Il canaro: Magliana 1988: storia di una vendetta
By Luca Moretti
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Il canaro - Luca Moretti
TUTTE LE STRADE
33
Il canaro
di Luca Moretti
La riproduzione, la diffusione, la pubblicazione su diversi formati e l’esecuzione di quest’opera, purché a scopi non commerciali e a condizione che venga indicata la fonte e il contesto originario e che si riproduca la stessa licenza, è liberamente consentita e vivamente incoraggiata.
Prima edizione in «Tuttelestrade»: maggio 2018
Prima ristampa: giugno 2018
Prima edizione in e-book: agosto 2018
Design Dario Morgante
Red Star Press
Società cooperativa
Via Lorenzo Bonincontri, 41 – 00147 Roma
www.facebook.com/libriredstar
redstarpress@email.com | www.redstarpress.it
LUCA MORETTI
IL CANARO
MAGLIANA 1988: STORIA DI UNA VENDETTA
REDSTARPRESS
Chissà per quale combinazione chimica l’acqua di quelle pozzanghere, a contatto col grasso delle macchine o forse per un po’ di varecchina versata dalla borsa di plastica di una povera massaia, prendeva le colorazioni più fantasiose, rosse o bluastre, in cui il cielo si specchiava, splendido e sozzo, come un nobile in disgrazia.
Vincenzo Cerami
Ogni riferimento a persone esistenti
o a fatti realmente accaduti è...
CORO DELLA MAGLIANA
ER PUGGILE Incombente come l’aria che spostava, grossolano come il pensiero nelle sue mani.
VALENTINA Il metro di tutte le cose. Mani consumate dal tempo e smaltate di un rosso che la rende ancora bellissima.
BAFFO Un’orribile giacca a quadri e una cravatta dozzinale di quelle che si comprano al mercato. Fuma sigarette del Monopolio, di sangue ne ha visto scorrere a fiumi.
MADRE TORTURA La forza, la determinazione, il dolore. Un piatto di pasta scotta e un figlio che tarda a rientrare.
LA DONNA MAGISTRATO Spessi occhiali scuri, mingherlina ed educata. Più intelligente di tutti gli sbirri di Roma messi insieme.
FABIO IL TOSSICO Un intralcio. Un impiccione che non si fa mai i cazzi suoi. Parla già dopo il primo ceffone.
I FRATELLI AVVOCATI Un’opportunità in quella confusione, in tutta quella cocaina e in quei verbali.
IL MANCINO Ha la bisca in Piazza e regge il picchetto. Incarta la merce nelle giocate della settimana precedente.
DON PIETRO Il Corpo di Cristo dietro la saracinesca arrugginita di un garage.
IL SICILIANO Il corriere che non esiste.
IL PROFESSORE Non insegna più in carcere, è diventato Preside in un liceo.
SHELLY Femmina di schnauzer, muore soffocata durante la notte.
IL GIUDICE Un ex deputato missino. Conosce il senso del piombo e della morte.
1.
Qualcosa che nessuno
Le chiamano ottobrate romane
, quei giorni in cui l’autunno fatica a impossessarsi della Città Eterna e una nebbia leggera si alza dal Tevere cedendo a un sole mite, pronto a riscaldare l’affaccio di un Papa stanco, giunto alla fine dei suoi giorni.
Dimenticate il mio nome. Non avevo altro in mente.
Anche io lo avevo dimenticato: 4931410, da anni ormai mi identificavo con una matricola di sette cifre.
Indossai la maglia e i jeans che Valentina mi aveva fatto recapitare alcuni giorni prima. Mi stavano stretti, la reclusione ingrassa l’uomo mite. Con grande stupore mi vennero riconsegnati gli occhiali da sole e la collana d’oro. Avevo dimenticato anche quegli oggetti.
Non salutai i miei compagni ma solo il Professore, mi venne incontro lasciando per alcuni minuti la sua lezione. Lo abbracciai come si abbraccia un padre prima di un lungo viaggio.
Non avrei più parlato con nessuno, volevo essere dimenticato, mi avviavo verso l’uscita in compagnia del secondino e pensavo a questo. Ci sono persone che oggi meritano il mio rispetto, per loro taccio. Mi hanno anche offerto dei soldi per raccontare la mia storia, trasmissioni, approfondimenti, un film. Ho sempre rifiutato. So che ogni mia parola torna ad aprire una ferita. C’è la mia famiglia, c’è Valentina e lei, mia figlia. Loro hanno diritto di vivere senza quel peso che come un macigno mi accompagna da anni.
Eppure queste parole rimangono qui, immutate, si rincorrono da anni nel buio angusto di una cella, tra letti a castello, atti processuali e ritagli di giornale.
C’è stata solo una costante in tutti questi anni: la scrittura. È stata la mia ossessione, l’ossessione di queste mani stanche e mai appagate di significato. Su queste pagine ho cercato un significato, un senso.
La grande cancellata blu cigolò a lungo prima di aprirsi completamente: trasudava piccole gocce quasi avesse un’anima. Attesi un po’ prima di avviarmi oltre la linea, senza guardare, voltandomi immediatamente all’indietro.
Si possono ammirare i fregi di una confezione solo osservandoli dall’esterno, quando non vi si è contenuti. Casa Circondariale Maschile Nuovo Complesso
. La cancellata si chiuse e in quell’esatto momento mi voltai.
Feci fatica a mettere a fuoco, le gambe tremanti raggiunsi la strada. Una lunga fila di macchine era incolonnata e attendeva il verde di un semaforo lontano, guardai oltre la carreggiata e incontrai i miei stessi occhi.
Era morto in quel riflesso, nel momento in cui mi aveva schiaffeggiato e lei ci osservava piangendo. In quel momento tutto si era deciso, tutto aveva trovato una soluzione, un termine.
La borsa che avevo con me cadde a terra, continuai a osservare il mondo attraverso quegli occhiali fuori moda.
Vale si stringeva in un cappotto nero, aveva le guance incavate e l’aria stanca, nei colloqui non mi ero accorto di quanto fosse invecchiata. Aveva i capelli neri, fissi in un’acconciatura fresca di parrucchiere, fumava nervosa mostrando mani sofferte ma perfettamente smaltate di rosso.
E poi lei: mi veniva incontro con un grosso cane al guinzaglio. Vale mi sorrise e fu allora che trovai la forza di avvicinarmi.
Tornai a guardare quegli occhi valutandone l’età e l’aspetto, riuscii a interpretare solo il labiale delle prime parole di mia moglie: «È tua figlia».
Non la vedevo da circa sedici anni, non era mai venuta a trovarmi e io, come una penitenza dovuta, non avevo chiesto. Come per preservare con un ultimo gesto quella purezza, come a voler attendere un perdono che sapevo non sarebbe mai arrivato.
Un piccolo gruppo intanto si avvicinava, giornalisti giovani con cui non avevo mai avuto a che fare. Non mi ero accorto della loro presenza perché non imbracciavano grandi microfoni o telecamere. Mi aggredirono come si aggrediscono gli agnelli, nel silenzio mite delle ottobrate romane. Dimenticate il mio nome. Dissi solo questo.
Valentina mi trascinò a bordo di una Renault 4 rossa e mise in moto mentre il cane abbaiava verso i giornalisti che avevano circondato l’auto.
Iniziò così il mio viaggio verso la nuova vita, in silenzio, esule in una città che non sembrava più la stessa. Pensai al mio nuovo lavoro di fattorino e all’indomani, al diritto all’oblio, a essere dimenticato, da tutti, per sempre.
Libero, dall’alba al tramonto, un avanzo di vita condito di colloqui con un povero assistente sociale. La notte sarei dovuto rimanere a casa, io che amavo la notte di quella città, le sue luci. Non avrei potuto frequentare luoghi di ritrovo, in particolare osterie e bische. Mi tornò alla mente il Mancino, chissà se era ancora vivo, chissà se esisteva ancora il picchetto e la merce incartata con le giocate della settimana precedente. Anche quel vizio era scomparso insieme al mio nome e l’uomo senza vizi è come un cane senza denti.
Così mi sentivo: un cane senza denti. Per la prima volta dopo tanti anni avevo paura, una paura diversa da quella che si prova dentro, dove i pericoli e gli avvenimenti possono diventare un diversivo e una salvezza. Provavo la paura dell’uomo libero, quella di colui al quale può capitare di tutto, al quale la libertà può essere nuovamente negata. A me era già successo.
Era impossibile contare le macchine incolonnate sulla Tiburtina, ma quella presenza, la marcia lenta, mi confortarono, come se mi sentissi cadere nel vuoto osservando il traffico dal parabrezza.
Case in costruzione, cantieri ovunque: via dei Monti Tiburtini, via di Pietralata, la R4 imboccò la Tangenziale verso nord mentre Vale accendeva la radio per sanare quel silenzio che era divenuto imbarazzante.
Lei sedeva dietro con il cane, digitava nervosa su un telefono cellulare più piccolo di un pacchetto di sigarette, mi chiedevo cosa stesse facendo, cosa poteva portarla lontana da quell’abitacolo così pieno di pensieri.
Alcuni pullman percorrevano la Tangenziale nel verso opposto, scorsi delle bandiere e subito la radio venne ad aiutare la mia immaginazione. Sindacati, docenti, studenti, ricercatori, persino Guarini, Magnifico Rettore della Sapienza, s’erano dati tutti appuntamento alle undici in punto per un sit in a Montecitorio contro il nuovo decreto sulla scuola. Invidiai un po’ la serenità di quelle bandiere, la consapevolezza di poter ancora lottare per un motivo. Uno qualunque.
Presto però il pensiero tornò ai pacchi, all’indomani, a quella città che di nuovo mi avrebbe inghiottito, al lavoro di fattorino.
L’auto oltrepassò il Tevere, le aquile di Ponte Flaminio erano lì, immobili, anime di marmo in una pellicola di serie B sull’epoca nazista: Corso Francia, la Camilluccia, Pineta Sacchetti, il Quartaccio. Quanto tempo era passato?
Un quartiere popolare e una nuova casa, un nuovo luogo per ricominciare, per dimenticare quello che non si può, per rincorrere la serenità corrotta dal sangue.
Grazie Valentina.
La R4 si arrampicava sulle strade dissestate e deformate dalle radici del Quartaccio,