Rin Tin Tin Tabasco - I peccatori di Ehlers-Danlos (vol. 5)
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Rin Tin Tin Tabasco - I peccatori di Ehlers-Danlos (vol. 5) - Manuel Crispo
Prologo
Questo è di quelli che non capiscono, pensò Yun Po sorseggiando la sua pinna colada, un cocktail a base di pregiata grappa di pescecane. Il contenuto del bicchiere di cristallo a sezione ovale aveva la trasparenza che solo i drink da mille dollari hanno. E il sapore, Bastet, il sapore avrebbe sciolto in lacrime un rinoceronte con problemi di gestione della rabbia! Yun Po sorbì un altro sorso e passò la punta della scarpina di vetro sulla nuca del suo cliente.
«Sei bellissima» sussurrò Dressler, baciandole la zampina. La gatta Calico non rispose. Non ce n’era bisogno.
Il Maestro Elias Dressler era un genio: aveva dato il nome a un tipo speciale di lente inventata da lui, a un diaframma fotografico inventato da lui e a un effetto ottico scoperto da un altro tizio di cui nessuno ricordava più nulla.
«Come sta tua figlia?» domandò lei, tanto per dire qualcosa.
«Come vuoi che stia? Crede di stare crescendo, invece sta solo peggiorando».
«È così per tutti» disse Yun Po con un sospiro impercettibile.
Il Maestro si alzò dalla poltrona di stoffa bianca e sedette sul bracciolo della sua come fosse stato, improvvisamente, pungolato. Le prese una zampina stringendola tra le sue e volse il capo sui trequarti in una posizione presessuale nota con il nomignolo di Il Penitente.
«Mi ami?» chiese.
«Certo che ti amo, stupido».
Lui le credette. Più di ogni altra cosa al mondo, la vittima vuole credere al suo carnefice.
Con un sorriso lezioso, lei si carezzò una guancia con la punta di una spalla. A occhi chiusi lasciò filtrare il sapore di liquore, i chiassosi colori del salone della Loggia di Ehlers-Danlos, il parlottio di attori e registi e il fruscio delle cloche di micette tutte uguali che si affaccendavano con le bottiglie, accertandosi che nessuno restasse a secco per più di tre o quattro secondi.
Il fiato pesante di Dressler, sempre più vicino al suo musino, le fece riaprire gli occhi di scatto. Stavolta non c’era alcuna civetteria nel suo sguardo ed Elias ne ebbe quasi paura.
Questo è di quelli che non capiscono, pensò Yun Po. Uno di quelli che chiamano i cani botolo
e le gatte bambola
e pensano che un paio di scopate al mese siglino una qualche forma di contratto di possesso; che si giocano la giacca ai dadi e l’anima a carte e che un bel giorno si ritrovano con una fune al collo e le suole da cinquanta dollari che scivolano su un costone del Ponte di Michattan chiedendosi cosa mai possa essere andato storto.
«Tutto bene, bambola?»
«Tutto bene» rispose la Calico in abito da sera.
Mentre lei sbadigliava ostinatamente, un produttore esecutivo faceva passare un fedora di zampa in zampa per raccogliere donazioni a favore di Walter Mathausen. L’attore comico si era beccato una brutta pallottola batterica in qualche infetto bordello di Koala Lumpur e si temeva per la sua vita. Il suo agente si era già immolato su una pira di contratti stracciati. Una soriano piuttosto in carne suonava un motivetto né carne né pesce con un’arpa décor da svariate migliaia di dollari. La bella Penelope Greycat, che una recente disavventura aveva reso vedova¹, affrontava il lutto con una dignità quasi sospetta, tanto che un cinico avrebbe avuto l’impressione di vederla più solare, raggiante, di quanto fosse mai stata. Il regista picchio Woody Allenpecker, a proprio agio in quelle occasioni mondane più di quanto gli piacesse mostrare nei suoi lavori, inalava valeriana da una sorta di narghilè annuendo a uno dei lunghi, contorti complotti del produttore Jethro Goldwyn-Mayer. Alcuni membri della troupe di Renado viado cercavano di far riprendere i sensi alla bovina Claire Belle de Montparnasse, che doveva aver esagerato con la grappa, la valeriana, la morfina, le esalazioni di feci di gerbillo fermentate in botti di rovere e qualche altra porcheria che andava di moda o sarebbe andata di moda nell’immediato futuro. Bill Toroski e la capotruccatrice Nelly Nelson, proprietaria tra l’altro di un salone di bellezza a Broodlin Heights ("Nuance upon a time – Per un’acconciatura da favola") malignavano ai danni della povera Sally Soriano che, per ragioni imperscrutabili, si era fatta trapiantare il naso di un’anatra e se ne andava in giro facendo finta di niente. Appartatosi con la formica amazzone Charles Latreille, il celebrato romanziere e sceneggiatore Brendan Frenzier stava dicendo che dopo sarebbe passato per un piatto di linguine allardate da Pet’s Tavern. Charles si coccolava un’antenna come se quel semplice gesto lo mettesse in contatto con l’Infinito e ribatteva con tono volutamente ambiguo che, dal canto suo, sarebbe passato dalle parti di Harlem per la sua dose quotidiana di zucchero
.
In quella calca di individui che presi singolarmente avrebbero gettato nel delirio i fan ma che, raccolti tutti assieme nello stesso luogo, riuscivano quasi a mimetizzarsi con le decorazioni dorate, Yun Po si sentiva come a casa, nonostante non fosse altro che una lurida sgualdrinella, come ebbe a rilevare a voce alta il visibilmente alticcio Rock Mexico.
Il felino in cappello a tesa larga e speroni le si era avvicinato di gran carriera, a stento trattenuto dal suo amico regista Chris Oślowski, e ora la guardava con la curiosità esterrefatta di chi abbia esagerato con la bottiglia e, soprattutto, con il suo contenuto.
Vedendoli assieme il cuore di Yun Po si gonfiò di sentimenti contrastanti: i suoi feromoni erano un miscuglio di odio e amore, paura ed esaltazione. Per tutti fu come un grido a pieni polmoni e il chiacchiericcio si interruppe per qualche istante.
Neppure i pesanti lampadari parevano immuni allo spandersi dei suoi feromoni e presero a piegarsi verso il terreno. A un certo punto un gancio cedette e un bel Modello Saturno cadde al suolo, mancando il cascatore Gaston il Fortunato di pochi centimetri. Il papero non diede segno di essersi accorto di nulla, continuando tranquillo a bere e corteggiare una delle tante cameriere intercambiabili. Quello fu per tutti il segnale che potevano tornare alle proprie faccende; e così fecero.
«Vi prego di non ingiuriare la mia compagna» fece Dressler, ricomponendosi. «E voi, Mexico, se non gradite la sua presenza potete senz’altro trovarvi altro da fare».
«Non ho detto di non gradire la sua compagnia» specificò l’attore, confuso, gonfiando i muscoli di riflesso.
Dopo una pausa si silenzio che parve interminabile, Oślowski intervenne per sciogliere la tensione o almeno dirigerla altrove.
«Ehm… sapete che il sindaco Rockducker è riuscito a far passare la Proposition Fifty?»
«Che sarebbe?» chiese Elias.
«Il divieto di riunirsi in più di cinquanta persone senza specifica autorizzazione» spiegò annoiata Yun Po. «Stagnava sul tavolo delle trattative da qualche settimana, ma immagino che la recente escalation criminale abbia velocizzato le cose. Il Tirchiotiranno ce l’ha fatta».
«Ora come ora, siamo tutti fuorilegge» commentò Dressler dandosi un’occhiata intorno.
«Lo siamo sempre stati» affermò Oślowski con un sorriso stanco.
Il vecchio regista era un Havana Brown dal pelo scuro reso opaco dagli anni, con lunghissime orecchie triangolari che portava flosce ai lati del capo per una sorta di spossatezza atavica. I salotti borghesi erano il suo habitat naturale, ci sguazzava come una zampa in una scarpa troppo grande.
Dopo un lungo rutto in crescendo-decrescendo, Rock Mexico si tolse il cappellaccio da cowboy e ondeggiando chiese: «Ehi, sapete chi si riunisce in grandi masse senza autorizzazione?»
Oślowski levò gli occhi al cielo: «Oh, non dirlo…»
«I froci».
«Lo sapevo».
Ignorando i segni del suo amico, Mexico prese a declamare una requisitoria contro i costumi sessuali eccessivamente liberali che gli cagionò più di un’occhiataccia: «I froci corrompono i nostri figli! I froci sono contronatura!»
Omosessuali, cani, Manxisti, idraulici. Rock Mexico detestava praticamente tutti. Ed era caldamente ricambiato: era l’attore più odiato d’America, gli spettatori assaltavano i cinematografi per lanciare pomodori sulle pellicole. Solo i produttori e gli ortofrutticoli lo sopportavano.
«I froci, i maledetti froci… sono dappertutto. Sono come vampiri… se ti poggiano le loro labbra sul… sul tuo…»
«Beh, è stata una bella serata, ma temo che per noi si sia fatto un po’ tardi».
Oślowski afferrò l’attore per un lembo del poncho e lo trascinò via per evitargli un linciaggio proprio mentre cominciava a parlare di sé in terza persona.
«Rock Mexico è saldo come una roccia! Rock Mexico non va da nessuna parte, compadre! Rock è il veleno della prateria di Crossriver Gulch! La disperazione di Desperation! Non ti conviene metterti contro Rock Mexico… Rock… Messico…»
Annoiata, Yun Po sbuffò. Poi sospirò. Il drink aveva improvvisamente perso ogni attrattiva su di lei e, mentre la voce di Mexico si disperdeva in uno dei numerosi e lunghissimi corridoi della Loggia, disse: «Sono stanca. Accompagnami a casa, Elias».
«Certo, cara».
Dopo un veloce giro di saluti, le due figure guadagnarono rapidamente l’uscita. L’aria fresca della sera scompigliava i lembi del soprabito minimale della Calico. Le piaceva il suono delle sue scarpine di vetro che battevano sui gradini di marmo della Loggia di Ehlers-Danlos e, ancor più, il ritmico ansare del reporter Angus Paperazzo, in equilibrio precario su una cassetta di pere decane, che cercava senza successo di sbirciare la dolce vita
meowyorkese da una bifora. Il buffo individuo