Cinque tulipani. Una storia di Resistenza veneta
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Cinque tulipani. Una storia di Resistenza veneta - Nicola Rinaldo
9788899735630
Prefazione
Non mi è mai piaciuta la tendenza di dare alla Resistenza e alla guerra un colore politico. Secondo me gli anni di sofferenza che il paese ha avuto il peso di affrontare sono stati per prima cosa una storia di vita. Quando si sceglie di scrivere, l’onore e la soddisfazione più grandi sono la possibilità di raccontare una storia di vita. Vita vissuta e dignità ritrovata tramite la redenzione. L’amore conquistato non con le armi o con l’eroismo della retorica ma tramite l’esempio e il sacrificio personale. La storia che voglio narrare è inventata. Eppure la finzione può comunque lanciare un messaggio. Un’interpretazione di come sia stato il sacrificio e la volontà di ritrovare a tutti i costi la dignità.
La storia di Alfredo Tizzoni vuole essere soprattutto questo. Una narrazione di sofferenza, carne, sangue e amore in un tempo di privazioni e morte. Un cammino lento e faticoso verso una lucina lontana. Rappresentazione della vita che, nonostante tutto, continua a ribollire nei cuori degli uomini e li sottrae all’aridità dell’esistenza.
Ad Arianna
A M.
Ai ricordi che vivono e vivranno.
And you could have it all
my empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt
(Johnny Cash)
1. Autunno 1943
Alfredo Tizzoni, giovane tenente dei carabinieri, riceve la notizia dell’armistizio. Il battaglione viene mandato in città
a reprimere eventuali disordini.
Anche a settembre fa caldo. La tenda da campo non è il massimo per passare una notte afosa. Alfredo Tizzoni sentiva la stoffa ruvida e bagnata dell’uniforme appiccicata alla propria schiena. Quanto tempo erano fermi lì a non fare niente?
Nei secoli fedeli.
Ricordava il giuramento e la parata. Aveva rivisto i propri genitori insieme, per la prima volta da quattro anni. Li sentiva litigare spesso, di notte. Un brusio costante proveniente dalla stanza a fianco. Il consueto singhiozzare della madre in bagno. Una volta si era alzato per andare a consolarla.
La porta della stanza da letto dei suoi genitori era aperta. Suo padre in piedi. Fumava nervosamente di fronte alla finestra aperta. Sua madre era seduta sul letto, la camicia da notte in disordine. Si riusciva a intravedere il seno. Quell’immagine continuava a tormentarlo. Aveva la testa fra le mani. Singhiozzava sommessamente. Appena lo vide entrare nella stanza, suo padre usci. Di fretta. Emettendo solo qualche grugnito incomprensibile.
Sua madre era seduta sul letto. Lo guardò. Aveva ancora gli occhi pieni di lacrime. Non riusciva a non pensare a quanto fosse bella. Si accorse che aveva uno strano gonfiore sul viso. Nel buio non si rese conto che era un ematoma.
Non uscì di casa per un mese intero. Si ricordava ancora suo padre che con ostentata tranquillità e pacatezza diceva a tutti i suoi amici e clienti che la moglie soffriva di un momentaneo affaticamento.
Aveva appena compiuto diciotto anni all’epoca. La cartolina sarebbe arrivata da lì a poco.
Erano fermi in quel maledetto campo da due settimane. Il suo battaglione era stato portato fuori dalla città. Correva voce che sarebbero stati mandati verso Roma, qualcuno parlava anche di Verona ma sembravano discorsi campati per aria. Il capitano teneva la bocca cucita.
Quando gli aveva chiesto se era necessario fortificare il campo
il capitano e il maggiore si misero a ridere. Si erano accorti del suo evidente imbarazzo e finirono per congedarlo con una bonaria pacca sulla spalla.
Il battaglione era formato da 341 uomini. Non avevano armi pesanti, se non qualche mortaio e le mitragliatrici. Tutto smontato ovviamente. Del fronte nessuno aveva nemmeno mai visto una foto. Almeno nessuna vera.
L’ordine era quello di aspettare ordini. Il comando del reggimento taceva. Nessuno aveva notizie dei superiori da almeno due giorni. Solo sudore e caldo.
Nel tardo pomeriggio avevano visto passare una colonna tedesca. Due camion scortati da due motociclette.
Il capitano aveva scambiato qualche parola con il tenente tedesco e la colonna era ripartita verso sud.
Nessuno chiese niente al capitano, erano giorni e giorni che si vedevano colonne tedesche nella zona. Pochi uomini ma armati molto bene.
Girava voce che la Liebstandarte Adolf Hitler fosse nei paraggi del campo.
Chiacchiere probabilmente.
Ci fumiamo una cicca?
Era Giacomo del secondo plotone.
Anche te non riesci a dormire?
Ci starebbe un gelato.
Magari anche un’osteria.
Alfredo sorrise.
Scommetto che ti interessa di più la figlia dell’oste.
Se vuoi ti porto una foto del re. Puoi tenerti compagnia con quella.
Giacomo rise di gusto.
Stai zitto che se ci sente il Capitano ci stacca il collo e lo regala ai tedeschi.
Li hai visti anche tu prima?
Sì, ne avevo visti altri ieri. Sembra che gli siamo diventati ancora più antipatici all’improvviso. Ho chiesto una sigaretta ad un tenente tedesco e quello mi ha mandato a quel paese. Pensava che se sono italiano non riesca a capire quando mi vogliono mandare a farmi fottere.
Beh, secondo me tutto sommato ti piace.
Non quanto a te Alf, non quanto a te.
I due si accorsero che stava passando il capitano. Scattarono immediatamente sugli attenti. Peraltro Giacomo, non aveva la cintura e non fece nemmeno in tempo a ad abbottonarsi il colletto.
Nella mia tenda!
Giacomo si accorse che il Capitano non li aveva nemmeno rimproverati per l’aspetto sciatto.
Stava succedendo qualcosa.
Nella tenda del capitano regnava come sempre il più rigoroso degli ordini.
Alf si accorse fin da subito dell’unico particolare che stonava con la perfezione che regnava nella tenda.
C’era una bottiglia di cognac aperta sul tavolo e solo un bicchiere. Non aveva mai visto il capitano toccare alcool. Davvero strano.
Ci sono dei nuovi sviluppi. Mi ha chiamato il Maggiore dal comando del Reggimento. Sembra che sia arrivato un radiogramma al comando di reggimento. La guerra è finita. Abbiamo firmato con gli Alleati.
Era giorni che correva voce delle trattative fra gli ufficiali. Niente di formale ma si riusciva a percepire il nervosismo.
Per questo i tedeschi erano particolarmente inquieti.
Signor capitano posso rivolgerle una domanda?
Dica Tizzoni.
Che ne sarà dei tedeschi adesso? Stamattina il tenente Guzzi ha visto fanteria meccanizzata in passaggio sulla statale. Avevano anche due carri armati. Alcuni dei nostri ci hanno parlato e hanno detto che sono delle SS. Adesso che non siamo più in guerra cosa dobbiamo fare con i tedeschi?
Il Capitano si accese una sigaretta.
Il Maggiore ci ha chiesto di raggiungere al più presto il comando di battaglione giù in città. C’è molto nervosismo. Hanno paura che i civili possano assaltare le caserme per razziare le armi.
Perché dovrebbero farlo signor Capitano?
Il Capitano lo guardò sogghignando.
Cosa vuole che ne sappia. Gli ordini sono ordini. Ubbidiamo e basta. Voglio che prepariate gli uomini. Gli autocarri devono essere pronti e carichi entro due ore. All’alba scendiamo in città. Tutto chiaro?
Mentre uscivano dalla tenda Giacomo si rivolse ad Alf. Era chiaramente preoccupato.
Dobbiamo proprio avere una botta di fortuna se ci fanno passare. Sono dappertutto qui intorno. Il Capitano non l’ha detto ma è meglio se diciamo ai nostri di stare attenti ai tedeschi. Non vorrei che qualcuno si fermi di nuovo a salutare il prossimo carro armato che passa
.
Partirono alle prime luci.
I camion stracarichi di uomini procedevano lenti e goffi sul terreno sconnesso.
Ovunque regnava il silenzio.
Ad un certo punto sentirono un ronzio.
Un aereo tedesco sorvolava la colonna a bassa quota.
Uno degli uomini di Alf fece per puntare il moschetto verso il cielo.
Tieni giù quello. Non sei in grado di colpire un fico secco, figuriamoci un aereo in volo.
Per fortuna il capitano non ebbe modo di accorgersi di nulla visto che si trovava nella vettura di testa.
Non incontrarono alcun tedesco lungo la strada. Non era un buon segno. Di solito se ne trovavano spesso in giro. A riposo o in licenza nei piccoli paesi.
Arrivarono in città a mattina inoltrata. Le strade erano piene di gente, l’atmosfera era surreale. Si passava a rioni completamente in festa a zone della città dove regnava l’inquietudine e la preoccupazione.
La caserma dei carabinieri era presidiata da due piantoni. Intorno ad essa vi era una folla vociante.
Il Capitano ordinò di disporre gli uomini a presidio dell’edificio. Il caldo era davvero insopportabile.
Alf tirò fuori la pistola. Era strano trovarsi a fronteggiare dei civili mentre non si sapeva ancora nulla dei tedeschi.
Una signora urlava in maniera isterica. Aveva portato con sè due ragazzi, probabilmente i propri figli.
Armi! Vogliamo armi! Stanno arrivando.
Stia tranquilla signora. Andate a casa. La guerra è finita ma non la ascoltate la radio ogni tanto?
Ma quale radio? Ce l’hanno tolta la radio!
Un uomo con un camice da lavoro macchiato di grasso urlava in faccia a Giacomo la propria frustrazione.
Fateci vedere il Capo. Vogliamo sapere cosa sta succedendo.
La folla cominciò a spingere. Una donna incinta cadde per terra. La gente però non se ne accorse e la poveretta rimase calpestata.
Giacomo guardò Alf. Si leggeva paura nei suoi occhi. Li avevano addestrati a tutto. Teoricamente. Non a fronteggiare una folla inferocita però.
Dove cazzo è il capitano?
Alf si sentiva soffocare. Non ce la faceva più. Era grondante di sudore. Non aveva avuto il tempo di fare colazione. Sentiva le gambe pesanti come macigni.
Dobbiamo disperderli.
Gli uomini non se lo fecero ripetere due volte. Cominciarono a menare colpi a casaccio usando il calcio del moschetto a mo’ di sfollagente.
La folla cominciò a cedere terreno ma senza rinunciare a combattere.
Uno degli uomini di Alf venne strattonato al punto da fargli perdere l’equilibrio. Cadde sotto i colpi della folla.
Che cazzo fate bastardi. Pestate noi invece dei tedeschi?
Giacomazzi perse la pazienza.
Colpo di avvertimento!
Gli uomini cominciarono a sparare in aria disordinatamente. Non mancò nemmeno qualche colpo ad altezza uomo.
La folla si disperse in fretta.
La piazza rimase quasi deserta. Si poteva però benissimo intravedere una moltitudine di occhi che li fissavano dalle finestre che davano sulla piazza. Non erano soli.
Vennero sorvolati nuovamente a bassa quota da alcuni aerei. Si vedevano chiaramente le croci sulle ali.
I bastardi ci osservano.
Lo so.
Faceva davvero troppo caldo per rimanere in piedi. Tutto quel tempo sotto il sole rovente stava cominciando a dargli ai nervi.
Sergente, prenda un attimo il mio posto, vado alla fontana.
Mentre si allontanava verso la piazza colse una leggera brezza accarezzargli il viso fradicio di sudore. Una sensazione di beatitudine destinata a svanire un attimo dopo. Una folata di vento improvvisa lo sbalzò per una decina di metri. Il boato arrivò in ritardo.
Le orecchie gli fischiavano in maniera indicibile. La gola era secca. Cercava di chiamare il sergente ma non riusciva a capire niente.
Si accorse di urlare a vuoto. Non c’era più nessuno. Si accorse solo dei brandelli del cadavere del sergente, intorno a lui era tutto un vociare.
Invece di fuggire inorridita la gente si accalcava contro il macabro spettacolo.
Un prete accorse a benedire la salma e una donna coprì i resti con un grembiule.
La gente era scesa in piazza. Una massaia grassoccia, sulla mezza età, gli stava passando uno straccio umido sulla fronte.
Dove era finito il suo plotone?
Da quanto sono qui?
La bomba è caduta un’ora fa. Pensavamo fosse morto anche lei. Abbiamo provato a dirlo ai suoi uomini.
Dove sono?
Hanno detto che andavano a cercare il capitano ma non sono tornati.
La porta della caserma era bloccata da qualcosa all’interno. Provò a bussare. Nessuna risposta. Fece il giro del palazzo. Si accorse che la finestra del bagno era aperta.
All’interno dell’edifico l’aria era ovunque fetida.
I corridoi erano deserti. Gli uffici erano pieni di scartoffie sparse sul pavimento. Dove erano finiti tutti?
Ora che ci pensava nemmeno quando erano arrivati, alcune ore prima avevano visto nessuno di coloro che sarebbero dovuti trovarsi dentro l’edificio. Era entrato solo il capitano.
Finalmente sentì delle voci, provenivano dal piano di sopra.
Seguì il suono e raggiunse una specie di salottino. Su due poltrone e sul divanetto erano seduti il capitano, in maniche di camicia, sudato ed evidentemente ubriaco, sul tavolo vi era una bottiglia di cognac quasi vuota, un maggiore dell’esercito addormentato che russava leggermente e i due attendenti da campo che giocavano a scala- quaranta sghignazzando amabilmente.
Il telefono squillava all’impazzata. Si avvicinò all’apparecchio.
Non risponde nessuno. Che cazzo!
Come si permette di parlarmi in questa maniera? Sono suo superiore!
Il volto del capitano era paonazzo. Sembrava gli stesse per venire un’embolia. Era imbarazzante vedere in quelle condizioni l’uomo che li puniva anche solo per non aver indossato correttamente il capello al ritorno dalla libera uscita.
Alzò la cornetta ignorando le imprecazioni del capitano.
"Tenente Tizzoni, quarta compagnia Carabinieri, Battaglione Aquila"
Cercavo il maggiore Giacomazzi.
Temo sia indisposto. Può dire a me.
I depositi di munizioni sono ancora in vostre mani?
Non le saprei dire. Siamo rimasti in tre in caserma. L’armeria è chiusa a chiave. Sono spariti tutti.
Raccolga tutti gli uomini che riesce a trovare. Dovete presidiare l’armeria! Non lasciate che la gente prenda le armi. I tedeschi stanno arrivando, vi rileveranno loro.
Ma se ci hanno appena sparato addosso un colpo da 88, hanno spezzato in due un mio sergente.
Abbiamo firmato un armistizio che diamine!
Lo so, con gli americani. Nessuno ci ha detto che cosa fare con i tedeschi, è giorni che cerchiamo di avere notizie dal comando ma nessuno ci dice niente.
Non usi quel tono con me tenente! Stiamo negoziando un armistizio anche con i tedeschi.
La comunicazione si interruppe.
Alf si sedette sul divano.
Le mani nei capelli.
Stava andando tutto a puttane. Così all’improvviso e completamente a caso.
Aspettate i tedeschi.
Era tutto qui quello che la patria era disposta a chiedergli. Doveva sacrificarsi a non fare niente. Anzi peggio. Doveva evitare che la gente avesse la possibilità di difendere le proprie case. Ora anche il capitano si era addormentato. Puzzava di alcol misto sudore.
Come si poteva arrivare a ridursi così?
La testa gli faceva un male allucinante. Forse aveva una commozione cerebrale. Non importava più in ogni caso.
La guerra era finita e non ci poteva fare niente.
Se ne stava seduto per terra. In mezzo ad una piazza vuota. Si era staccata una stelletta dall’uniforme. Nessuno avrebbe mai detto che quel relitto umano abbandonato a fissare una fontana era un generale del Regio Esercito. Non si faceva la barba da giorni. Il suo odore era insopportabile. Gli stavano alla larga tutti. Comandava una divisione. Una vita fa. Erano passate due settimane ma al generale Vittorio La Barbera sembrava di stare davanti a quella fontana da almeno due secoli. Era incredibilmente ben curata. Un lavoro di scalpello preciso. Un oggetto importante. Il riferimento di una città.
Il luogo in cui si ritrovano le donne per lavare i panni. Dove i turisti buttano le monetine. Ci si può anche fare il bagno il giorno di festa. Aveva sempre impedito ai propri figli di fare il bagno nelle fontane. Lo considerava maleducato. Chissà dov’erano i ragazzi. Non riceveva la posta da giorni. Non che ci fosse qualcuno che potesse portargliela. Non aveva un indirizzo a cui tornare. Nemmeno una divisione da comandare in battaglia del resto. Per combattere chi poi?
Non si riusciva nemmeno a capire contro chi erano in guerra.
Era inutile ascoltare la radio. Il caos era completo.
Eppure l’esercito era sempre stato la sua vita, fin da quando il padre, il colonnello La Barbera lo portava alle parate.
Se lo ricordava bene, il colonnello La Barbera, uniforme, stellette bruciate dal sole di maggio, marciava petto in fuori, gli occhi quasi socchiusi, quasi per aumentare l’intensità dell’orgoglio che sprizzava da tutti i pori.
Probabilmente se lo avesse visto in queste condizioni si sarebbe rifiutato di stringergli la mano. Eppure era diventato generale. Aveva superato il proprio maestro in grado ma molto probabilmente non aveva comunque capito nulla della vita.
Passa una donna. Storse il naso. Puzzava.
Un uomo di mezza età gli porse una pagnotta. Se ne andò senza aspettare che biascicasse un imbarazzato Grazie
.
Cominciava a fare fresco. Non vi erano molte persone in giro. Stava scendendo la sera. Una sera tipica di settembre con il suo leggero odore di umido che preannuncia l’arrivo di un temporale.
Forse era meglio cercare un posto per passare la notte.
Era da due giorni che non aveva più notizie dei propri uomini.
L’annuncio di Badoglio alla radio aveva portato un clima di festa improvviso. Tutti avevano capito che la guerra era finita ma nessuno era disposto a pensare al fatto che erano per forza di cose in guerra con i tedeschi.
Non erano arrivati ordini. Nessuno rispondeva nemmeno al telefono.
Gli uomini erano semplicemente andati a casa.
Aveva cercato di fermarli. Ci aveva provato. Non poteva portarli tutti davanti ad una corte marziale per il semplice motivo che nemmeno la Cancelleria del Tribunale Militare rispondeva al telefono.
Il Regio Esercito Italiano ha cessato di esistere in un giorno. Un milione di uomini in marcia senza meta. Qualcuno verso casa. Spesso nemmeno sapendo da che parte andare. Altri, molti, in fuga verso sud. Qualcuno doveva essersi nascosto.
Aveva vagato per due giorni. Ovunque gli dicevano di andare via. I tedeschi erano dappertutto.
Caricavano i soldati disarmati sui treni e li portavano a nord. Verso il Brennero. Non era ancora riuscito a disfarsi completamente dell’uniforme, aveva vagato per boschi, non ci aveva pensato.
Solo in quel momento, con i passanti che lo fissavano cominciava a sentire la giubba letteralmente scottare.
Non c’erano ancora tedeschi in città. Doveva andare verso sud, verso la linea del fronte. Forse sarebbe riuscito a passarla senza troppa difficoltà o quantomeno consegnarsi agli americani.
Forse sarebbe stata questa l’umiliazione più grande. Li aveva combattuti bene, era stato per due anni ufficiale di collegamento presso il comando tedesco, in Africa. Se le ricordava bene le fiumane di prigionieri americani, le uniformi nuove di zecca e le facce bruciate dal sole sfilare verso Tunisi. Si ricordava anche di Rommel, la Volpe che aveva quasi distrutto una divisione corazzata americana a Kasserine, ultima vittoria prima della disgregazione e della disfatta. Solo i comandi furono in grado di salire su un aereo per tornare in Europa. L’armata era rimasta laggiù. Duecentoquarantamila uomini abbandonati al proprio destino. Gli americani avevano dichiarato di aver trovato alcuni soldati tedeschi a costruire delle zattere a capo Bon. Ultima speranza di ritornare a casa. Gli stessi uomini che solo la strettoia di El Alamein e la depressione di Quattara erano riuscite a fermare. Uomini che adesso erano in qualche campo di concentramento inglese nell’Africa nera oppure a godersi le piantagioni di cotone in America, avevano raggiunto i propri zii e i propri fratelli che anni prima partivano a centinaia di migliaia. Declinavano però la propria voglia di libertà. I viaggi dei figli e dei nipoti erano invece frutto della costrizione di chi aveva trionfato.
Alf, che ne pensi della vita?
Mah, non mi sembra poi una gran cosa, un sacco di fatica per poi comunque vederla finire.
Eppure ha qualcosa di fantastico.
Cosa Bea? Io non ci vedo niente di così bello a dirti la verità.
Che cavolo dici, sei proprio scemo a volte.
Anche tu un po’.
Non credo proprio, io sono perfetta per mia intrinseca natura.
Solo perché ti chiami Beatrice.
Sempre meglio di Alfredo.
Alf...
Lo sai che non ti chiamerò mai così.
Secondo me alla fine lo farai...
Non credo proprio.
Perché?
Perché è troppo bello prenderti in giro... Alfredino.
Ah sì... e se ti baciassi.
Guarda...potrei anche accettare... per questa volta... Alf.
Solo qualche anno era passato da quel pomeriggio al parco. Facoltà di Giurisprudenza di Padova. In due stesi sul prato a prendere in giro i ragazzi che si accalcavano davanti al rappresentante del Guf. Strani slogan urlati ad alta voce. Avevamo appena invaso l’Etiopia, si parlava di Impero, in pochi avevano capito che si trattava di poco più di una landa desolata. Erano morti migliaia di ragazzi ma a quei scalmanati sembrava davvero interessare poco dei propri compagni morti dall’altra parte del mondo.
Alcuni degli amici di Alf erano tornati e raccontavano di essersi acquistati una Madama. Molti poi non avevano nemmeno il coraggio di toccarla. Finivano per diventare delle serve, lavavano la biancheria e si mostravano ossequiose del proprio marito
. Divenivano una parte dell’equipaggiamento. Come il moschetto 91 o le giberne.
Tutto sotto il caldo torrido e sfiancante dell’Africa. L’Africa che abbiamo conosciuto noi. Forse la terra che non abbiamo mai voluto conoscere.
Eppure era così divertente stare steso insieme a Beatrice o meglio alla Bea pronunciando il suo nome come si fa solo