Odio gli italiani
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Sono passati tre anni da quando ho scritto questo romanzo e ancora ricordo alla perfezione il momento in cui questa storia mi ha attraversato da parte a parte, lacerandomi senza lasciare alcuna possibilità di cura se non la scrittura.
Avevo vent'anni e, come la maggior parte delle persone su questo pianeta, svolgevo un lavoro che non corrispondeva affatto ai miei sogni. Ma in quelle ore vuote, nocive per l'anima, mi capitò in mano un articolo che parlava dello sfruttamento dei bambini in Africa da parte di una comunità italiana.
L'ho riletto non so quante volte, quell'articolo. Tornato a casa ho fatto ricerche su Internet e mi sono stupito del fatto che quasi nessun giornale parlasse di quella situazione. Così, dopo vari approfondimenti, mi sono detto: «Se non ne parla nessuno, lo faccio io.»
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"Ho letto il tuo romanzo e non posso che farti i miei complimenti! Già dall'inizio introduci l'atmosfera dell'odio razziale e sai catturare il lettore" Barbara Baraldi
"Odio gli italiani, esordio del giovanissimo M. Ponte, è un'opera particolare, intensa e fresca allo stesso tempo... Un libro dallo stile semplice e immediato, scorrevole e che vale sicuramente la pena di leggere, nonostante i piccoli difetti presenti, per i difficili argomenti trattati" Libri e recensioni
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Odio gli italiani - Michele Ponte
Grazie.
Prefazione a cura dell'autore
Sono passati tre anni da quando ho scritto questo romanzo e ancora ricordo alla perfezione il momento in cui questa storia mi ha attraversato da parte a parte, lacerandomi senza lasciare alcuna possibilità di cura se non la scrittura.
Avevo vent'anni e, come la maggior parte delle persone su questo pianeta, svolgevo un lavoro che non corrispondeva affatto ai miei sogni. Ma in quelle ore vuote, nocive per l'anima, mi capitò in mano un articolo che parlava dello sfruttamento dei bambini in Africa da parte di una comunità italiana.
L'ho riletto non so quante volte, quell'articolo. Tornato a casa ho fatto ricerche su Internet e mi sono stupito del fatto che quasi nessun giornale parlasse di quella situazione. Così, dopo vari approfondimenti, mi sono detto: «Se non ne parla nessuno, lo faccio io.»
Roma, 22 dicembre 2012
Michele Ponte
ODIO GLI ITALIANI
romanzo
Edizioni Il Foglio
A Lavinia,
che mi ha insegnato
quando mettere l’H
davanti alla A.
C’è un posto nel mondo
dove gli italiani hanno tutto,
e con tutto intendo
qualsiasi cosa essi desiderano.
1
Una linea immaginaria divideva la spiaggia. Da una parte, sotto l’albero, sedevano cinque bambini neri più Alessia, che era bianca come la camicia di un cameriere appena uscita dalla lavatrice, dall’altra c’erano dieci bambini olivastri, figli di italiani, che giocavano a calcetto durante la ricreazione. Questi ultimi stabilivano la flessibilità della linea.
Un pallone finì sotto l’albero e Daoud lo colpì di rimbalzo.
«Sporco negro, chi ti ha permesso di toccarlo?» urlò Marco avvicinandosi.
L’insegnante si affacciò fuori dalla sua aula al limitare della spiaggia. Era tesa in viso perché sapeva di non poter intervenire.
Daoud indietreggiò mentre Marco si avvicinava.
«Eh, allora?» disse Marco che lo afferrò per il collo della maglietta e lo strattonò.
«Questa è la mia maglietta per andare a scuola.»
«Bene, così ora ne avrai una seconda per lavorare.»
«Lascialo in pace!» intervenne Alessia.
«Oh, oh, qui abbiamo la paladina della giustizia che…»
«Che si fa due risate con gli idioti come te.»
«Piccoletta, sei qui solo perché tua madre è la maestra. Potremmo farla licenziare, sai?»
«Ah sì, e cosa racconterai a tuo padre? Che ti sei fatto umiliare da una ragazzina?»
Marco fece per rispondere, ma la voce dell’insegnate arrivò squillante: «Ragazzi, su, rientrate, la ricreazione è finita.»
Marco si avvicinò ad Alessia e sottovoce disse: «Rompiscatole, con te non finisce qui.»
Alessia lo ignorò, si avvicinò all’insegnate e la guardò torva. «Mamma, perché non hai detto niente?»
«Ti ho già detto che non devi chiamarmi così quando siamo a scuola.»
«Non deviarmi le domande, non sono stupida.»
«Ne riparliamo a casa.»
Una linea non immaginaria divideva la classe. Due file da cinque banchi ciascuna, con due posti per ogni banchetto, erano disposte di fronte alla cattedra dell’insegnate, Mirella, la madre di Alessia.
Le file erano divise a seconda del colore della pelle. Anche in questa situazione Alessia era quella che stava con i bambini neri, ma la seggiola accanto al suo posto era vuota.
Daoud e gli altri avevano paura a sedersi accanto a lei a causa delle minacce dei bambini dell’altra fila.
Alessia ne era consapevole. Le mancava tanto la sua amica che non si faceva problemi e guardava storta i bianchi dell’altra fila.
Lei non poteva più venire a scuola: aveva iniziato a lavorare, altrimenti avrebbe dovuto smettere di mangiare. Lei aveva un fratello di qualche anno più vecchio, e anche lui aveva frequentato quella stessa classe tempo prima.
Alessia disegnò sul banco un cuore a metà, come un 2 senza la riga orizzontale; forse un giorno l’amica l’avrebbe completato.
C’erano altri posti vuoti in quella fila, di molti non si sapeva nulla.
2
Giovanna e Gianluca scesero dell’aereo, presero un bel respiro per assaporare la terra d’Africa e la brezza oceanica, e si diedero un lungo bacio. Poi, mano nella mano, varcarono i tornelli felici d’iniziare il viaggio di nozze nel migliore dei modi.
Un alto signore, coi loro nomi segnati su un cartello, li attendeva di fronte ad una jeep color sabbia. Sorrise, strinse loro la mano e, dopo aver sistemato i bagagli, aprì entrambe le portiere laterali.
«Doppi G», li chiamava scherzosamente, «vi faccio fare prima il giro della città o preferite andare direttamente in albergo?»
«Prima il giro!» risposero eccitati.
Il guidatore, Ogg, li condusse dalle spiagge con le alte palme alle capanne lungo la periferia, dai luoghi turistici a quelli che vedeva solo la gente del posto, sino ai mercati del centro e poi, passando per strade laterali, li portò al loro alloggio.
Nel frattempo il loro sorriso si era smorzato del tutto, lasciando intravedere un’ombra di delusione. Le guance di Giovanna erano rigate dalle lacrime e le nocche di Gianluca erano impallidite per la forza con la quale stringeva il sedile.
Ogg parcheggiò, si voltò e disse: «Mi dispiace, ma ho bisogno che voi, e gli altri turisti, vediate la realtà; così, quando tornerete nel vostro paese, sarete in grado di testimoniare. Specialmente voi italiani…» Prese una pausa e li guardò negli occhi: «Non fate sapere al personale dell’albergo che vi ho fatto fare questo giro.» Poi Ogg porse un fazzoletto a Giovanna per farle asciugare le lacrime.
3
Una prostituta sedeva su quello che era nato per essere un marciapiede. Le stelle si vedevano alte nel cielo, non c’erano lampioni a nasconderle. Gli unici sprazzi di luce provenivano dalla torcia che lei, Monique, aveva in mano.
Provava varie angolazioni, aveva bisogno di farsi notare dai clienti. Dapprima dal basso, poi dall’alto, proiettava ombre di una magra bambina sul muro. Monique aveva undici anni.
Così non sembrava bella per niente, pensò.
Cercò d’incastrare la torcia tra due rami in modo da crearsi un