Ci si vede all'Obse
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Girovagando per le strade della capitale, incontra un gruppo di ragazzi al parco dell’Osservatorio astronomico. Il patto che li unisce è uno solo: non raccontarsi mai niente della loro vita e dei loro problemi. Trascorrono le giornate giocando a “obbligo o verità”, ma possono scegliere solo “obbligo”, perché tanto “a nessuno importa niente della verità”. Ingaggiano così sfide via via sempre più pericolose.
Quando l’estate è quasi finita e i ragazzi probabilmente non si vedranno più, giocheranno un’ultima volta a “obbligo o verità” e questa volta ognuno di loro svelerà il segreto che ha tenuto nascosto.
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Book preview
Ci si vede all'Obse - Cilla Jackert
Epilogo
Camelozampa
presenta
Ci si vede all’Obse
Scritto da
Cilla Jackert
Traduzione dallo svedese di
Samanta K. Milton Knowles
Prologo
Annika amava dire le bugie.
A volte mentiva per pigrizia. Altre volte per cattiveria. Poteva mentire per far colpo su qualcuno. O per essere gentile. A volte diceva bugie perché era divertente, ma poteva benissimo mentire anche senza alcuna ragione.
A voler essere generosi, si poteva dire che mentire era il suo hobby.
A non voler essere generosi, si poteva invece dire che Annika era una bugiarda patentata.
Perché lo era. E non si vergognava affatto di sciorinare una menzogna dopo l’altra.
«Mi trasferirò in Egitto».
«Mio padre suona dodici strumenti».
«Ieri per cena abbiamo mangiato carne di serpente.
Aveva lo stesso sapore del pollo».
Gli amici di Annika sapevano che diceva bugie.
I genitori di Annika sapevano che la maggior parte delle cose che la figlia raccontava avevano poco a che vedere con la realtà.
E dato che tutti coloro che Annika frequentava sapevano che preferiva inventarsi una fandonia intrigante piuttosto che raccontare una verità noiosa, poco importava che dicesse bugie.
Scherzasse.
Ingannasse.
Raccontasse panzane.
O almeno, Annika si illudeva che fosse così. Fino a che un giorno non volle raccontare la verità su cosa le era successo durante l’estate tra la sesta e la settima classe.
Perché nessuno le credette.
«Smettila di dire bugie, Annika» dissero i suoi amici.
Ad Annika non parve strano che le rispondessero così.
Perché tutto quello che le era successo quell’estate era talmente inverosimile da sembrare più una bugia.
Invece era la pura verità.
Primo capitolo
Le vacanze estive tra la sesta e la settima classe per Annika iniziarono proprio come al solito: una normalissima festa di fine anno nella chiesa Gustaf Vasa in Odenplan, a Stoccolma. Nella normalissima chiesa sedevano file e file di normalissimi bambini con normalissimi vestiti stirati di fresco che di lì a poco si sarebbero sporcati di torta alla panna guarnita con le prime fragole dell’estate. Sulle ginocchia impazienti dei bambini erano poggiati normalissimi mazzi di fiori di lillà bianchi e viola, che riempivano la chiesa del loro profumo gentile e normale per la stagione. Cinquecento normalissimi bambini cantarono l’inno Dei fiori il tempo or giunge, come in ogni normalissima festa di fine anno, con la loro normalissima maestra di musica in piedi davanti a loro che agitava in aria un legnetto abbastanza normale, di cui nessuno capiva la funzione.
Davanti all’altare della chiesa c’era un normalissimo coro, e in prima fila c’era Annika. Aveva lo stesso aspetto di sempre, a parte che per una volta si era spazzolata i capelli. Però aveva lasciato perdere la frangia, perché c’era appiccicata una gomma da masticare che la mamma voleva tagliare via.
Il resto dei capelli ricadeva liscio lungo la schiena sopra il normalissimo vestitino bianco che aveva una macchia di pennarello rosso decisamente poco normale proprio sul cuore.
Ad Annika quella macchia piaceva, perché era facile inventarsi qualche bella bugia su una chiazza rossa proprio sopra il cuore.
«È sangue» era solita dire Annika quando qualcuno la indicava.
Inoltre il vestitino aveva le tasche.
E quelle erano quasi meglio della macchia.
In quel momento Annika se ne stava con le mani in tasca, proprio come la maestra di musica le aveva detto di non fare, e cantava Dei fiori il tempo or giunge con voce alta e chiara.
Era la sua canzone preferita e voleva che tutti lo capissero. Di per sé il testo era abbastanza stupido, e la melodia era pessima, ma non c’era altra canzone che meritasse di essere cantata a voce così alta e chiara.
Lo sapevano tutti quelli che, come Annika, amavano le vacanze estive.
«Quest’estate andrò in tournée con la mia band» spiegò Annika ai suoi compagni fuori dalla chiesa, dopo aver ascoltato uno degli incomprensibili discorsi della direttrice, che puntualmente era finito con lei che piangeva e si soffiava il naso forte e chiaro dritto nel microfono.
«Mio Dio quante cose ti inventi» disse lo Gnomo, uno dei compagni di classe di Annika.
Annika alzò le spalle.
Non le importava se i suoi compagni le credevano oppure no.
Tanto erano noiosissimi.
Sinceri.
Dovevano sempre dire la verità.
«Di’ le cose come stanno» dicevano sempre.
«E perché mai?» rispondeva sempre Annika.
Appena i suoi compagni aprivano bocca lei si addormentava, per protesta.
Certo, si addormentava solo per finta, perché non era mica così facile addormentarsi. Se lo fosse stato, Annika avrebbe potuto affittare i suoi compagni di classe alle persone con disturbi del sonno. Loro si sarebbero seduti sul bordo del letto della persona interessata a parlare di colonie estive dove ti insegnavano a pagaiare in canoa canadese oppure di campi estivi di equitazione dove si facevano gare di salto in cui gli ostacoli erano talmente bassi che il cavallo a malapena doveva alzare gli zoccoli per superarli.
«Ronf» diceva Annika.
Una cosa però era certa. Nessuno si addormentava quando Annika raccontava delle sue vacanze estive.
Quindi che importanza aveva il fatto che non ci fosse niente di vero? «Quest’estate andremo a Fantomenland, allo zoo di Eskilstuna» disse lo Gnomo.
«Ronf» disse Annika.
«Mi divertirò un sacco» disse lo Gnomo.
«Doppio ronf» disse Annika.
«Ora però sei cattiva» disse lo Gnomo, che a differenza di Annika era sempre sincero.
«Sai perché? Perché il mio cervello è stato preso d’assalto da un’ameba che si nutre delle parti buone e lascia solo ciò che è cattivo e antipatico».
«Per la prima volta ti credo» disse lo Gnomo.
Poi fece una risatina, arricciando il naso. Era carino. Anche Annika rise.
«Devo andare» disse lui.
Si sporse in avanti per salutarla con un abbraccio.
«Lo fai perché sei innamorato di me?» chiese Annika.
«Puoi smetterla di fare la scema?» rispose lui, mentre le sue guance diventavano rosse come quelle di uno gnomo.
«Che problema c’è? Tutti i ragazzi sono innamorati di me. È una cosa perfettamente normale, non c’è nulla di cui vergognarsi».
«Non mi vergogno mica. E non sono innamorato di te» si affrettò ad aggiungere lo Gnomo.
Si diedero un abbraccio veloce. Lui profumava di sale e di ammorbidente alla mela. Quando le chiese cosa avrebbe fatto durante le vacanze aveva ancora le guance rosse.
«Andrò…» iniziò Annika.
«Lascia perdere» la interruppe lui. Poi corse dai suoi genitori che lo aspettavano poco più in là.
Si voltò e la salutò con la mano. Lei ricambiò il saluto. Era una bella sensazione sapere che era innamorato di lei.
Era vero.
Provava pena per lui che aveva dei genitori noiosi che sicuramente gli facevano una testa così sul fatto che doveva sempre dire la verità.
Stai dicendo la verità, Gnomo?
Gli dicevano di sicuro così tutti i giorni. Tranne che magari lo chiamavano Rasmus invece che Gnomo, dato che era quello il suo vero nome.
I genitori di Annika non pretendevano mai la verità.
Nemmeno se si intasava il water perché Annika aveva provato a far andare giù con lo sciacquone una torta immangiabile che aveva preparato senza seguire la ricetta.
«Quando sono tornata da scuola era già così» aveva detto Annika mentre la mamma stava in ginocchio con la testa girata dall’altra parte e un braccio infilato nella tazza.
«Ti credo» aveva risposto la mamma.
Si può dire che Annika avesse ereditato il talento per le bugie dai suoi genitori.
I genitori di Annika si chiamavano Gugge e Ossian Bosse, e abitavano nel pezzo di Drottninggatan che era talmente lontano da Vasastan che nessuno sapeva che si chiamasse ancora Drottninggatan. Di solito Annika diceva di abitare nel Palazzo degli Spiriti che si trovava a un isolato di distanza, ma in realtà viveva in un appartamento normale al primo piano di un palazzo abbastanza nuovo che non era per niente infestato dai fantasmi, purtroppo.
L’appartamento era composto da quattro stanze più la cucina. Una delle camere era quella di Annika. Aveva la vista su Observatorielunden, il parco dell’osservatorio astronomico che si trovava dall’altra parte della strada. I suoi genitori dormivano in un’altra camera. Poi la famiglia ovviamente aveva un salotto con il divano e la TV e una libreria con così tanti libri che le mensole sembravano amache. E poi c’era ancora una stanza, che per qualche oscuro motivo si chiamava lo studio, ma che dopo le vacanze estive sarebbe diventata la cameretta del fratellino o della sorellina di Annika.
Mancava però un’intera estate prima del suo arrivo, e Annika aveva intenzione di godersi particolarmente tanto quelle vacanze.
«Non ci sarà poi tanta differenza» aveva detto la mamma tutta la primavera, prendendo Annika in braccio e cullandola come quando era piccola. Il che non era facilissimo, perché improvvisamente Annika era solo due centimetri più bassa di sua madre, che oltretutto aveva la pancia che cresceva di settimana in settimana.
Annika sapeva che la mamma mentiva bene quanto lei.
Anche se non riguardo alle stesse cose.
Ovvio che tutto sarebbe cambiato con l’arrivo di un fratellino o di una sorellina. Non solo. Sarebbe peggiorato, questo Annika lo sapeva bene.
Infatti aveva amici che erano fratelli minori, e sapeva esattamente quanto potessero essere terribili. Non facevano altro che rubare soldi, prendere i vestiti e rivelare tutti i segreti e le bugie dei loro fratelli maggiori.
La mamma crede che io non capisca che sarà tutto diverso
pensò Annika correndo per gli ultimi metri fino al portone, poi su per le scale, attraverso la porta e fino alla bacheca in cucina. Attaccò il diploma scolastico con una puntina accanto al calendario su cui la mamma aveva scritto a caratteri cubitali quanto tempo era passato da quando lei e il papà le avevano concepito il fratellino o sorellina.
Ormai c’era scritto settimana 27
, il che voleva dire che mancavano ancora tredici settimane prima che arrivasse il bebè.
«Tira fuori le cose che vuoi portarti in campagna» disse la mamma arrivando nell’ingresso con un grosso borsone morbido che posò accanto alla porta.
Aveva l’aria stanca, e Annika si domandò come sarebbero state le cose quando sul calendario ci sarebbe stato scritto settimana 35
.
«Non ho bisogno di niente» disse Annika.
Sarebbero partiti per la campagna già il giorno successivo e, anche se non lo avrebbe mai detto ai suoi amici, Annika adorava passare l’estate nella piccola casetta rossa nello Småland.
«L’estate scorsa puzzavi di cane tutto il tempo.
Quindi a questo giro non ti porti un solo paio di pantaloni» disse la mamma andando in cucina ad aprire il rubinetto.
O almeno così credette Annika.
Perché a giudicare dal rumore sembrava che la mamma avesse aperto il rubinetto.
L’acqua scrosciò.
La cosa strana però fu che l’acqua scrosciò per terra, invece che nell’acquaio.
Infatti la mamma non aveva aperto il rubinetto.
Il rumore scrosciante proveniva da svariati litri di liquido amniotico che precipitavano sul pavimento di linoleum che secondo la mamma aveva