Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Ultimo minuto
Ultimo minuto
Ultimo minuto
Ebook226 pages3 hours

Ultimo minuto

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Un romanzo che racconta il viaggio interiore del protagonista, Gregorio, che riflette sulla morte attraverso la vita e l'amore
LanguageItaliano
Release dateAug 31, 2018
ISBN9788829502448
Ultimo minuto

Related to Ultimo minuto

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Ultimo minuto

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Ultimo minuto - Fabrizio Brignone

    ringraziamenti

    Momento ultimo e primo

    Quel mattino Gregorio si svegliò con un pensiero che l’aveva assillato per tutta la notte: la paura di non avere più pensieri. Una sensazione mai provata, o almeno mai così netta e forte prima di allora.

    Non era agitato, ma percepiva chiaramente dentro di sé il timore dell’attimo in cui non avrebbe avuto più idee e riflessioni, sensazioni e sentimenti, immagini e parole, emozioni.

    Come sarebbe stato? Un istante fatalmente unico e irripetibile, quel secondo che cambia tutto. Il tempo di un batter d’occhio, un battito d’ali che mette in pausa il tempo. Forse ancora lontanissimo, ma sicuro e inevitabile. E proprio lui, che finora nella vita non aveva mai mancato appuntamenti, non voleva certo arrivare impreparato e insicuro a quell’incontro.

    Sarebbe stato il momento, tra tutti quelli che il tempo gli aveva regalato finora e che gli avrebbe fatto vivere ancora, l’interruzione nella successione degli attimi, lo stop da cui tutto smette di essere oppure può iniziare i passi nell’eternità. Ne aveva acquisito consapevolezza, forse già in passato, ma in quelle ultime ore ancora di più.

    Quel momento ineffabile e indefinibile, però, non avrebbe accettato ripensamenti o smarrimenti. Quello era, quello sarà. E pur non potendo cambiare nulla, almeno voleva credere che non se ne sarebbe andato senza aver pensato a ogni dettaglio, a tanti particolari dell’uscita di scena.

    Il suo ciao al mondo sarebbe stato intenso, non anonimo. Un’ultima occasione di comunicazione con chi lo aveva conosciuto e con le persone che più gli erano care, un modo per sentirsi vivo anche quando non lo si è più. Tutto, però, senza troppi fronzoli: in fondo, si trattava del suo addio ai vivi.

    Semplicemente, dopo quella notte dormita poco e male, decise che si sarebbe dedicato ai pensieri necessari per quel momento futuro: lo avrebbe reso presente, per affrontarlo meglio quando, inesorabile, sarebbe giunto. Per non lasciare nulla in sospeso, nulla di non detto, nulla non pensato né, se necessario, intentato. Con scrupolo e con serenità, senza rinunciare a ciò che sentiva e gli piaceva, come aveva già fatto un po’ per tutte le cose della vita, fino a quel momento.

    Si girò un’altra volta nel letto, ascoltò il silenzio della casa mentre l’alba ancora doveva arrivare e rivolse lo sguardo verso la moglie che dormiva tranquilla, serena. Sentì nel cuore un’onda di leggerezza e in quell’accenno di sorriso prese un impegno con se stesso: né la piccola e immensa Marilena al suo fianco né eventuali figli in futuro avrebbero dovuto, in alcun modo, portare le conseguenze delle sue scelte.

    Nemmeno avrebbero dovuto accorgersene: lui avrebbe disposto pressoché tutto il possibile, in modo che il suo amore e altre persone care non avessero pensieri per quel momento ultimo e primo. Nemmeno avrebbero mai dovuto sospettare, fino all’ultimo, che qualcosa potesse attraversare l’animo del loro Gregorio.

    L’avrebbe poi detto lui, probabilmente un giorno avrebbe raccontato tutto, condividendo riflessioni e indicazioni. Oppure quello sarebbe stato il suo segreto e lo sarebbe rimasto fino alla fine, senza causare turbamenti in chi gli stava intorno.

    Per lui nessuna conseguenza emotiva, nessuna degenerazione nel proprio equilibrio, tantomeno una perdita di contatto con la realtà: quello del proprio funerale non sarebbe diventato un pensiero dominante. Piuttosto, invece, quel modo di pensare alla morte lo avrebbe richiamato ancora di più all’impegno di vivere ogni momento, ogni espressione e ogni riflesso della vita con la massima intensità. Come se fosse l’ultimo, pur non volendo essere l’ultimo mai.

    Insomma, l’idea della morte, che pure sembra vincere su tutto e tutto annullare, sarebbe stata chiamata a rendere più forte e più bella l’esistenza. Per quanto assurdo, sarebbe stata un promemoria: ricordati che morirai, e allora vivi.

    Non più un pensiero che in fondo angoscia e quindi si cerca di nascondere a se stessi, ma un passaggio da affrontare. Da vivere, magari, nella serena consapevolezza che fa comunque parte di noi, in fondo. Un appuntamento a cui non possiamo mancare ma che nemmeno dobbiamo temere. Senza perdersi d’animo, mai, nemmeno in quel frammento di vita che infrange la vita stessa.

    Non era certo semplice, Gregorio se ne rendeva conto fin da quel primo momento. La vera angoscia, però, dev’essere quella di arrivarci senza aver fatto del proprio meglio in tutti i passi che hanno preceduto quel salto: tutto si perdona ma quello no, non va perdonato mai. Non tanto agli altri, ma anzitutto a se stessi. E lui, che era sempre stato assolutamente esigente nei confronti di sé, avrebbe trovato anche in questo punto, per quanto spaventoso e oscuro, uno stimolo per affrontare la vita di ogni giorno con più forza e con un sorriso più convinto.

    Messaggi in orbita

    C’è sempre un inizio, ogni strada muove da un passo. Ogni mappa riporta il primo tragitto, cui seguiranno tutti gli altri. Maturata la decisione, se così si può definire, Gregorio non si appuntò uno schema di lavoro né pianificò in modo troppo sistematico i passaggi successivi. Semplicemente, avrebbe pensato a una serie di scelte da compiere.

    Se da un punto bisognava pur iniziare, ecco quale: il mezzo su cui te ne vai è il primo elemento del viaggio, no? E così si dedicò alla ricerca di una bara che potesse sembrargli adeguata. Un cofano funebre: la definizione lo faceva sorridere, fino a quel momento aveva pensato al cofano solo come a una parte di automobile. Veicolo appunto, ma per i vivi.

    Un cofano funebre che facesse al caso suo, non soltanto nelle dimensioni, ma anche negli elementi estetici, che rispondesse alle sue preferenze, per l’ultimo involucro dell’involucro della sua anima. E anche alla sua voglia di realizzare una decorazione assolutamente personale: sì, perché alla prima decisione presa per quel viaggio si univa anche quella di rendere unica la busta con cui sarebbe stato spedito nell’aldilà.

    Ci aveva riflettuto a lungo, poi l’idea era comparsa in un attimo e nella sua interezza, con quell’apparente banalità che talvolta si accompagna alla casualità: aveva appena chiuso la porta del frigo, quando vide i magneti attaccati sulla superficie esterna. Guardò ciò che vedeva più volte ogni giorno e capì che quello poteva essere il suggerimento che cercava: la parte superiore della bara sarebbe stata decorata con tanti flash della sua vita, istantanee in cui imprimere i momenti più belli, i ricordi più importanti e forti.

    Come magneti sul frigo, appunto, oppure adesivi su una valigia o sul retro di un camper: tracce di luoghi ed esperienze che ti cambiano, o comunque ti definiscono. Per il mio viaggio finale - pensò quel giorno - voglio storie personali e foto di famiglia trasformate in materia, scolpite nel legno. Solo così posso renderlo davvero unico.

    Anche nella ricerca della bara, il suo carattere si confermò originale e poliedrico. Da una parte, non osava presentarsi presso un’agenzia di servizi funebri e chiedere di poter visionare cataloghi, magari con relativi accessori ed eventuali optional: non si trattava propriamente di scegliere un’auto in una concessionaria, nonostante la metafora del viaggio si profilasse adeguata.

    Con tutta probabilità la sua richiesta avrebbe incontrato perlomeno perplessità da parte degli operatori, non abituati a vendere tale prodotto al reale utilizzatore: solitamente, questi hanno a che fare con persone che acquistano per conto di altri. Per certi versi, un po’ come succede per un regalo, si disse con un sorriso comunque amaro.

    Queste riserve sugli effetti relazionali di una simile richiesta, unite a un pizzico di timidezza che lo caratterizzava da sempre, venivano però a scontrarsi con la sua attitudine per gli acquisti informati, con il suo essere consumatore consapevole. Il suo carattere attento, scrupoloso, disposto ad ascoltare consigli, ma pur sempre deciso, in questa occasione avrebbe potuto trovarsi in difficoltà.

    Era però esclusa, per quanto curiosa, l’opzione di visitare aziende di produzione diretta. Avrebbe dovuto allontanarsi troppo dalla città e non poteva certo proporre questa ipotesi di ferie alla moglie. Magari con un dialogo del tipo caro, andiamo al mare?, no, amore: andiamo per bare!.

    Secondo quanto poteva sapere, la produzione era concentrata in Est Europa ed Estremo Oriente (estremo come quel tipo di saluto). E allora gli sembrò buffo pensare che anche in questo il mondo si era piegato alle logiche che avevano colpito un po’ tutte le aziende manifatturiere, alle varie latitudini.

    Invece di poter assistere alla realizzazione di una bara, avrebbe dovuto cercare altre soluzioni. Gli scappò un peccato! tra sé e sé, ma al tempo stesso un’altra idea lo fece sorridere e anche desistere del tutto da questo tipo di ricerca: se poi, sul posto, gli fosse venuta voglia di provare la bara? Di accomodarsi dentro, anche solo per qualche istante, per provare l’effetto che fa? Sarebbe stato come distendersi su un letto, ma vedendosi limitare la visione del soffitto da uno spessore laterale in legno che costeggia il proprio corpo? E magari per trovarsi poi a dire qui sto un po’ stretto, oppure allargatemi lo spazio per le braccia e per le spalle, come se ci fosse poi l’esigenza di muoversi all’interno o comunque di trovarsi a proprio agio, come in un abito?

    Con la stessa sicurezza, era esclusa l’ipotesi di una bara fai da te: sapeva bene di non possedere la necessaria manualità artigiana, di non essere in grado di mettere insieme i pezzi in un modo sicuro e resistente. E sicuramente un improvviso dedicarsi al bricolage avrebbe forse destato sospetti. E nemmeno lo entusiasmava l’idea di rivolgersi a un falegname; anzitutto, per non dover dare spiegazioni.

    Tutto portava alla scelta su Internet di un cofano funebre pronto all’uso: con superfici piane, senza troppe geometrie sovrapposte né arzigogoli decorativi. Insomma, una bara essenziale, lineare, chiara, quasi una tinta pastello. Un’idea di natura e insieme di sobrietà poteva venire anche da un semplice color legno, chiaro: così preferiva Gregorio, così avrebbe fatto per sé.

    Ebbe inizio allora la ricerca, del tutto insolita agli occhi dei più, di una bara che potesse soddisfare i requisiti tecnici necessari al momento del bisogno, ma che al tempo stesso fosse adatta fin da subito per essere decorata secondo i gusti del futuro fruitore.

    Personalizzabile, per certi aspetti, per quello che sarebbe potuto sembrare un capriccio, mentre per Gregorio era un pensiero che stava diventando importante. Aveva anche preso lezioni di intaglio e di scultura, seguendo il lavoro di alcuni appassionati della sua zona, quasi un gruppo di poeti del legno che amavano l’idea di trasferire questo tipo di competenze a chi potesse dimostrare passione quanto loro nel voler dare forma alla materia. Li aveva seguiti, per prendere confidenza con gli attrezzi necessari, poi avrebbe cercato di sviluppare autonomamente le tecniche.

    Poteva ora muovere i primi passi, alla ricerca dell’arca per sé. Quale arca, poi, seppur in legno? Sarebbe stato Noè di se stesso? Di certo c’era solo che stava andando incontro a un diluvio da cui nessuno esce vivo, da cui nessuno ritorna. Nessuna colomba, nessun ramoscello: forse qualche fiore, ogni tanto, e nulla più.

    In questo primo giro, comunque, non poteva immaginare molte differenze nelle misure, sulla base dell’esperienza e per i funerali a cui aveva partecipato. C’erano bare di formato ridotto, sì, ed erano le più commoventi, quelle destinate ai piccoli angeli che tornano in cielo. Per il resto, però, le bare sembravano un po’ tutte uguali: forse fino a quel momento non aveva mai riservato troppa attenzione ai dettagli, in questo ambito specifico.

    Su Internet si accorse che i produttori non erano moltissimi e che in effetti, nel comparto, un paio di Paesi più di altri dicevano la loro. Soprattutto, però, capì che avrebbe faticato a immaginare una tale varietà di cofani funebri tra cui scegliere. Si incuriosì, ad esempio, quando vide le linee europea e americana nel catalogo di un’azienda; in quello di un’altra, poi, c’erano pure le versioni asiatiche.

    Tutto ciò lo lasciò un po’ perplesso: non si muore forse tutti allo stesso modo a ogni angolo del globo? E poi in Occidente riti e culture non sono simili un po’ ovunque? In ogni caso, avrebbe optato per il vecchio continente e soprattutto per la massima semplicità.

    Nemmeno quest’ultima, però, pareva a portata di mano: la scelta non si presentava affatto facile perché la quantità di forme era notevole, una molteplicità da rimanere stordito. I cofani (ormai si stava abituando al termine) avevano superficie liscia, ma potevano anche essere intagliati, intarsiati, decorati con materiali preziosi; sorridendo, pensò all’antico Egitto e ai faraoni, al loro riposo eterno circondato dall’oro.

    Nemmeno in quanto a varietà di forme si scherzava: lo schema di riferimento (la bara più larga all’altezza del busto, quindi una forma con sei lati) aveva una serie di variazioni, da un comune rettangolo fino a forme anche con otto lati e con angoli arrotondati.

    I produttori, però, si sbizzarrivano soprattutto nella superficie esterna: i decori, le scene del dolore nella tradizione cristiana (la pietà, l’ultima cena, la croce), la Madonna, alcuni santi, oppure motivi floreali e geometrici. Il tutto con tecniche differenti che contemplavano anche stampe colorate, intagli e incisioni, aggiunte di qualsivoglia natura.

    Una varietà a tratti eccessiva, agli occhi di Gregorio. Lo pensò anche di fronte all’accoppiata falce e martello (della serie: comunista fino all’ultimo, e anche dopo!) che vide proposta accanto a simboli religiosi per decorare le bare, dalla mezzaluna alla stella a sei punte, fino alle tantissime croci, presentate in diversi stili.

    Dopo aver riversato nella cronologia del browser pagine i cui contenuti avrebbero potuto riempire un cimitero, alla fine Gregorio scelse un modello di bara che gli sembrò originale e adatto, per la sua composizione lignea: con quattro lati, si presentava più larga alla testa e più stretta ai piedi, con le superfici laterali, superiore e frontale del tutto lisce. La tonalità era chiara, il colore gli piacque; in più veniva prodotta da un’azienda italiana, e lui non considerava negativo un piccolo fremito di sentimento nazionale.

    C’era addirittura una scheda tecnica con le misure, per tutte le valutazioni del caso: la superficie interna gli sembrò sufficiente, anche in prospettiva futura, e così decise che quello sarebbe stato il riferimento e che sulla base di quelle dimensioni avrebbe personalizzato la parte superiore.

    Insomma, avrebbe trasformato in un pezzo unico il frutto di una produzione di serie e quasi industriale, facendone uno specchio del suo stesso inquilino; l’avrebbe resa comunicativa, per certi versi trasparente, quasi in grado di trasmettere qualcosa di quanto vi è contenuto.

    L’intenzione era quella di realizzare la decorazione esterna della bara con scene della propria vita, cercando di trasformare in segni e tratti i momenti più importanti, quelli da portare in eterno con sé. Un po’ come un tatuaggio che richiama qualcosa di unico, una persona, un passaggio della vita.

    All’interno del loculo (perché questa era la sua scelta, anche per la durata e la resistenza del legno) la bara avrebbe potuto mantenere la funzione contenitiva e comunicativa per parecchio tempo. E quei messaggi, in fondo, erano rivolti anzitutto a se stesso, per ricordare ciò per cui si può dire che vale la pena vivere.

    La scelta del cofano era stata fatta, le misure per pianificare la personalizzazione erano disponibili. Per l’interno, per l’abbinamento di fodere e tessuti, eventuali cuscini, si sarebbe posto il problema in un secondo momento. Anche se il pensiero lo spingeva inevitabilmente al sorriso: c’era forse bisogno di star comodi in quella situazione, di sentirsi a proprio agio e nel pieno comfort? Avrebbe soltanto scelto il colore, ad esempio un bel rosso, oppure una tonalità dell’azzurro, magari come le sue lenzuola preferite. Per un sonno eterno, avvolto in colori vivi.

    A quel punto per Gregorio non rimaneva che dar vita alla sua personalissima mappa, abbozzare prima in disegni ciò che avrebbe voluto realizzare nel legno. I pensieri erano tanti, le idee escludevano la sola parete inferiore del cofano; tutto il resto sarebbe stato abbellito. E al termine della fase progettuale, le proposte furono raccolte in un foglio, lo schizzo del suo prototipo con superfici e disegni, bozzetti, frasi con disposizione e ipotesi di lettering.

    Sul fronte, davanti ai piedi, un libro aperto, con su riportata una citazione dal libro di Giobbe: Nudo sono venuto al mondo / e nudo ne uscirò / Il Signore dà / Il Signore toglie / Sia benedetto / il nome del Signore.

    Sul lato opposto, dietro la testa, frasi dal Salmo 139, su una tavola più ampia affinché la scritta non risultasse troppo minuta: Signore, tu mi scruti e mi conosci / Ti sono note tutte le mie vie / La mia parola non è ancora sulla lingua / e tu, Signore, già la conosci tutta / Tu mi conosci fino in fondo / Non ti erano nascoste le mie ossa / quando venivo formato nel segreto / intessuto nelle profondità della terra / Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi / e tutto era scritto nel tuo libro / I miei giorni erano fissati / quando ancora non ne esisteva uno.

    La superficie più importante sarebbe stata ovviamente quella superiore: la facciata più visibile e più guardata, leggermente inclinata, sarebbe stata come un libro aperto, un messaggio completo, da leggere e da contemplare, anche se per un paio di giorni appena. E allora lì sarebbe finita un po’ tutta la sua vita, inevitabilmente in episodi e citazioni che si caricavano della responsabilità di essere i più importanti.

    Fotogrammi tra migliaia e migliaia di attimi che dal flusso di tante scene aspiravano a diventare una sequenza di immagini predilette. Quelle sufficienti per una sintesi completa, per passare da momenti qualunque ad attimi assoluti, acquisendo così uno status di eternità.

    Ci vollero diverse sedute solitarie per disegnare la mappa, per sintetizzare su un foglio quello che sarebbe diventato il quadro, per trasformare in linee di biro i riferimenti per plasmare pezzi di legno.

    L’idea di

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1