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La seconda onda
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La seconda onda

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Tutti si trovano smarriti ad un certo punto. Timorosi nel compiere passi azzardati e dolorosi, bloccati da rovi pungenti di ricordi e desideri avvelenati. Tra amori e tradimenti e divorzi e matrimoni e silenzi e bambini voluti o mai avuti e malattie e vecchiaia ed emozioni e porno e sogni e monotonia e chiesa… Chiunque, tranne Stephen. Lui ormai non prova emozioni per nessuno, non giudica e non desidera. Mike è la sola persona con cui Stephen si confida, l’unico amico in grado di comprendere e calmare i suoi eccessi. Il loro rapporto è schietto e sincero, entrambi si portano dentro ombre e demoni del passato, entrambi affrontano il presente come un pesante punto interrogativo, fermando istanti nel tempo con il flash di una macchina fotografica e immaginando un futuro come nel film più avvincente. Un romanzo moderno, scritto in uno stile tagliente e sarcastico, introspettivo e grottesco, da leggere tutto d’un fiato con un sorriso amaro sulle labbra.

Patrik Nicotera è maggiorenne da un pezzo degli anni ’90 e vive nutrendosi di pizza, film e storie incredibili di gente comune. Scrive soggetti, racconti, romanzi e un sacco di mail che allarmano persone. È regista, scrittore, cantante… in pratica un disoccupato.
LanguageItaliano
Release dateAug 10, 2018
ISBN9788856792218
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    La seconda onda - Patrik Nicotera

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 9788856792218

    I edizione elettronica marzo 2018

    1

    Non era chiaro alla sua mente il preciso istante in cui cominciò a sprofondare nella merda. Ci si era ritrovato e basta. Senza grossi drammi. Come quando entrava nella sua DS e cominciava a guidare tanto per mangiare ore al nulla, senza meta, finendo in qualche cazzo di posto del cazzo, pensando a come si era ritrovato nella merda… Proprio come in quel momento.

    Le gomme inchiodano e fanno salire il pulviscolo nel cono di luce giallastra dei fari. Puntano su di una vecchia sbarra arrugginita. Sospira e si guarda attorno nel nero che lo avvolge, togliendo compressione agli ammortizzatori. La grossa scocca respira cambiando leggermente inclinazione fino a mostrare un pallido bagliore lunare che vibra tra nubi grosse quando scruta attraverso il parabrezza dal cruscotto. Apre lo sportello facendo gridare sordamente la lamiera. Tutto è silenzioso. Solo il volume della piccola mangiacassette che suona un nastro delle superiori. Musica che cade dentro pericolosa. Come il sangue di Alien. Nessun ostacolo, bucando la pelle più dura, fino al cuore per segnarlo per sempre. Butta i pugni al cielo e piega il collo verso il basso. Stira la schiena e spegne la sigaretta sotto le Converse. Si passa una mano sulla barba grigia e osserva di fronte. Si intravede l’ombra imponente di una costruzione alta circa una quindicina di metri. Cambia inclinazione agli occhi che tornano al loro posto quando capisce che il sole sta per esplodere. Apre il bagagliaio di ferro pesante e accende una piccola luce al neon che muove come uno scanner, fino a pescare una scatola nera lucida.

    «Siamo arrivati piccola».

    Chiude il cofano. Al collo una Panon Widelux f7 35mm. Con le mani trasporta un cavalletto tripode di legno. Oltrepassa la sbarra e lo apre aiutandosi col piede.

    Sono quasi cinque anni che va avanti questa storia. Una notte sognò un grosso serpente dorato che lo guidò verso il buio per poi spegnersi in un limbo scuro. Quando riaprì gli occhi guardò Ellis al suo fianco. Era una donna dai lineamenti duri capaci di un grande sorriso. Ma la vita glielo tolse con un gesto violento. Nessuna apparente spiegazione per l’interruzione di una gravidanza dopo cui precipitò in un odio violento contro la sua stessa natura. Non esistere era un concetto molto vicino al moto spento che era rimasto alla loro vita di coppia. Lui attraversava i campi minati di Ellis con attenzione rigorosa. Lei li rimescolava ogni giorno, persa dentro al suo buio, in cerca di espedienti capaci di stravolgere la quiete del momento per esplodere nei soliti drammi. Una posata. Una parola. Una foto. Un ricordo. Sassi pesanti che la tenevano a respirare sul fondo delle emozioni più cupe. Fino a piangere silenziosa e senza lacrime nel vuoto freddo della camera da letto. Come una statua. Immobile. Solida. Restava lì per ore. Impenetrabile e pronta a migliaia di anni nella stessa posa. Nulla sarebbe riuscito a mutare di una virgola il suo mantra di dolore.

    Lui la guardava come farebbe una mosca. Era una mosca. Invisibile il più delle volte. Stranamente fastidiosa in alcune inevitabili occasioni. Si posava in un angolo e la fissava pensando per ore. Giorni. Cercava di immaginare come fosse possibile rompere quel maledetto sortilegio. Poi, una notte, raccolse di fretta qualche capo dalla cesta della biancheria sporca, scostò la tenda e fece baciare Ellis dalla luna. Piazzò la solita vecchia camera sul cavalletto e rubò l’anima della realtà diversa che non lo amava più da anni.

    La pellicola nella macchina è una INFRARED 400 35mm. Con lei continua a perdersi e fare scatti cercando il suo destino. Quasi certo di non trovarlo. Di aver scoperto il suo meccanismo perpetuo per distrarsi dal mondo e le sue creature. Quando la paranoia lo chiude all’angolo, tra aridità e solitudine, sale in auto e si abbandona alla musica di vecchi nastri in cassetta mischiandola al fumo di sigaretta e all’oceano dei buoni ricordi. Come un antico rito. Fino a seminare le sue ansie.

    Centra l’inquadratura e apre la posa. Gli piace non sapere. Fotografare qualcosa che quasi non si vede per poi valutarlo a distanza. La musica di Seattle si disperde mano a mano che si allungano i passi, fino a rimanere di sottofondo rispetto ai grilli. Tutto molto anni Novanta. Con il moschettone che fa sbattere un grosso mazzo di chiavi sulla tasca che custodisce lo Zippo. Ogni volta che si abbassa saltano le bretelle ma non servono a molto, i pantaloni sono sempre una spanna sotto i boxer, anche quando le riaggancia ai jeans stretti e grigi. Blocca il passo e rompe il quadro quando si infila in bocca uno strano oggetto metallico dando avide boccate: «Mmmmphhhhh!», di gola!

    Tira le narici fino a chiuderle e butta nuvole dense di vapore dal sentore caramelloso. Con un ampio gesto di mascella. Ripete più volte l’operazione ricordando i gesti con cui da piccolo finiva il frappè succhiando dalla cannuccia. L’ultimo tiro era capace di svuotare del tutto il grosso bicchiere di carta e gonfiare i polmoni per renderli duri come le ruote della sua BMX.

    Ripone l’aggeggio nell’astuccio che cade come il cinturone di un western e assicura stabilità al cavalletto tramite una piccola catenella artigianale che regola le gambe con un raggio preciso. Estrae di nuovo la sigaretta elettronica e rilascia il vapore dal labbro inferiore aspirandolo dalle narici. Ruota la testa verso l’alta struttura che comincia a schiarire. Il vuoto buio prende forma ridisegnato sempre meglio dalla luce solare che continua a crescere.

    Decide la giusta direzione di scatto e assicura la macchina al cavalletto stringendo una piccola frizione. Afferra un cavo per il comando remoto capace di lasciare ferma la macchina e lasciargli le mani libere una volta premuto il meccanismo.

    Subito dopo si gira e accende una sigaretta vera, tirandola fuori da un astuccio di metallo lucente e sottile.

    Ha ancora un’ora prima che inizi il turno. Tornato in macchina si fermerà al piccolo chiosco per un caffè ed un cornetto, poi l’acciaieria che lo aspetta sempre lì, da oltre quindici anni. Lavoro duro e semplice per pochi soldi sicuri, investiti al fine di trasformare il suo appartamento in un piccolo laboratorio.

    Negativi appesi a sgocciolare nel bagno. Termostati. Bacinelle. Un vecchio ingranditore che somiglia alla testa di un robot di una serie animata. E poi tutta quella roba accumulata negli anni. Registratori, walkman, giradischi, VHS, Hi8, DV, Minidisc, BVU e un sacco di porno in 8mm. Si ripromette di far funzionare tutto prima o poi, ma non basta mai il tempo. Vuoi per i pezzi fuori produzione, vuoi per la difficoltà di ritrovare in rete le istruzioni sepolte da quintali di spazzatura scritta da chiunque. Pagine e pagine in continuo conflitto tra loro, in cui affiora sempre la merda condita bene. Se vuoi parole semplici e dirette devi andare nel fondo della ricerca. Alle pagine più lontane.

    Cartoni. Borse. Sacchetti. Teli. Macchinari e cavi che a legarli insieme si potrebbe ripercorrere il perimetro di tutta quella maledetta acciaieria! È evidente la sua natura da accumulatore vintage compulsivo. Ogni spazio di quella piccola mansarda è occupato da qualcosa che aspetta il proprio turno.

    Quando si ferma un attimo, si sente avvolto dalle voci di ogni oggetto. Ognuna col suo difetto e la sua storia. Ogni anima col proprio reclamo in attesa del suo aiuto facendolo sentire come Dio, col compito di sistemare ogni piccolo problema. Ma lui non è eterno. Solo un po’ più stanco. Un po’ più arido. Un po’ più distante.

    Finito il turno sarebbe tornato al chiosco a prendere un caffè e un cornetto e poi di corsa a casa, a sviluppare, smontare, comprendere e inventare, per poi accasciarsi demolito in quella solita porzione di letto sgombera. Quella vicino allo scatolone-comodino, con una piccola luce e un grosso posacenere PUNT e MES. Poi di nuovo fabbrica, a pensare analogico in un mondo imprenditor-proletario oramai schiavo del 4K su schermi di cellulari da 4,7 pollici.

    Ma c’era ancora tempo prima di finire quella domenica di maggio. Regola l’esposizione lunga e tira fuori un’armonica. Dà una boccata densa di vapore e lo soffia attraverso l’accordatura in Sol. Nel controluce della luna che cresce alle sue spalle, lascia alla macchina fotografica tutto il tempo che vuole, mentre le note suonano fumose ripercorrendo la melodia del nastro. Sempre lo stesso, sempre in autoreverse a fargli compagnia.

    2

    Il punto di ritrovo è sempre quello. Le persone cambiano di frequente. Sono sempre di più i tipi che arrivano in bici con uno zainetto sulle spalle. Si fermano all’entrata e fanno commenti gustandosi l’ultima sigaretta libera. Quasi tutti hanno un tatuaggio al braccio e una cosa da raccontare. Tra gli argomenti più gettonati spiccano il calcio, i talent/reality/kitchen/survivor show. IKEA, MotoGP, la nuova bella fica che lavora al bar. Tizio e Caio. Hanno vinto con un gratta e slot. Forse sono terroristi. Superenalotto e bollette troppo care. Capiturno incapaci che leccano il culo. Sai chi è frocio?.

    Non sa di che parlare. Non ha un bel braccio per mostrare un tatuaggio. In realtà non si accorge più dei colleghi. Ora sono mosche per lui. Ha imparato nel tempo ad entrare in una dimensione metafisica. Un mezzo spettro che non ha bisogno di nessuno e che non vuole essere complice in nulla. Talvolta qualche ragazzo più giovane ci prova. Gli butta una mano sulla spalla e lo invita a bere una birra. Sa che è meglio tenere i rapporti freddi e chiari in quella balena d’acciaio. Quando qualcuno cerca complicità c’è sempre sotto qualcosa, è solo questione di tempo. Una lotta sindacale. Un cambio di turno. Un problema di inesperienza. Confidenze sulla propria squallida vita. Avere amici lì, è come essere in trincea con un traditore che non sai riconoscere. Prima o poi succederà qualcosa. Ti colpirà alle spalle per il pacchetto di sigarette o ti farà ammazzare perché non ha esperienza e ti ficcherà in ogni caso nella stessa merda che gli hai detto di evitare. Meglio creare un limite comunicativo e parlare il meno possibile. Se apri bocca a quarant’anni è sempre un fottuto rischio. Qualcuno si offende quasi sempre. Gli stai sul cazzo perché sei lì a ronzare fastidioso. A ricordargli chi è. Che qualcosa è sbagliato anche nella sua vita. Nella donna che ha scelto. Nel figlio che ha avuto. Nella squadra che tifa. Nel politico che vota. Nella puttana che paga. Nella macchina che cambia ogni sei anni. Tutti i ritratti si somigliano molto quando sono schiacciati da tempo nella stessa pesante cornice. Tutti potevano fare scelte diverse e vincenti. A lui non è mai fregato un cazzo di essere un vincente. Per questo non ha nulla da condividere prima dell’inizio del turno.

    Fuma la sua sigaretta in disparte e fissa un murales con una grande galassia. La terra è una molecola di Dio?, si chiede. Dà l’ultima boccata e si mischia agli altri schiavi part-time intenti a guadagnare il cancello. Si domanda se esista veramente un Dio. Ma oltre quel cancello non avrebbe fatto differenza. Sarebbe più utile un blackout. O avere prove per ricattare qualche pezzo grosso ed ingannare meglio la morte.

    Il tempo che dedica a quel mostro di acciaio non lo vive più. Solo sudore e bestemmie che echeggiano qui e là in sottofondo, mentre veste la sua tuta invisibile. Come un palombaro si immerge in un ambiente ostile e si muove tra macchinari vecchi che si inceppano per usura e mossi da automi destinati a commettere errori. La parte che fa paura delle macchine, è che sono programmate per non sbagliare mai. È la loro caratteristica inumana. Ma l’uomo riesce sempre a fare qualcosa di sbagliato. È nella sua natura. Quelli che sbagliano poco sono scolpiti e forgiati da quel posto. Come lui. Non è il suo ambiente. Non c’è stile, nessuna passione, non è richiesta inventiva. Ombre grigie. Nascoste. Incazzate. Isteriche. Gli uomini si trasformano in ratti oltre quel cancello e quando avvertono il pericolo cercano di correre lontano saltandosi addosso. Nessuno di loro vuol lottare fuori coro per il proprio senso di giustizia. Si spostano in massa come scarafaggi che fuggono il piede che sta per schiacciarli per poi tornare lì ad aspettare. Alla fine del turno lavano via ogni traccia di sporco che copre l’orgoglio, sotto la doccia tornano a vivere come uomini liberi, vivi ancora una manciata d’ore, appena si ritrovano in mano le palle che per otto ore hanno parcheggiato nei loro armadietti. Tutto torna in equilibrio nella loro testa, spingendosi all’estremo per compensare il nulla che da troppo tempo riempie le loro giornate identiche. I più giovani pensano alla figa o alla moto. Grossi gesti. Devono mordere un’emozione in grado di colmare il loro senso di schiavitù

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