di la nel trasporto verso la salvezza.
A tratti sentii come se fossi sul punto di svenire, ma cercavo di tenere duro, affidandomi al ragazzo che continuava a sussurrare parole o nenie e ad una signora che dal tono di voce doveva essere più matura, che continuava a farmi domande incomprensibili, ad armeggiare con strani e orribili strumenti per poi scrivere o annotare qualcosa su una specie di quaderno o blocco che reggeva sulle gambe. Ebbi una strana sensazione, tra il dolore puro, fisico e il piacere, l’essere felice di aver vicino delle persone preoccupate per me.
Purtroppo andare in ambulanza a cento chilometri orari non fu una bella esperienza da quel poco che mi posso ricordare. So solo che ebbi un moto di vomito improvviso, e mi trattenni per un pò, ma alla fine non riuscii ad essere forte.
Non ero coraggiosa per niente, eppure ero circondata da angeli: loro mi dettero la forza di resistere e di sopravvivere fino a quando, stanca, spossata, sofferente e dolorante, non crollai e vidi completamente nero.
Mi svegliai dopo quello che mi sembrò un’eternità, rintontita, come se fossi stata sulle montagne russe di un parco divertimenti per circa un intero pomeriggio; cercai di muovermi e in effetti, riuscii a muovere solo la testa, verso destra.
Vidi tutto bianco, pareti bianche, persone vestite di bianco.
Feci mente locale per capire dove potevo essere, e ad un certo punto mi venne in mente che forse ero in ospedale; ero stata trasportata lì dopo l’incidente.
L’incidente!
Tentai di riportare alla mente i ricordi di quel bruttissimo momento, ma non ci riuscii; mi sentivo la testa che girava, che martellava. Un’emicrania fortissima, come se qualcuno mi avesse dato una bastonata direttamente in testa, e allora ricordai... sangue.
Incidente. Angeli. Ambulanza. Rottami.
Feci due più due.
Ero viva.
Improvvisamente vidi entrare a passi calmi, fluttuanti, quasi come se camminasse su un materassino gonfiabile – pensai di essere completamente rintronata a quel punto – una donna dai capelli biondo cenere, molto giovane, e sorrideva. Ricambiai leggermente il sorriso, ma riuscii a malapena ad accennarlo; mi sentivo le labbra gonfie come se mi avesse punto un insetto; deglutii piano, perché mi faceva male persino respirare – mi accorsi che avevo il respiratore d’ossigeno nelle narici del naso – e sentii un sapore metallico, forte, acidulo, ma saporito in bocca.
Sangue.
La donna arrivò vicina al mio letto, mi salutò con un cenno, ma io non ero lucida, per niente. Lei mi disse con calma vicina al mio orecchio, quasi come se fosse un sussurro, non preoccuparti, sei viva, ti abbiamo salvato. Si, salvato... La donna angelo che avevo visto a frammenti quando mi avevano estratta dai rottami della macchina era lei?
Non riuscivo a distinguere bene i suoi lineamenti, gli occhi pungevano e lacrimavano copiosamente. La donna mise una mano calda sul mio braccio fasciato e pieno di cerotti e in quel preciso istante mi sembrò come se mi avesse iniettato nella flebo, al posto di varie sostanze trasparenti, un siero per la tranquillità e la pace. Mi sentii meglio, volevo parlare, ma non vi riuscii. Tuttavia tentai di aguzzare le orecchie cercando di ascoltare o meglio, afferrare più parole possibili che la donna mi poneva. Volevo chiederle molte cose, per esempio.... Non mi ricordavo.
Una sensazione di panico mi avvolse.
Non ricordavo assolutamente nulla di tutto ciò che era precedente all’impatto. Quando la donna vide che mi stavo agitando a letto, e non dovevo assolutamente muovermi, mi pose il palmo della sua mano calda sulla fronte, cercando di infondermi ancora un po’ di pace, poi mi sussurrò non preoccuparti, ci siamo noi. Sei salva. Ma non era quello che volevo sapere....
Mi sentii confusa, non riuscivo a parlare, non emettevo suoni, non riuscivo a muovere un dannato muscolo, un dito, nulla.
Ero ferma, sdraiata inerme su un letto d’ospedale, con chissà quali ferite sul corpo. Ma quello che mi spaventava era il non ricordarmi assolutamente nulla dell’incidente e di tutto quello che era avvenuto prima.
Mi accoccolai ormai esausta e assuefatta dal panico sul lenzuolo, morbido, fresco, che sapeva di disinfettante; chiusi gli occhi per un minuto, credo, poi mi rigirai verso destra, per incontrare gli occhi della donna, ma.... non c’era più nessuno. Come era entrata molto silenziosamente e con calma poco prima nella stanza, ora se n’era andata altrettanto silenziosamente.
Non so quanti giorni passarono da quel momento, forse un paio, o forse di più. Quando mi svegliai, l’emicrania si era attenuata, non guarita, ma almeno riuscivo a capire qualcosa di più; potevo girare la testa a destra e a sinistra, sentendo un dolore molto più affievolito a quello provato in quel terribile momento; potevo guardare intorno più nitidamente con gli occhi, anche se bruciavano ancora, e potevo udire ciò che mi veniva detto.
Ovviamente vicino a me, nessuno.
Nella stanza c’ero solo io, un letto, un’asta per le flebo, un piccolo tavolinetto con delle medicine, e un comodino con armadio annesso, dove erano poggiate delle bende, un bicchiere con dell’acqua e poche altre cose, che al momento risultavano a me inutili.
Sentii il vociare proveniente dai corridoi, ma la mia stanza era chiusa, quindi provai a schiacciare il pulsante rosso di una specie di interfono a muro vicino al cuscino per chiamare qualcuno. Arrivò presto un’infermiera che mi guardò con apprensione, poi prese il misuratore della pressione sanguigna e lo stetoscopio, e infine, dopo aver accertato che la mia situazione non era gravissima, mi sorrise. Andò verso il corridoio e chiamò un dottore ad alta voce; quello arrivò a passo veloce e quando mi vide con gli occhi aperti, che respiravo in maniera regolare, e che sembravo lucida a livello mentale, mi sorrise come aveva fatto l’infermiera. Mi salutò – come se a me importasse il saluto – e mi chiese se stavo bene, così da potermi parlare.
Annuii e lui, con voce calma, non molto alta, mi disse: « Signorina Lovebell, sono contento che lei stia bene. Se continua così si rimetterà presto. Sicuramente vorrà sapere cosa le abbiamo fatto. Bene, dunque, deve sapere che è arrivata con un’emorragia interna in corso, e un grave trauma cranico. La commozione cerebrale probabilmente è dovuta all’impatto, che non è stato lieve, anzi. Per l’emorragia, non si preoccupi, abbiamo risolto tutto, con un’operazione urgente. Ora è fuori pericolo e si sta rimettendo in sesto molto velocemente, da quello che posso vedere sulla sua cartella medica».
Vedendo la mia espressione rasserenata, continuò: «Le dico un’altra cosa, e per questo deve essere comprensiva, pazientare e vedrà che tutto si risolverà. Se per caso lei non si ricorda di ciò che è avvenuto dal momento dell’incidente a ritroso, è una cosa normale. Lei sta soffrendo di amnesia temporanea, una conseguenza frequente in casi di trauma cranico grave. Le ripeto, non è grave, se siamo fortunati nel giro di poco tempo, la memoria ritornerà».
Dovetti trattenere la mia frustrazione in quel momento, stringendo fortissimo le lenzuola con le dita della mano che potevo muovere. Il dottore mi garantì, prima di andarsene, che tutto sarebbe migliorato, e infatti così fu.
Da quel momento, fu tutto un percorso in salita. Ma nel cuore continuavo a portare un senso di nostalgia, di preoccupazione, di ansia, non riuscivo ancora con precisione a definirlo. Volevo riportare alla mente i ricordi dell’incidente, ma non ci riuscivo. Cercai allo stesso tempo di rievocare quegli angeli che mi avevano salvata, ma anche in quel caso, niente.
Allora mi sentii completamente sola, non sapevo se avevo una famiglia, degli amici, se studiavo o lavoravo, non sapevo dove abitavo, nulla.
Desiderai solamente recuperare la memoria al più presto.
CAPITOLO 1
Oggi
«Sophia, come puoi permetterti questo vestito elegante? Guadagni così tanto a lavorare nel reparto catering?» domando con un ghigno sorridente alla mia migliore amica nonché coinquilina, Sophia Goodkind.
L’ho sempre invidiata, è una bellissima ragazza, dai capelli color rosso fuoco, corti e lisci, ha dei fantastici e magnetici occhi verdi che attirano lo sguardo di tutti i ragazzi, e una bocca piena rosea. Con la sua forma longilinea e magra, sembra una modella uscita da una rivista patinata di moda.
Devo ricordarmi di comprarle Vogue, penso – visto che è la sua rivista preferita, se non passo in edicola a comprarla ogni settimana, sarebbe capace di togliermi il saluto, visto la sua testardaggine e la sua grinta e determinatezza.
Io invece non credo proprio di essere una modella anzi, mi pare di essere una semplice ragazza acqua e sapone, uscita dal bagno di prima mattina, con i capelli castani molto lunghi, con la frangia che non sta mai al suo posto, e ogni giorno di forma diversa, a volte sono mossi, a volte sono lisci.
Credo sia in parte anche dipeso dal mio umore, a volte mi alzo con una incredibile voglia di domare la mia massa di capelli, che diciamocelo francamente, ritengo la parte fisica più bella di me. Se mi tagliassero i capelli, sarei come Sanso