Lago Negro: Racconti
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Book preview
Lago Negro - Pierpaolo Grezzi
PIERPAOLO
GREZZI
LAGO
NEGRO
RACCONTI
www.altrimediaedizioni.com
facebook.com/altrimediaedizioni
@Altrimediaediz
Titolo dell’opera:
Lago Negro Racconti
© 2018 by Pierpaolo Grezzi
ISBN: 9788869600814
© Altrimedia Edizioni è un marchio di
Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria
Prima edizione digitale: 2018
Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
CONCERTO GROSSO PER LAGONEGRO
Tutto cominciò con l’arrivo della lettera, il mercoledì dopo la festa della Madonna di Sirino. L’aprì mio padre al mattino, io ero in giro per i miei sogni, che chiamavo lavoro. Rientrai per cena, alle otto in punto, e sentii un bell’odore di carciofi.
«È arrivata quella lettera, vedi se è roba tua», disse mio padre. La roba tua
erano le comunicazioni decisamente astratte rispetto al piccolo contesto del nostro piovoso paesino del sud. Da che mi ero messo in testa di creare l’agenzia letteraria Lukania
, con relativo blog, ogni tanto arrivavano lettere di scrittori che sottoponevano i loro manoscritti, o inviti a conferenze, a fiere di libri, e cose del genere. Ogni tanto arrivava qualche comunicazione dalla Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Basilicata.
E tutto ciò andava sotto la categoria di roba tua
.
La busta bianca era del tutto ordinaria, senza alcuna intestazione e con l’indirizzo scritto a mano, con una grafia regolare e contenuta, forse di una mano femminile.
In occasione dell’arrivo di Martino Sangiorgio in città, la S.V. è invitata a partecipare al seminario che si svolgerà sabato 20 settembre, alle ore 21.00, presso il Cinema Iris – via Napoli, Lagonegro (PZ)
.
«E chi è?», chiesi a mio padre.
«Non ne sono sicuro, ma dovrebbe essere il figlio del notaio Sangiorgio. Me lo ricordo da piccolo, poi è partito e non se n’è saputo più niente».
«Ho capito, ma un seminario su cosa? Che fa questo qua?»
«Non lo so».
«Non faceva il medico?», si inserì mia madre, mettendo un carciofo fumante nel mio piatto.
«Basta, uno solo …»
«E prendine un altro!»
«Sono a dieta, ma’».
«Dai, te ne do uno piccolo…», e cadde nel piatto un altro carciofo bollito ripieno della pastella al formaggio, «mi sembra che ha studiato medicina», riprese mia madre, «e poi è andato a fare il dottore in Africa o non so dove».
«Ma che invito è? Un seminario… ci vuoi scrivere su cos’è il seminario! Vabbè, comunque domani vado a Salerno, torno lunedì prossimo. Quindi non ci sono».
«Domani?», ripeté preoccupata mia madre.
Il Tg1 stava dando un’intervista a Umberto Eco, roba mia
… Presi il telecomando e alzai il volume. La TV stroncò il nostro discorso. Continuai a mangiare masticando pensieri tra me e me.
Appena finito, mi ritirai in camera a lavorare, come facevo sempre ultimamente. Mi stavo chiudendo sempre più nel mio mondo appesantito e, a volte, vano. Avevo molte cose da fare, molte cose sospese: il progetto del concorso letterario a Matera, la revisione dell’articolo su Pasolini, che stavo scrivendo e riscrivendo da non so quanti mesi, le correzioni dell’antologia di poesie che doveva andare in stampa ed era già in ritardo, e molte altre cose. Tutto si accumulava e si mischiava: i pensieri, goccia a goccia, stavano riempiendo il vaso, che rischiava di strabordare.
Tirai fino a mezzanotte, poi gli occhi non ce la fecero più. Spensi il computer e riordinai le carte che dovevo portarmi a Salerno. Feci velocemente la valigia, per fortuna mia madre mi aveva già stirato e piegato le camicie, come sempre. Mi guardai un po’ intorno per ricordare tutto quello che c’era da prendere, sapendo che avrei comunque dimenticato qualcosa. Betty mi aspettava, era felice che andassi da lei, ma sapevo che avrebbe ricominciato con le domande. Si sarebbe laureata in economia tra pochi mesi e, dopo tutto quel tempo, non potevamo certo continuare a rimanere nella clandestinità. Una clandestinità che lei proprio non capiva. E anch’io iniziavo a non capire più. M’avrebbe fatto delle domande, legittimamente. E io non avrei dato alcuna risposta, ostinatamente.
Tra questi pensieri m’addormentai.
Un suono lunare mi trascinò fuori dal sonno. L’indefinito segnale del BlackBerry mi ronzò accanto per avvertirmi che era arrivato un messaggio. Decisi di leggerlo la mattina dopo. Era meglio così. Che poteva essere di tanto importante? Che poteva esser mai successo a quell’ora della notte? No, non poteva essere nulla di che. Mi girai dall’altra parte per continuare a dormire.
Ma il pensiero di quel messaggio cominciò a rimbombare. E mi costrinse a sollevarmi dal letto e prendere in mano il telefono.
Non credo che nella tua vita ci sia spazio per me. O forse non c’è mai stato. Non venire domani, preferisco così. Prendi il tuo tempo e dammi una risposta definitiva. Betty.
Sapevo che prima o poi un messaggio del genere sarebbe arrivato. Provai a dormire, ma non ci fu nulla da fare. Mi alzai, andai in cucina, aprii una birra e guardai fuori dalla finestra, da cui si vedeva una strada vuota. Il vuoto di sempre. Pensai ai miei 34 anni e all’infinità di errori che avevo fatto. E forse ne stavo per fare un altro.
Quando il chiarore dell’alba trasformò il giallo freddo dei lampioni nel ghiaccio luna spento del mattino, tornai a letto, per dormire almeno un paio d’ore.
Quel giovedì mattina non riuscii a far nulla. Mi chiusi in camera, con i Pink Floyd a tutto volume.
Trascorsi un paio di giorni immobili.
Mi ricordai del seminario di sabato. In fondo, ci sarei potuto anche andare, almeno m’avrebbe distratto da quel baratro.
Mangiammo alle 20.00 in punto, come sempre, e, dopo il Tg1, mi cambiai, presi l’ombrello nero di mio padre e uscii.
Piuttosto insolitamente per un’attività culturale, c’era il pienone. Anzi, ebbi difficoltà a trovare un posto a sedere. Alcuni ragazzi addirittura s’erano messi a terra, molti rimasero in piedi. Pensai che forse loro s’erano informati meglio e sapevano di che si parlava. Non sapevo dire se tutta quella gente fosse garanzia della bontà dell’evento o meno.
Forse quel Sangiorgio era famoso e solo io non lo conoscevo. Magari era un personaggio della TV. Ma no, nemmeno Carmine lo conosceva…
Attesi senza chiedere nulla, visto che c’ero, avrei giudicato da solo. Mi guardai intorno e vidi alcuni volti noti, di quelli che avevano segnato la mia infanzia. Franco il tabaccaio, Peppe il postino, il prof. Alberti. C’era mezzo paese.
Verso le 21.15 si spensero le luci.
Il sipario era ancora chiuso e s’udì il suono di uno strano flauto, che suonava note lunghe e leggere, intervallate da prolungati silenzi. Un flauto orientale, avrei detto. La musica sembrava provenire da nessuna parte, eppure c’era. Si aprì lentamente la grossa tenda di velluto rosso e, al centro del palco, illuminata da una luce intensa, c’era una sedia vuota. Nella penombra si cominciarono a vedere dei corpi muoversi al ritmo del flauto. Facevano una danza appena percettibile.
Sembravano le danze sacre di Gurdjeff. Piuttosto inusuale, pensai. Mi cominciò a piacere.
Nel silenzio più assoluto degli astanti, la musica, con una vibrazione delicata, cessò; e cessò pure la danza. I corpi, sempre in penombra, scomparvero e rimase solo la sedia vuota.
Si sentirono le tavole di legno del palco scricchiolare e apparve la figura di un uomo anziano ma virulento, avvolto in una specie di grosso mantello nero e con un singolare bastone, che attraversò la scena, per sedersi lentamente sulla sedia.
Qualche momento di silenzio. Gli occhi pungenti dell’uomo passarono sulla platea e sembrarono luccicare.
«È meraviglioso essere di nuovo qui. È meraviglioso rivedervi. Vi ho pensato così tanto in tutti questi anni. Vi ho pensato davvero molto spesso. Ho proprio pensato a ciascuno di voi, sapevo che vi avrei rivisti. Ed eccoci finalmente qui».
La sua voce era potente ma calma. Scandiva ogni suono con gusto. Aveva un modo di parlare rotondo e sereno.
Si carezzò la lunga barba bianca e riprese: «Sembra che tutto sia uguale a prima. L’odore della terra è lo stesso. La pioggia, i colori, certi volti. Sono passati molti anni da che sono partito, ma riesco ancora a sentirmi perfettamente a casa. E voi… vi sentite a casa qui?»
Non sembrò una domanda retorica. Ma nessuno rispose. A me pareva una domanda assolutamente pertinente, non so agli altri.
«Tutti ci siamo nati» continuò il personaggio «e tutti abbiamo qui la nostra casa. Ma dimorare in un luogo è molto di più. È una cosa che non riguarda il mondo fisico, ma riguarda il cuore».
Si guardò intorno divertito.
«Vi sembrerà un’assurdità, ma credo che sia proprio così. A me, con tutto il rispetto, sembrate un po’ smarriti… Siete sicuri di voler stare qui? Siete sicuri che questo sia il vostro paese?»
Si alzò qualche brusio.
«No, non vi adirate!» disse ironicamente «io sono fatto così, mi piace sempre provocare un po’! Eppure, al di là delle provocazioni, non sembra che ve la passiate molto bene… Questo non potete negarlo: mi hanno detto che non c’è molto lavoro e non girano soldi… o mi hanno detto male?»
Ancora del brusio, questa volta di assenso.
«Ho sentito di una certa insofferenza… I giovani vanno via, non c’è un granché da fare. Non mi sembra che si siano aperte nuove scuole, nuove occasioni di lavoro, non sono nate cose nuove, e le idee … circolano nuove idee? Non c’è una galleria d’arte, e nemmeno una nuova compagnia teatrale…»
Il brusio aumentava.