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Futuro invisibile
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Futuro invisibile

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Fantascienza - romanzo (595 pagine) - Dal giorno alla notte la popolazione di un'intera cittadina sparisce nel nulla. Un poliziotto corrotto cerca risposte, ma si troverà di fronte qualcosa più grande di lui. - Romanzo vincitore del Premio Odissea 2018


Il futuro invisibile è quello dell’Italia del presente prossimo: erosa dalle crisi economiche, fiaccata dalla mancanza di lavoro e soprattutto di prospettive. Nessuna apocalisse è arrivata, a meno che, come si legge sui muri, l’apocalisse non accada “ogni giorno in cui non succede nulla”. E un giorno qualcosa succede. Nel giro di 24 ore Cafrissa, una piccola cittadina a sud di Roma, scompare nel nulla. Antonio Mana, commissario di polizia corrotto e crudele sta cercando risposte ma non per motivi professionali. Lorenzo invece si trova  proprio al centro di quell’evento ma vorrebbe solo  tornarsene a casa e dimenticare tutto. Entrambi i protagonisti, opposti come la notte e il giorno, intraprenderanno un viaggio spiraliforme che li cambierà per sempre, conducendoli al cuore del mistero della città scomparsa e agli artefici del più grande gioco di prestigio della storia. Si fanno chiamare Invisibili. Hanno imparato a muoversi tra le pieghe della società civile come fantasmi, abitando le aree abbandonate del territorio reale ed esplorando nuove zone di quello mentale. Cafrissa è il loro numero di magia, ma è solo il primo.


Emanuele Boccianti è traduttore editoriale freelance. In passato è stato chef, editor, ghost writer,  copywriter, redattore della rivista online di critica cinematografica Offscreen e ha sceneggiato due cortometraggi. Ha scritto il memoir Trecento piccolissime mani (Lorusso Editore, 2013) e con Sabrina Ramacci il saggio Italia giallo e nera (Newton Compton, 2013).

Luca Persiani si occupa come freelance di traduzione ed edizione di sottotitoli per il cinema e la tv. È inoltre lettore presso M2 Pictures e sceneggiatore (Il commissario De Luca, Age3/RAI fiction). È stato lettore e script-editor in-house per Ager3, critico cinematografico e redattore per diverse testate web (fra cui il portale nexta.com e offscreen.it).

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateSep 25, 2018
ISBN9788825406689
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    Futuro invisibile - Emanuele Boccianti

    offscreen.it).

    Questo libro è dedicato a Manuela, a Sabrina

    e a tutti coloro che nessuno vede.

    La magia non è altro che l'arte di impiegare consapevolmente

    mezzi invisibili per produrre effetti visibili.

    Volontà, amore, immaginazione sono poteri magici che chiunque possiede;

    e chi sa come svilupparli appieno è un mago.

    La magia ha un solo dogma, ovvero che il visibile è la misura dell'invisibile.

    William Somerset Maugham

    Non usare il denaro.

    Non guardare la televisione.

    Non utilizzare internet per comunicare.

    L’informazione è libera, non gratuita: un’informazione ottenuta con fatica zero produce uno squilibrio.

    Più la tecnologia è potente, più ti indebolisce quando la usi.

    Muoviti a piedi, evita i motori: rafforzerai il corpo e il rapporto con l’ambiente.

    Comunica il più possibile solo a voce, interagisci solamente dal vivo con le persone: potenzierai la tua memoria e le tue capacità relazionali.

    Considera ogni persona una risorsa fondamentale, al pari di te stesso.

    Smetti di idolatrare cose o persone.

    Impara a non avere bisogno di un capo, solo di regole.

    Non considerare mai niente un dogma assoluto, neppure questi principi.

    Gli undici principi, così come sono apparsi per la prima volta sui muri delle strade di Istanbul nel 2020.

    Capitolo 1

    1.1 – Iperreality

    Per Antonio Mana il Giorno era un nemico e come tale andava affrontato. Il suo esercito contava pochi ma spietati soldati, ognuno dei quali richiedeva specifiche strategie. Il Mattino era l’avanguardia che arrivava sempre di sorpresa, subdolo con le sue false promesse di novità e di vigore. Si poteva far finta di credere a quelle promesse, simulare ottimismo e produttività, ma al solo fine di creare sufficiente abbrivo da arrivare al confronto con le truppe del Pomeriggio. A quel punto la fase degli infingimenti cominciava a volgere al termine; il Giorno si preparava a mostrare le sue vere sembianze, col Pomeriggio che aspettava al varco dopo che la Mattina aveva spremuto via tutta la freschezza dalle membra e dalla testa di Mana. Il centro esatto del Giorno era una palude, un vertice rovesciato di sabbie mobili capace di risucchiare tutto: speranze, emozioni, prospettive, soprattutto quelle. Dal Pomeriggio la visuale era distorta e il termine del conflitto, l’arrivo dell’oblio finale, appariva oltre l’orizzonte, fuori portata. Da lì il Giorno sembrava un incubo senza tempo e quindi senza fine.

    Il Crepuscolo, che Mana stava per affrontare adesso, era la ritirata in salita dopo la battaglia campale del lavoro. Il momento in cui si fa la conta delle ferite subite e quelle inferte – le ultime immancabilmente inferiori. Anche il Crepuscolo portava con sé un inganno, quello del torturatore che si ferma un momento per far riprendere fiato alla sua vittima, la pausa che questa scambia per umanità quando invece è solo ponderata amministrazione dell’agonia. In quel momento la stanchezza che Mana avvertiva si rivelava come intossicazione. Erano gli effetti del veleno che il Giorno gli iniettava in corpo sin dal primo minuto, e che cominciavano a farsi sentire con la fuga del sole. Un subdolo trucco per garantirsi la vittoria, sempre. Mana lo sapeva: era una guerra segreta che mai avrebbe potuto vincere. Ogni giornata era una dose di veleno letale, e qualsiasi speranza di vittoria se n’era andata da molto tempo. Forse non c’era mai stata.

    Imboccò il viale su cui pioveva la luce storta del Crepuscolo e rallentò avvicinandosi ai dissuasori disseminati lungo la strada. Arrivato al gabbiotto della sorveglianza frenò e mise in folle, attendendo con malcelata impazienza.

    – Buonasera, commissario – lo salutò la guardia giurata dalla finestrella. Aveva i capelli tagliati a zero sulle tempie e a spazzola in cima alla zucca; occhiali Killer Loop a fascia gli nascondevano parte del viso come una maschera di Zorro; un sorriso scemo ma autenticamente gioviale attraversava la faccia carnosa da ragazzone ipernutrito, condita da un folto paio di basette. José impersonava il primo approccio con il concetto di sicurezza che vigeva da quelle parti.

    Sicurezza, pensò Mana con un moto di disgusto. L’apparato di security complessivo incideva per oltre il venti percento sul canone da lui versato ogni mese alla Revest per risiedere a Newropa. Un enclave fortificato per ricchi alle porte nord di Roma, uno dei pochi posti rimasti dove di notte ci si poteva dimenticare le finestre aperte senza alcun pericolo di ritrovarsi i ladri in casa. Gated communities, le chiamavano. Stavano spuntando un po’ ovunque intorno alle grandi città. La gente si sentiva il terreno molle sotto i piedi, voleva più tutele contro la follia dilagante, e questo faceva felici i nuovi palazzinari, quelli che costruivano comprensori blindati per dare l’illusione di essere al sicuro dal mondo che stava crollando. Mana sapeva come stavano le cose. Il canone non pagava alcuna illusione, per quel che lo riguardava, solo il lusso di non avere rotture di coglioni. Dentro quei quartieri-fortezza il concetto di vicinato non esisteva. Nessuno familiarizzava mai con nessuno, mai una cinquantenne con la tuta sformata e i capelli a forma di rovo che si presentasse all’uscio e una tazza da riempire di zucchero. Non era il paradiso, ma a volte solo per questo lusso lo sembrava.

    – Stavolta ci hai preso, José, è proprio una bella serata.

    José annuì allegro. Manovrò un interruttore e la sbarra si alzò lentamente, poi la guardia appoggiò con noncuranza il braccio destro sul davanzale della finestra, flettendo un bicipite sproporzionato a esclusivo beneficio di Mana. Che rabbrividì mentalmente.

    Potrei buttarlo giù con uno scaracchio.

    – Allora, quando la facciamo questa sfida? – gli chiese, sfoderando un sorriso pieno di canini.

    – No, commissario, lo sa che non si può.

    – Non si può! José, che vuol dire che non si può? È semplice. Domani arrivo qui, entro in guardiola, ci sediamo al tavolino e ti spezzo il polso. Quanto ci vorrà? Mezzo minuto? Un minuto al massimo. Non se ne accorgerà nessuno.

    – Mi spiace, boss, come lo spiego poi alla direzione il polso rotto? Mio o suo che sia, ci sarà comunque un polso rotto da spiegare, no?

    Mana finse indignazione. – Mio caro, c’era un tempo in cui a nessuno sarebbe mai venuto in mente di impedire una sfida a braccio di ferro tra due gentiluomini. Ciao, José, muscoli sempre tesi, mi raccomando.

    L’altro ghignò e fece il saluto militare. – Benvenuto a Newropa!

    Newropa. Marchio registrato dalla Revest, multinazionale lussemburghese specializzata in gated communities. Vivere in quel carcere volontario per ricchi costava a Mana quasi due terzi del suo stipendio, ma continuava a dirsi che ne valeva la pena. Non era per i doppi muri di cinta alti cinque metri, o il sistema di telecamere a circuito chiuso, onnipresenti lungo i viali e il perimetro esterno, né la rete di sensori ambientali controllati da una sala centrale, né tantomeno i gorilla depilati con la mano sempre sulla pistola per ricordarsi di averla. No, era solo per la delizia provocata dalla sensazione di essere lontano da tutto il caos e da tutti quelli che si davano da fare ogni giorno per farlo fermentare sempre di più. Gente con cui lui non poteva fare a meno di relazionarsi per la maggior parte del Fottutissimo Giorno, dato il mestiere che faceva. Che almeno nel momento più critico potesse starsene per i fatti suoi, in una bolla di quiete artificiale sigillata con elettronica e cemento: questo era quello che chiedeva da una casa. Una cosa del genere potevano assicurarla solo compagnie come la Revest, al costo di quasi duemila euro mensili.

    Quella sera, notò il poliziotto, sembrava esserci ancora meno gente del solito tra i vialetti e le aiuole, così ben curate da sembrare finte. Poi si ricordò dei titoli dei giornali e comprese. Erano tutti dentro casa, attaccati ai loro schermi, catturati dall’ennesimo iperreality show. Stavolta però produttori ed editori avevano esagerato. Il principio degli iperreality era proprio quello, sfaldare il confine tra fatto reale e spettacolo in modo da riuscire a sorprendere ogni volta il pubblico, a qualsiasi costo. Solo che l’ultima trovata sembrava una questione di emergenza nazionale. Avevano messo in scena addirittura la scomparsa di un’intera città.

    1.2 – Mosaico

    Entrò in casa come in un social network: eseguendo il log in. Strisciò la carta microchippata e si fece leggere la retina; le luci si accesero e i doppi vetri blindati si polarizzarono.

    Fece partire il Cambridge Audio in salotto e Django Reinhardt attaccò la sua Oh lady be good mentre lui si spogliava completamente ed entrava nella doccia, dove l’acqua caldissima già scrosciava. Quando uscì dalla cabina, venti minuti dopo, nell’aria stavano fluttuando le note di Swanne river, segno che tra poco il vinile avrebbe smesso di girare.

    Il Crepuscolo era già passato, l’attacco ora passava nelle mani della Sera, una bestia malevola e tenace, dal pelo lurido e dai denti arrugginiti. Ma per il penultimo alfiere del Giorno il commissario Antonio Mana aveva pronte altre armi. Una di queste si chiamava Jack Daniel’s. L’altra, che lo aspettava dopo una cena a base di scatolame e microonde, era la marijuana portata via dal magazzino dei referti del commissariato di Velletri. Una varietà di assoluto rispetto, considerato caviale dal sottobosco di morti viventi a cui Mana dava la caccia ogni giorno. L’aveva recuperata nel garage di un pirata informatico. Uno di quelli pagati dalle bande russe per craccare sistemi operativi, bypassare le protezioni di Blu-ray e videogiochi per il mercato illegale. Prima della ginocchiata nei genitali, quel tipo era solo un consulente che sviluppava algoritmi per software di machine learning; dopo, aveva ammesso di essere un hacker. Quando poi la testa di Mana era scivolata sul suo setto nasale, il giovanotto lo aveva accompagnato insieme ai suoi uomini in garage e, in lacrime, aveva tirato fuori tutto: hard disk e due buste di erba. Dalle quali, in seguito, il commissario aveva fatto un consistente prelievo.

    Accese la canna, distese le gambe sul tavolino e accavallò i piedi, affondando nella poltrona sacco del salotto. Come un insetto iniziò a tessere il suo bozzolo vaporoso, spirali morbide che deflagravano gentilmente lungo le autostrade neurali, creando una coltre di contromisure chimiche per tenere a bada la bestia dai denti a rasoio che premeva per violare il suo rifugio. Tra qualche ora sarebbe arrivato il Generale Notte. Ne aveva anche per lui.

    Alla settima boccata si alzò con una certa fatica e inserì nel lettore CD Geistliche Chormusik, del compositore barocco Heinrich Schütz, pregustando il momento imminente in cui i suoi pensieri avrebbero iniziato a liquefarsi. Quello era l’unico periodo della giornata che a Mana davvero interessava vivere, tutto il resto erano freddi detriti in cui bisognava scavare prima di arrivare all’unica vera pepita. Lo stato che chiamava la mente mosaico.

    Le voci ultraterrene del Collegium Vocale Gent & Philippe Herreweghe irrorarono l’aria viziata dell’appartamento, traghettando il commissario verso spazi inesplorati dentro di sé.

    Die mit Tränen säen, werden mit Freuden ernten.

    Sie gehen hin und weinen, und tragen edlen Samen,

    und kommen mit Freuden und bringen ihre Garben.

    Chiuse gli occhi e uno dopo l’altro spense tutti i muscoli del suo corpo, finché fu un nuotatore che fa il morto a galla, trascinato dalle correnti. Dopo un po’ accadde. Tutte le paratie stagne nella sua testa stavano lentamente aprendosi, ogni compartimento cominciava a collegarsi agli altri. Tutto comunicava con tutto, nell’immensa configurazione dei suoi circuiti neurali. I pensieri diventavano tasselli mobili di un vasto mosaico, non più staccati e distanti l’uno dall’altro. Si raccoglievano attorno a un centro. Questa era la sensazione che cercava. In quei momenti ogni pensiero sembrava connesso agli altri, e stimolarne uno significava creare delle correnti elettriche che andavano a toccarne dieci, cento diversi, secondo circuiti completamente nuovi. Da lucido, questa iperconnessione era impossibile: solo percorsi standard. Ma i percorsi standard sono il modo in cui funziona una testa normale. Mana aveva bisogno di pensare in maniera non normale, e col tempo aveva imparato a farlo. Per questo fumava. Non per dimenticare le proprie miserie, convincendosi per un attimo di aver vinto la guerra contro il Giorno. Pensare una cosa del genere era da deboli, da illusi, da larve umane fallite. Quelli erano i veri tossici, che lui odiava e a cui dava la caccia.

    Usando questa strategia segreta, il commissario aveva afferrato pensieri e problemi per impugnature che non credeva potessero esistere. Li aveva riportati nella nerissima lavagna della sua mente, manipolati finché non aveva trovato una via d’accesso e infine ci si era infilato dentro con la determinazione di un violentatore, stuprandoli con la sua intelligenza dopata. Aveva risolto più di un caso con questa tecnica, cosa che gli aveva permesso di sopravvivere all’odio appena dissimulato che colleghi e superiori provavano per lui, e perfino di fare carriera. Tra la polizia romana era famoso per due cose. La sua ferocia e le sue capacità intuitive, e solo queste ultime avevano fatto sì che la prima non desse luogo a commissioni d’inchiesta e licenziamento con disonore.

    Fuori, la furia della Sera imperversava, ma dentro Mana era al sicuro, e adesso finalmente poteva lavorare.

    Visualizzò la lettera come se l’avesse avuta davanti agli occhi. Dopo quattro giorni la conosceva a memoria, parola per parola. Non aveva mai ricevuto una lettera minatoria in vita sua. E mai avrebbe pensato di riceverla proprio là, a Newropa. Eppure una sera della settimana precedente se l’era trovata sul parabrezza della Honda Civic. Il sensore di movimento del garage non era scattato. Ricreò la scena. Le sue mani che la raccoglievano. La sorpresa nel leggere che l’autore del biglietto si firmava con un insolito nome femminile. A poco a poco lasciò che quel nome, quell’immagine e quell’emozione gli sorvolassero la mente in totale libertà. Non doveva imprimere alcuna direzione, limitandosi a rilassare il cervello proprio come aveva spento l’interruttore di tutti gli altri muscoli del corpo.

    Per un po’ fu convinto di essersi addormentato. I pensieri erano via via diventati più leggeri, come quando ci si approssima al sonno. Pensieri di cui perdeva traccia un attimo dopo averli formulati. Ma poi, con la spontanea naturalezza del sogno, gli si era acceso in testa un ricordo casuale, che, invece di evaporare subito dopo, si era sedimentato, calcificandosi come una concrezione mnemonica. Mana ci si accomodò dentro.

    Un centro sociale sulla Tiburtina, quattro settimane prima. La retata. Il puzzo della paura, l’acida secrezione dell’anarchia di quei mezzi animali che infestavano edifici pubblici trascurati. Come scolopendre. Gente che non si lavava. Gente che si drogava non per restare dignitosamente in piedi di fronte all’armata del Giorno, ma per rendere accettabile la propria resa. Parassiti. Batteri putrefattivi. Come Karl Roering.

    Karl Roering, detto Kasse dagli altri stronzi che si sentivano suoi amici, era una testa calda. Aveva cominciato a lamentarsi appena portato in questura, a minacciare denunce in italiano stentato, parlando di consolati, di soprusi delle forze dell’ordine. Sempre più agitato, alla fine aveva sputato in faccia al povero Segre, che era rimasto imbambolato, incapace di credere che la sua giornata gli stesse riservando quel dono viscido e infetto. Era stato come un segnale. La squadra messa su con tanta dedizione da Mana, selezionando i più problematici degli agenti del suo commissariato, attaccò come un sol uomo. L’antipasto era stato omaggio dello stesso Segre, subito ripresosi dalla sorpresa: un calcio al basso ventre e una bestemmia. De Simone aveva fatto sibilare nell’aria la sua mano aperta, grossa quanto una pagaia, e lo schiaffo ricevuto in faccia a Roering aveva prodotto un rumore acuto e flaccido. Il verme olandese era finito in ginocchio, e solo lo stop del commissario aveva impedito a un altro agente di avventarglisi addosso.

    Mana si era avvicinato a Kasse e lo aveva aiutato a rimettersi in piedi. Kasse lo guardava, disorientato dal suo sorriso mellifluo. Il poliziotto gli aveva piantato gli occhi addosso, col viso a una manciata di centimetri. – Sei fortunato che siamo in un commissariato e sei sotto la responsabilità della polizia di Stato. Se ci rivediamo fuori di qui, io e i miei ragazzi ti riduciamo a due mucchietti. Da una parte tutta la ciccia, dall’altra tutte le ossa.

    Roering aveva smesso di ansimare e riguadagnato la posizione eretta. Infine aveva tirato fuori una frase in perfetto italiano: – Vigliacco. Se fossimo soli, io e te, senza di loro…

    A quel punto Mana aveva parlato prima di pensare. – Allontanatevi da lui. Subito – aveva detto ai suoi. Poi, con voce pacata, si era rivolto al ragazzo. – Se riesci a mettermi anche solo con un ginocchio a terra sei libero. Straccio io stesso il verbale, ti do la mia parola.

    Kasse aveva pensato a una trappola e sulle prime non ci era cascato. Ma Mana era un sadico raffinato, sapeva sedurre prima di fare male. Aveva detto a De Simone: – Andrè, ammanettami dietro la schiena.

    – Ma commissario…?

    – Fa’ come ti ho detto.

    Pietro Valeri, il più anziano in servizio nella squadra, che non aveva mai smesso di sogghignare, aveva tirato le sue manette a De Simone. – L’hai sentito il commissario. Daje, Andrè, ché mi voglio divertire.

    L’olandese aveva sfidato apertamente Mana, e lui non gli aveva staccato gli occhi di dosso per un attimo. Era un nemico, in qualche modo perfino degno di considerazione.

    La sua voce era stata addirittura suadente. – Io valgo quanto la mia parola. Se questa equivalenza non ti è chiara, ti sto dicendo che se sei capace di colpirmi e mettermi in ginocchio, te ne vai libero di qui, adesso. Mi capisci, olandesino?

    Kasse aveva annuito.

    – Nessuno saprà niente. Allora?

    L’altro si era guardato intorno, come a cercare attendibilità per le parole del commissario nell’espressione dei suoi sottoposti. I quali si erano tirati indietro, in silenzio.

    – Okay – aveva detto in un sussurro.

    Mentre De Simone lo ammanettava dietro le spalle, Mana aveva spiegato: – Puoi colpirmi dove e come vuoi, basta che sia a mani nude. Anche questo ti è chiaro?

    – Sì.

    – Un consiglio per te. Non mirare alle palle. Portiamo la conchiglia. Segre, fagli vedere che non lo sto fregando.

    Segre aveva bussato con le nocche sulla patta di Mana, e il rumore era stato quello del legno.

    – Sentito? Okay, adesso concentrati e fammi male, se ci riesci. Forza, ché qui facciamo notte, e devo pure pisciare.

    Per un po’ non era accaduto nulla. Improvvisamente, Kasse aveva emesso un ringhio stridulo e vibrato un pugno scomposto al mento di Mana, un colpo che lui aveva assorbito piegando la testa e inarcando la schiena all’indietro. L’istante dopo era tornato dritto e si era concesso il tempo di sorridere. Poi entrambe le sue ginocchia erano schizzate verso l’alto come molle supercompresse.

    Con un salto a piedi uniti aveva colpito il mento di Karl Roering, al terzo mese del suo progetto Erasmus in Italia, dove era arrivato per studiare economia. E invece, complice alcune entusiasmanti nuove amicizie, aveva finito per frequentare sempre più assiduamente centri sociali e piccoli gruppi romani di antagonismo politico, appassionandosi alle tematiche dell’attivismo e al manifesto del nuovo partito pirata. Finendo col dimenticare non solo l’università, ma anche Rita, la sua ragazza a Den Haag. Oltre alla politica adesso nella sua testa c’era solo quell’altra donna, giovane, dalla pelle olivastra, che faceva con la bocca cose che Rita non avrebbe mai fatto. Voleva sposarsela, Kasse, quell’italiana. Portarsela in Olanda e magari metter su con lei la sezione cittadina del Partito Pirata.

    Mana aveva disintegrato questa linea narrativa usando le ginocchia. Roering non era alto, e questo gli era costato la vita. Il colpo del commissario infatti – un metro e ottanta su cui si distribuivano perfettamente quasi novanta chili – aveva incontrato il bersaglio proprio quando la sua potenza era nel punto più alto della curva. La mandibola dello studente si era fratturata, un canino e un incisivo erano saltati scontrandosi nel morso, staccandogli la punta della lingua. Kasse era piombato in terra, Mana addosso a lui e poi sopra di lui con le gambe, a premergli il torace. I polmoni del giovane si erano svuotati in un unico gemito, senza poi riuscire a espandersi per il peso del suo aggressore. Tre singulti, tre schiocchi soffocati di una bocca senza aria, poi la cardiopatia dell’olandese aveva fatto il resto. La bocca si era aperta e ne erano fuorusciti sangue, denti e un mozzicone di lingua.

    1.3 – Sanya

    Aprì gli occhi e allungò un braccio, per arrivare al tumbler in cui si stava scaldando un dito del suo sour mash preferito. Il whisky gli bagnò le labbra piacevolmente. Mentre si scrollava la cenere dai peli del torace, ripensò al senso di quanto aveva appena ricevuto in dono dalla mente mosaico.

    In genere le illuminazioni gli arrivavano immediatamente. Un colpo di staffile elettrico lungo il percorso sinaptico appena costruito, per percorrerlo fino in fondo e vedere dove portava. E infatti andò così anche stavolta.

    – Figlia di puttana – rantolò tra i denti.

    Sanya era là quel giorno, al centro sociale. Era finita in questura insieme agli altri falliti, insieme a Roering. Ma era mimetizzata. Una mimesi perfetta che aveva ingannato anche lui. L’aveva completamente dimenticata, fino a quel momento. Una donna piuttosto giovane, né bella né brutta, dimenticabile, appunto. Provò a concentrarsi, ma era dura ricordarsi i dettagli del suo viso, della sua corporatura o del suo abbigliamento. Aveva dato un nome, ma non aveva documenti. Avrebbero dovuto trattenerla, ma c’erano pesci più grossi con cui divertirsi. Più Mana si sforzava di dare colore al ricordo di quella ragazza, più questo gli ritornava grigio e sfocato. Un dettaglio senza valore, un ricciolo scollato di carta da parati, un rumore nella strada.

    La mente mosaico gli aveva fatto recuperare un particolare che sembrava fatto apposta per essere insignificante. Quindi nascondeva qualcosa della massima importanza.

    Era come se quella giovane donna fosse stata capace di nascondersi in piena vista, così efficacemente non solo da non esser notata, al punto di lasciarla andare contro le procedure, ma addirittura da resistere a ogni tentativo di ricordarla.

    – Che magia è mai questa? – disse Mana, con voce caricaturale, sorridendo. In realtà era disorientato.

    Quando squillò il telefono sobbalzò così violentemente che quasi rotolò in terra.

    – Vaffanculo – disse irritato. Il telefono che squillava a quell’ora era un chiaro contrattacco da parte dell’armata del Giorno. Pensò di non rispondere, ma afferrò il cellulare con la strana sensazione che non fosse un caso, quella telefonata, proprio adesso. Per qualche strano motivo, l’effetto della mente mosaico non si limitava alla sua attività cognitiva, ma traboccava nella realtà del mondo esterno. Come se ancora non fosse giunto al termine di quel percorso mentale, e per farlo lui dovesse prendere quella chiamata…

    Era Galdi, il commissario capo. Il suo diretto superiore.

    – Capo. Che succede?

    – Devi venire a Cafrissa.

    – Quando?

    – Ora. Abbiamo trovato un sacco di droghe, qui.

    – Capo, mi scusi, ma non può prendere De Simone e un p…

    – Non mi rompere i coglioni, Antonio, non ci provare neanche, non ti sto mandando la serata a puttane per qualche panetto di hashish. Qui c’è roba strana, non si riesce manco a capire se vada iniettata, fumata o spinta su per il culo. La situazione, poi… non te lo posso neppure dire.

    – Non ho capito.

    – È un casino fottuto, è pieno di gente dei… Mi tocca seguire la procedura alla lettera. Ci manca solo che mi facciano il culo a strisce perché non ho seguito la prassi. Monta in macchina e vola qui. Quando dico vola scherzo, ma di poco.

    – Va bene, ma io che dovrei fare?

    – Farai quello che serve. È una situazione di merda. Un sacco di lavoro palloso per tutti e gloria per nessuno. Ma è per questo che vieni pagato e sopportato. Perché se c’è da fare della manovalanza tu ti arrotoli le maniche come l’ultimo dei portacaffè, senza fare un piega.

    Mana sospirò strizzando gli occhi. – Mi conviene passare per Artena o…

    – Che cazzo dici, Antò, passa da sotto, da Rocca Massima. Ma dove vivi? Oggi perfino in Corea sanno che strada bisogna fare per arrivare in questo schifo di paese.

    – Quella storia non mi interessa. Secondo me è tutta una cazzata, qualche schifo di iperreality.

    – Non dire più stronzate di quante te ne ha prescritte il medico. Dimmi invece che in questo momento mi stai parlando da dentro la macchina.

    – Va bene, sarò là tra diciamo…

    – Troppo – ringhiò il commissario capo. Dopo ci fu solo il fruscio della linea interrotta.

    Mana si portò la mano alla fronte.

    Cafrissa?

    E cosa avrebbe mai potuto aver a che fare quel paese con il suo problema? Non aveva senso.

    Eppure era così che funzionava la mente mosaico. Metteva assieme cose che apparentemente non dovevano starci. Suggeriva nuovi significati, alcuni dei quali si rivelavano poi pertinenti.

    Guardò fuori dalla finestra coi doppi vetri. Era arrivata la Notte. L’ultimo soldato agli ordini del Giorno. Sapeva bene che con la Notte non si può mai vincere. Affrontare quella sconfitta finale ogni giorno era il motivo della disperazione di Antonio Mana e anche della sua forza.

    1.4 – Caffè

    Giunse a Cafrissa che era quasi l’una, per cui la desolazione del posto non gli fece tanto l’effetto. Come altri paesi del genre, anche quello era annunciato da un raggrumarsi di esercizi commerciali – benzinai, alimentari, elettrauto, sigarette elettroniche – lungo la via principale, che era quasi sempre una delle consolari. Per Mana quello era il classico paesaggio da brivido di quasi tutta la provincia italiana colta nel mezzo della sua morte notturna: ampi spazi che a lui suggerivano squallore, noia, desertificazione esistenziale. A completare il quadro desolante, una patina di umidità che diventava acqua polverizzata non appena si posava sul terreno, sull’erba, sulle macchine, e che insieme al freddo pungente faceva venire una gran voglia di tornarsene a casa. E, se non potevi andartene, contribuiva a darti la sensazione di essere uno sfigato.

    Quando Mana arrivò al cuore del paese il panorama cambiò drasticamente. C’erano luci intermittenti che saettavano riverberando sulle pareti dei palazzi, e un consistente numero di persone che si muovevano frettolose tra camionette dei carabinieri e altri furgoni senza insegne. Al centro della piazza principale, nel piccolo giardino ornato da una fontana orribile e da un monumento ai caduti di qualche guerra, c’erano addirittura dei tendoni di tipo militare, alcune stufe a fungo, un paio di autoambulanze e un carro attrezzi. Sembrava una città militarizzata per un'emergenza sanitaria. Adesso era evidente la distanza tra la possibile verità e l'ipotesi di Mana su come fosse tutto parte di un programma televisivo. Qualcosa era davvero successo da quelle parti. Gli salì un guizzo d’adrenalina, pensando che forse l’idea di rispondere alla chiamata del suo capo non era stata poi un’idea così assurda. Perché Cafrissa poteva essere collegata al suo problema personale. Adesso tutto pareva avvolto in un velo di assurdità; il che, concluse, era come dire che niente era davvero assurdo.

    La piazza era interamente transennata. Lasciò la macchina quasi in mezzo alla strada e si fermò davanti alla recinzione, attirando lo sguardo di un tipo con il distintivo della Polizia di Stato che camminava trafelato. Mana esibì il suo prima che gli venisse richiesto e domandò del commissario capo Galdi. Fu indirizzato verso una delle camionette dei carabinieri. Mentre attraversava lo spiazzo notò un paio di individui in borghese che non odoravano né di polizia né di Digos o servizi segreti. Uno in particolare, molto alto, biondo e con un grugno da lottatore, era quasi sicuramente straniero. Interpol?

    La portiera del veicolo si aprì e ne uscì Alfredo Massimo Galdi, prendendolo di sorpresa. Non l’aveva mai visto così sotto pressione. Le occhiaie erano evidenti, così come la sua aria esausta, e le sopracciglia aggrottate.

    – Oh, Antonio, ce ne hai messo di tempo.

    – Come mai non c’è gente? Mi aspettavo un sacco di curiosi, o i parenti dei paesani che mancano all’appello.

    Galdi lo squadrò dal basso dei suoi centosessantasette centimetri. – Lo sapevo che facevo bene a chiamarti, il tuo occhio si riconferma ancora una volta finissimo.

    – Sarebbe a dire?

    – Vieni, andiamo al quartier generale – disse caricando ironicamente le ultime due parole – là possiamo chiacchierare tranquillamente, senza che ci si gelino le palle.

    Mana lo seguì senza fiatare. Quelle parole nascondevano un’esigenza di riservatezza. Ma non c’erano civili là attorno, e tantomeno stampa. A quale tranquillità stava alludendo Galdi?

    – Per rispondere alla tua domanda, ragazzo – disse il commissario capo entrando in uno dei tendoni militari – di gente era pieno fino a qualche ora fa, ma poi s’è fatta notte, la temperatura è calata, l’umidità è salita e se ne sono andati tutti. Abbiamo avuto qualche difficoltà solo con la stampa, ma poi se ne sono occupati quelli.

    Quelli?

    – Eurogendfor – spiegò l’altro con una smorfia.

    Mana accusò quella parola come se fosse stata rovente. L’Eurogendfor, cioè la Forza di Gendarmeria Europea, era la nuova superpolizia dell’Unione. Addestramento stile corpi speciali, immunità disgustosamente elevate, risorse e fondi senza limiti, una spocchia da far venire l’ittero a qualsiasi poliziotto normale. Si muovevano senza alcun rispetto per quelli che avrebbero dovuto essere colleghi. Non scambiavano informazioni, le pretendevano soltanto, ma, soprattutto, se si muovevano loro voleva dire che era una questione di rilevanza europea.

    – Mana?

    – Eh? – Si rese conto di aver perso l’ultima battuta dell’anziano poliziotto.

    – Il caffè. Lo vuoi?

    – Oh. No, quale caffè. A questo punto vorrei sapere in che cosa mi ha appena infilato, commissario. Con tutto il rispetto.

    – Io un bel bibitone nerastro invece me lo prendo. Morosi, per cortesia, ci pensa lei?

    Morosi non aveva più di venticinque anni, la testa completamente rasata e lucida per il sudore. Alzò lo sguardo dal portatile, annuì distrattamente e poi tornò a digitare a velocità luce.

    Mana si stava guardando intorno. – Ma che cosa è successo?

    Galdi spalancò le braccia in maniera plateale e buttò là un sorriso, ma non disse nulla.

    Mana lo incalzò. – Terroristi? Un’epidemia? Avanti, i paesi mica scompaiono così.

    – Non saprei. Proprio non saprei. Ah, grazie, Morosi – disse poi afferrando il bicchiere di plastica.

    Non saprei. Mana era stupefatto. Galdi in genere non parlava così. Pareva frustrato e compresso, quasi fosse costretto a stare attento a cose che normalmente avrebbe degnato al massimo di una battuta caustica. E poi in genere era un continuo profluvio di oscenità e turpiloquio. Era come se qualcuno gli avesse appena somministrato una di quelle strigliate che non si dimenticano. Il capo diretto di Mana era uno della vecchia guardia, e per questo in fondo si erano da subito piaciuti, anche se si graffiavano sempre come gatti. A volte lui si era pure chiesto se ci fosse dell’affetto tra loro. Non cameratismo, ma vero e proprio bene, mimetizzato sotto tutte le stronzate da guerrieri duri e puri.

    – Di quanta gente stiamo parlando? – domandò ancora.

    – Quasi diecimila persone. C’è un elenco completo. Qui dovrebbe esserci una copia. – Indicò un tavolo zeppo di carte: mappe, stampe di fotografie aeree, perfino vecchi tabulati continui, quelli coi buchi ai lati.

    – C’è una versione ufficiale?

    Galdi sbuffò, bevve un sorso di caffè, si guardò intorno. – C’è e non c’è. C’è qualcosa che stiamo confezionando per l’opinione pubblica, ma sappiamo perfettamente che non ci crederà né la stampa, né il pubblico, né il governo. Per il semplice motivo che non ci crediamo noi per primi.

    – E quale sarà?

    – Probabilmente terrorismo. Ma che razza di terrorismo sarebbe questo? Gente che se ne va di casa alla chetichella, in una notte, tutti assieme. Che strategia della tensione dovrebbe essere?

    – E come facciamo a sapere che lo hanno fatto spontaneamente, che non sono stati rapiti, o ammazzati, o sono stati colpiti da un qualche cazzo di malattia?

    Mana osservò il suo capo far finta di assaporare il caffè americano come se fosse la cosa più buona del mondo. Oltre a tutto quello che Mana aveva già notato, Galdi sembrava imbarazzato. Era uno spettacolo stupefacente.

    Poi l’anziano poliziotto disse: – Vieni, ti faccio vedere una cosa. – Uscirono dal tendone per infilarsi in un altro praticamente identico, da fuori. Dentro, sembrava uno studio di postproduzione televisiva. Sugli scaffali di metallo erano sistemate dozzine di registrazione ed editing video. A lavorare c’erano solo tre persone in abiti civili, tutti e tre ragazzi parecchio giovani, nessuno dei quali diede il minimo segno di essersi accorto che un commissario capo della Polizia di Stato era appena entrato. Galdi si posizionò alle spalle di uno di loro, che lavorava contemporaneamente su un MacBook e su una specie di videoregistratore con un sacco di manopole.

    – Puoi lasciarci per un momento questa postazione, per favore?

    Quello parve notarlo solo adesso, girò la testa e scrollò le spalle: – Sicuro. Prego. Vado a fumare una sigaretta.

    – Ecco, bravo. Grazie – fece Galdi con finta cortesia, quindi si mise a trafficare sul laptop. – Dovrebbe stare qui… prima l’avevano lasciato sul desktop… boh. Ah, ecco. No, questa è in bassa risoluzione, merda! Ehi? Scusami, tu?!

    Un altro ragazzo, basso e irsuto, alzò la testa dal monitor su cui stava lavorando.

    – Non c’è più l’aerea in alta risoluzione del campo di pattinaggio? Non più tardi di un’ora fa l’ho vista sul desktop di questo Mac.

    Il tipo si alzò di malavoglia, arrivò davanti al computer, con un click aprì una cartella, con un altro un file immagine, che esplose occupando per intero lo schermo.

    – Guarda qua – disse Galdi quasi sussurrando.

    Mana si avvicinò. Era una foto aerea. Gli venne in mente di aver sentito il rumore di un elicottero mentre si avvicinava al paese.

    – È il parco comunale di qui. Circa un chilometro più a sud, lungo il corso principale. Stai guardando la pista di pattinaggio. È lunga sessanta metri e larga quindici. Parecchio grandicella, se vuoi la mia opinione. Pare che d’estate ci organizzino concerti, fiere e altre puttanate da contadini.

    – Sì, ma cosa devo vede…

    Si interruppe. Il cervello aveva impiegato qualche secondo per districarsi. Non aveva capito cosa stava guardando perché aveva confuso la figura con lo sfondo. Adesso invece la vedeva bene, era una scritta. I caratteri, tipici dei lavori dei writer metropolitani, sembravano estrusi da un tubo, come dentifricio. Lo sfondo era un di un colore grigiastro, mentre la scritta vera e propria, in verde chiaro bordato più scuro, riempiva quasi l’ottanta per cento del pavimento di cemento. Tecnicamente era un lavoro ammirevole. Lesse:

    NON CI VEDRETE ARRIVARE MA CI VEDRETE SCOMPARIRE

    NOI SIAMO INVISIBILI E QUESTO È SOLO L’INIZIO

    1.5 – La gente

    – Porca mignotta ladra! – esclamò Mana senza riuscire a trattenersi.

    – L’ho detto anche io. Testuale.

    – Ma che vuol dire?

    – Mi pigliasse un colpo se lo so. Ma prima di concentrarci sulle domande alle quali nessuno sa rispondere, soffermiamoci su qualche interessante dettaglio. Per esempio, la realizzazione.

    – La realizzazione? E che cazzo ce ne frega? Cento bombolette spray e un sacco di tempo libero, credo che siano gli unici ingredienti che servono. E parassiti come quelli che fanno queste scritte, tempo da buttare ne hanno.

    – Madonna santissima, Antò. Certe volte sei veramente un bietolone. Vorrei vederti un giorno a cercare di scrivere una frase così su un’estensione di novecento metri quadri.

    Mana strinse le labbra e sparò in aria le sopracciglia.

    – Pare che hanno usato un elicottero, un proiettore e un sistema computerizzato. Che ne dici?

    – Che dietro deve esserci gente organizzata e coi soldi.

    Galdi si concesse un piccolo sussulto che somigliava a una risata. Di scherno. – Ancora non capisci.

    – Cos’è che devo capire, commissario? Sinceramente, sono un po’ in riserva per mettermi a giocare agli indovinelli. Sono le due di notte.

    – Le due? Così presto? Ti do un altro indizio. Per un lavoro del genere servono circa dieci ore. E almeno venti perché la vernice arrivi al punto di essiccatura che ha raggiunto adesso. Hanno fatto delle analisi chimiche, i risultati sono arrivati più o meno quando ti ho chiamato io.

    – Il che significa che…?

    Galdi sbuffò. – Non è un lavoro che è stato fatto dopo che la città è stata sgomberata. Ah, a proposito. La prima segnalazione che abbiamo ricevuto risale a poco dopo mezzogiorno. E già che mi viene in mente: accantona ogni teoria su morbi o strane epidemie. Questa gente ha lasciato tutto perfettamente in ordine, prima di togliere il disturbo. Case pulite, macchine parcheggiate; Cristo, hanno perfino lasciato le crocchette nelle ciotole dei cani.

    – Mi sta dicendo che questa opera d’arte è stata fatta mentre il paese era ancora abitato.

    – Sì. Vedo che adesso la pulce nell’orecchio è entrata anche a te. Ma ti do un altro indizio, così anche tu avrai il quadro completo. La prima domanda che hai fatto era quella migliore di tutte, anche se non potevi saperlo.

    – Quale domanda?

    – Quando mi hai chiesto perché non ci fosse la gente, la folla che ti saresti aspettato.

    – Infatti. Da quel che so ne hanno parlato i giornali per tutto il giorno. La gente pareva impazzita. E allora perché non c’era la protezione civile a tenere alla larga i curiosi che dovrebbero sciamare continuamente rompendo le palle alla gente che lavora e inquinando una potenziale scena del crimine?

    – Infatti ti ho detto che fino a che non s’è fatta notte di curiosi ce n’erano, e anche la stampa. Ma qualcuna di quelle checche in nero che hai visto fuori…

    – Chi?

    – Quelli dell’Eurogendfor. Ci hai fatto caso che vestono quasi tutti di nero? È come un uniforme. Ma si può essere più scemi? Dare un uniforme ad agenti in borghese. Neppure l’FBI è così scema.

    – Vada avanti.

    – Qualcuno dell’Eurogendfor però il cervello ce l’ha, e lo usa anche bene. Uno di loro deve aver avuto l’idea di prendere le generalità di tutti quelli che arrivavano fin sotto il paese per curiosare o avere notizie su cosa fosse successo: sembra che la percentuale dei familiari di abitanti di Cafrissa sia così bassa da risultare sospetta.

    – Mi sta dicendo che quasi nessuno è venuto qui a chiedere cosa fosse successo ai suoi cari?

    – Mh-mh.

    – La prima cosa che mi viene da pensare è che non siano preoccupati per le sorti dei… come si chiamano? Cafrissiani?

    – Penso di sì. Ma perché non dovrebbero essere preoccupati?

    – Non lo so. Perché stanno bene? Perché nessun morbo venuto dallo spazio o nessun’organizzazione di criminali terroristi con il raggio della morte è responsabile di questo… questa situazione?

    – Infatti. Loro lo sanno. Antò, loro lo sanno. Pensa alle implicazioni di questa informazione. Pensa al lavoro che bisogna fare per organizzare una sparizione di massa di più di novemila persone. E pensa alla scritta. Noi siamo gli invisibili e questo è solo l’inizio.

    – Che cazzata – disse Mana istintivamente. Ma Galdi lesse nei suoi occhi qualcosa che si avvicinava molto allo sgomento. Un attimo dopo infatti continuò: – Ma chi può esserci dietro a un piano del genere?

    – Non ne ho idea. Ma se qualcuno mi costringesse a tirare fuori non quel che so, ma le sensazioni che ho riguardo a questa storia, la risposta metterebbe i brividi perfino a me stesso.

    – Sono tutto orecchi.

    – La gente.

    – Mi sono perso di nuovo. Ho chiesto chi può esserci dietro. La gente non sta mai dietro a un benemerito cazzo.

    – Ma perdinci, Antonio, pensaci. Mettiamo che la più plausibile delle ipotesi che possiamo fare al momento, quella di terrorismo, sia la strada giusta. Dopotutto mi sembra che ci sia una minaccia in quel messaggio, per nulla velata. No?

    Mana annuì.

    – D’accordo – proseguì l’anziano poliziotto – allora terrorismo sia. Sovvertire in qualche maniera l’organizzazione dello Stato. Non chiediamoci a quale fine, pensiamo soltanto a quello che sembra ciò che abbiamo intorno. Sovversione. Allo stato puro.

    – E allora?

    – Allora? Se questa gente non usa metodi violenti, e se è in grado di smobilitare una cazzo di fottuta cittadina in venti ore, e se i familiari degli scomparsi sanno che stanno bene e non sono preoccupati, non potrebbe voler dire che la gente sta con loro? Almeno qui a Cafrissa? E se Cafrissa fosse solo la punta dell'iceberg? E se questa gente avesse un consenso altissimo?

    Mana sbottò a ridere. – Consenso? Ma se neppure si sa cosa vogliono? Secondo lei la gente li vede come eroi rivoluzionari? E poi rivoluzione di cosa? A parte il fatto che, se non ho capito male, questa foto è top secret, giusto? Non la vedremo domani sul Corriere della Sera.

    – Esattamente. Quindi?

    – Insomma, non è che si stiano facendo proprio pubblicità. Mi sembra un po’ prematuro parlare di consenso. Perché, per esempio, non hanno pensato di caricare un video o una foto di quel messaggio in rete? Quella sì che sarebbe stata una mossa pubblicitaria.

    Improvvisamente Galdi sorrise. – Lo sapevo che ci arrivavi. Non lo sai neppure, ma ci sei arrivato.

    – Arrivato a cosa?

    – Quella scritta sul campo di pattinaggio infatti non è pubblicità. Non ne hanno bisogno. Era un messaggio per noi. Siamo noi che non li conosciamo. La gente già sa chi sono.

    – Ma cosa cazzo mi sta raccontando?

    – O meglio, un po’ li conoscono anche quelli dell’Eurogendfor. Almeno un po’. Si comportano come se avessero già qualche informazione su di loro. Devono avere dei database che noi ci sogniamo.

    Loro? Loro chi? Mi sembra tutto una bella paranoia. Ma al contrario. Cioè, una cospirazione al contrario.

    – E perché no?

    – Una cospirazione? – ripeté Mana inebetito. – Il fottuto uomo della strada si sta organizzando?

    – Magari solo alcuni. Ma forse è proprio questo il senso di questa roba. Ecco perché sembriamo tutti un vespaio contro il quale hanno tirato una pallonata. Carabinieri, polizia, servizi segreti. Le checche in nero. Paranoia, magari. Com’è che hai detto tu? Una cospirazione al contrario? E perché no? – Restò un momento a ragionare, come se quel pensiero lo divertisse. – Comunque, la mia sensazione è che sia vera almeno la parte finale di quella scritta. E dio solo sa se mi ci voleva di finire l’anno con un casino di queste dimensioni.

    Mana si avvicinò all’entrata della tenda e gettò uno sguardo all’esterno. L’attività era febbrile e calma al tempo stesso, un via-vai ordinato di uomini e mezzi che arrivavano e se ne andavano. Le transenne, le antenne paraboliche sui tetti dei furgoni. Una pallonata contro un vespaio. Forse Galdi aveva ragione. Forse questo era davvero solo l’inizio.

    1.6 – Sei e mezzo

    Il destino si ripresentò alla porta di Antonio Mana alle quattro e quarantadue di quella nottata senza fine. Era così bollito che per poco non lo riconobbe.

    Aveva trascorso un'ora a cercare di inventariare strane sostanze rinvenute in un magazzino, che solo con una certa fantasia si sarebbero potute catalogare come droghe, insieme a dell’ottimo hashish su cui Mana aveva preso un appunto mentale. Poi Galdi lo aveva messo a fare il lavoro più ingrato di tutta la sua vita. E cioè visionare il girato di tutte le telecamere di sicurezza del paese in cerca di qualcosa. Aveva capito subito che non era il momento per ricordare al suo capo che lui era un commissario e quello era un incarico da dare a un agente. Da una parte si era reso conto che lo stesso commissario capo stava agonizzando in mezzo a lavori che avrebbe dovuto delegare, e invece svolgeva con un’abnegazione per Mana del tutto inedita. D’altra parte la stanchezza era stata completamente rimossa da un’eccitazione che trovava interessante, e che quasi mai compariva nella sua vita. La situazione di quel paese lo interessava in sé, ancora prima di correr dietro a deliranti connessioni con i suoi problemi. Quel tumulto operoso, la convergenza di forze eterogenee tutte impegnate a lavorare fianco a fianco per cercare di sbrogliare la matassa, la notte illuminata dai bagliori intermittenti, la pazzesca scritta sul campo di pattinaggio. Tutto concorreva a dargli la bizzarra sensazione che fosse capitato nel centro esatto di qualcosa che si sarebbe presto rivelato fatidico. Forse per qualcuno che lui non conosceva, forse per lui stesso, forse per tutti quanti.

    Alle quattro e quaranta Albertini, un vice sovrintendente che si stava giocando la vista scorrendo le immagini sul monitor da ore, drizzò la schiena, si stiracchiò e disse con un grugnito di soddisfazione ai colleghi: – Be’, dai, questa non è male. – La frase accese immediatamente l’attenzione di tutti gli altri visi incollati ai vecchi schermi a tubo catodico. Solo Mana non era interessato al loro gioco.

    – Vedere… – disse uno di loro piazzandoglisi accanto. – Mah. Bel culo, poche tette. Gli do un sei e mezzo, non di più.

    – Sei e mezzo?!

    Un attimo dopo erano in quattro a disquisire sulle virtù estetiche dell’ennesima figura femminile incontrata visionando gli archivi della videosorveglianza di Cafrissa. Un gioco per tenersi svegli. C’era chi voleva assegnare perfino un nove secco, altri solo la sufficienza. Mana fu chiamato in causa suo malgrado.

    – Commissario, guardi la brunetta che sta aspettando la corriera. Questa è da otto, come minimo. Non le pare?

    Lui per un momento pensò di ringhiare qualche cosa in risposta, perché fosse chiaro che lo dovevano tenere fuori dai loro giochetti. Che c’era una gerarchia che nemmeno l’eccezionalità della situazione autorizzava a prendere sotto gamba. Ma quell’opzione annoiò perfino lui stesso; si vide con gli occhi di quei trentenni: un acido quarantenne che spargeva risentimento su tutto e si sentiva chissà chi. Distolse gli occhi dal girato che stava controllando e si sporse a guardare.

    – Bel culo – affermò lapidario, tornando l’istante dopo al suo monitor.

    Albertini non era soddisfatto. – Commissario, deve guardare il viso. Aspetti, adesso si gira verso l’obiettivo. Guardi…

    Mana sbuffò, ma stette al gioco.

    Si girò, e quasi gli esplose una vena in testa.

    – Cazzo! – sibilò. – Torna indietro, subito!.

    – Vero che è una bomba, commissario?

    – Stai zitto e fa’ quel che ti dico. Manda indietro. Prendi il fotogramma in cui si vede meglio il volto… Stoppa ora. Ingrandisci.

    Il cervello umano è un congegno davvero buffo, pensava Mana mentre guardava negli occhi la sua nemesi. Così ingrandita, quell’immagine video perdeva un sacco di definizione. Il viso pareva niente più che qualche grumo di pixel. Eppure una delle facoltà più sviluppate dall’encefalo nel corso dell'evoluzione era la sua straordinaria capacità di riconoscere pattern facciali, anche a partire da pochissimi dati visivi. Quello che stava osservando con gli occhi sgranati era al contempo una serie di macchie di pixel e il viso della donna che lo aveva minacciato, osando recapitargli una lettera anonima praticamente fin dentro casa. La riconosceva perché era la stessa che avevano portato in questura dopo la retata al centro sociale, un mese prima. Quella che avevano rilasciato perché così innocua da essere noiosa, così anonima da essere… invisibile.

    Gli girava la testa. Si impose di calmarsi. – Fammi subito una stampa di questa immagine.

    Albertini armeggiò con la stampante. In dieci secondi Mana aveva in mano un foglio con il ritratto del suo nemico.

    Adesso doveva concentrarsi, e ripescare dalla memoria le parole esatte di quella lettera. Con un po’ di pazienza, l’immagine si materializzò ai suoi occhi. Carta bianca, un foglio ripiegato, con poche righe impresse da una stampate a getto d’inchiostro. Quasi sicuramente aveva usato Word, i caratteri erano Times New Roman, corpo dodici al massimo.

    Hai ammazzato un innocente di troppo, commissario.

    Scatenandoti addosso una tempesta che non puoi capire.

    Pregherai di non aver mai incontrato me e il mio amico.

    Non mi vedrai arrivare, e questo sarà il tuo dramma.

    Io sono Sanya, e questo è solo l’inizio.

    Malgrado ogni sforzo, la testa continuava a regalargli vertigini. Come aveva fatto a non accorgersi subito della somiglianza tra i due messaggi?

    – Stampatevi questo volto in testa. I suoi abiti, la faccia, il culo, le tette, l’altezza, tutto, ogni fottuto particolare. Abbiamo un indizio, ragazzi, una pista. Datemi tutto quello che c’è sui nastri relativo a questa persona. Abbiamo fatto centro, forse. Al lavoro.

    Albertini lo guardò, esterrefatto.

    – Non guardare me, guarda il tuo schermo. È lui che ti può fare andare a casa prima. Anzi, lasciami la tua postazione, questo disco me lo faccio io. In che punto del paese è la telecamera?

    Era piazzata alla destra dell’uscita di un ufficio postale, inquadrava il marciapiede che fuggiva in profondità, alla sinistra alta dello schermo. Su quel marciapiede c’era la fermata di un autobus. Il timecode indicava le ventitré e zero sette del diciannove dicembre. Per fortuna i lampioni illuminavano tutta l’area. C’erano due persone in attesa dell’autobus, un vecchio e un uomo di mezza età. Poi arrivò lei, entrando in campo da destra. Si arrestò vicino alla fermata, ad attendere l’arrivo della corriera come gli altri.

    Mana avvicinò la faccia allo schermo, tendendo i muscoli della schiena e gli addominali. Riconobbe l’emozione nel vederla muoversi, mentre non sapeva di essere vista, l’eccitazione derivante dallo spiarla dopo esser stati spiati. Immediatamente provò vergogna per quell’emozione, rivelatrice di un timore che non voleva ammettere. Hai paura di quella donna?

    Il poliziotto notò quanto fosse peculiare il comportamento della donna. Riavvolse il flusso video più e più volte, finché ogni suo più piccolo movimento fu impresso indelebilmente nella sua memoria. Non poteva correre il rischio di dimenticarla ancora. La vide camminare lungo il marciapiede, fermarsi, aspettare. C’era qualcosa di felino nella sua falcata, non corta come la sua altezza poteva far supporre. A forza di rivedere il girato, Mana si rese conto che lei dava l’impressione di non spostare mai il suo baricentro oltre la base d’appoggio delineata dalla posizione dei piedi. Il tronco era sempre dritto, probabilmente molto più in asse con il baricentro di quanto ci si aspetterebbe durante una camminata. A Mana vennero in mente gli allenamenti in palestra, quando il suo maestro di karate gli insegnava come camminare per essere sempre perfettamente aderente al terreno, e contemporaneamente poter volare su esso, rasente come un hovercraft. Quel tipo di camminata in cui la testa era sempre in linea col baricentro, corrispondeva a una tecnica che rendeva molto difficile perdere l’equilibrio. Sii sempre ancorato al terreno, diceva il suo sensei, ma mai suo prigioniero. Quella donna (Sanya…) sembrava muoversi esattamente come avrebbe voluto il suo maestro.

    La vide fermarsi in prossimità del palo della fermata. I secondi passavano e lei non si muoveva. I due uomini sì: piccoli gesti, come aggiustarsi una sciarpa, spostare il peso da un piede all’altro, portarsi le mani al viso, girare la testa. Lei niente. Un manichino lasciato là, ad aspettare l’autobus, come un’opera d’arte contemporanea.

    A un certo punto doveva essere successo qualcosa fuori campo, magari il rumore di una macchina che sgommava, o un cane che aveva abbaiato, perché tutti e tre si erano girati a guardare nella stessa direzione, alle spalle della telecamera. Se non fosse stato per quell’unico secondo, l tempo di un batter d’occhi, lei non avrebbe mai girato il volto a favore di obiettivo. Mana la osservò con l’attenzione di un entomologo. Era affascinato. Il collo si era girato, uno scatto fluido e rapido, gli occhi avevano inquadrato la fonte del rumore, una frazione di secondo per decidere che non costituiva alcun pericolo, poi un altro movimento, identico e inverso al primo, e la testa era tornata nella posizione originale, sottraendo il viso alla telecamera. Il commissario tornò ancora una volta indietro con la manopola, quindi aumentò al massimo lo zoom. Era convinto di aver visto un guizzo dei suoi occhi. Infatti. Immediatamente dopo aver identificato come innocua la fonte del rumore, la donna aveva lanciato un’occhiata velocissima in camera, e solo dopo il suo collo si era mosso per sottrarsi alla ripresa. Si era resa conto di essere inquadrata. No. Lo aveva saputo dall’inizio, infatti non si era mai mossa se non dando le spalle all’apparecchio. Tranne quell’unico istante, quando qualcosa l’aveva fatta voltare istintivamente.

    Il resto del filmato mostrava soltanto il suo movimento in uscita dal quadro, quando la corriera era arrivata e lei si accingeva a salirvi. In tutto, una ripresa di quasi nove minuti. Ma a Mana era sembrata densa quanto un lungometraggio.

    Cominciò a cercare freneticamente il proprio telefonino.

    – Pronto?

    – Uh…

    – Capo, dormiva?

    – Macché, sono sulla tangenziale. Prima che riesco a infilarmi nel letto saranno le sei, sveglierò Teresa per l’ennesima volta e lei mi lascerà. Cosa vuoi?

    – Mi serve l’accesso al DFT.

    – E perché? Cosa te ne fai di un software di riconoscimento facciale?

    – Forse ho un indizio.

    – E sarebbe?

    – Una donna.

    – Dimmi di più.

    – Per ora non ho molto. Diciamo che è un’intuizione.

    – Il tuo famoso istinto, eh? Va be’, siamo così a terra che anche quello è meglio di niente. Ma tocca andare a scomodare quelli su al ministero.

    – Non era propriamente un complimento, vero?

    – Che

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