L'italiano regionale tra i banchi di scuola
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L'italiano regionale tra i banchi di scuola - Chiara Lentini
bibliografici
INTRODUZIONE
Il presente lavoro rappresenta uno studio sulle interferenze dell’italiano regionale a scuola, in particolare in un corpus di elaborati scritti da studenti iscritti al primo e secondo anno di un liceo classico di Canicattì, in provincia di Agrigento.
Lo studio è condensato in quattro capitoli: il capitolo primo, Educazione linguistica a scuola, rappresenta una sorta di introduzione all’intero lavoro, in quanto lo scopo che si prefigge è quello di dare una panoramica generale sul modo in cui viene insegnato l’italiano sin dalla sua prima comparsa nelle scuole elementari degli anni ’60 fino a oggi, e chiarisce anche come sia cambiata e si sia evoluta la nostra lingua nel corso dei decenni, senza tralasciare il fatto che tutt’oggi continua a mutare nel tempo; il capitolo secondo, Variabilità linguistiche e insegnamento dell’italiano, introduce le varietà esistenti dell’italiano, una lingua che viene parlata o scritta a seconda dei contesti comunicativi, dell’età di chi parla o scrive, della cultura e del luogo in cui ci si trova. Da qui il capitolo procede trattando il tema dei dialetti e della loro diffusione nelle varie parti della penisola italiana, per poi giungere a spiegare il concetto centrale di questo lavoro: l’italiano regionale e il suo continuo interferire nella vita di tutti i giorni degli italiani, in particolar modo tra gli abitanti della Sicilia.
Il capitolo terzo funge da solco tra quello precedente e quello successivo, il quarto, perché tratta dell’uso che si fa dell’italiano sia nella pratica scritta che in quella orale, spiegando le differenze tra le due e, conseguentemente, il diverso modo di adoperare la lingua.
Il capitolo quarto entra nel cuore della presente analisi, analizzando un corpus di elaborati scritti da ragazzi di primo e secondo anno di liceo classico, nell’agrigentino. Dalle letture e dalle analisi effettuate, è stato possibile ricavare il seguente risultato, che ha dato lo spunto al titolo di questo lavoro: l’interferenza dell’italiano regionale tra gli studenti agrigentini. Si è compreso quanto siano frequenti gli errori derivati dall’influenza del dialetto agrigentino, o siciliano in generale, nella cultura dei suddetti studenti, i quali tendono a dare per ‘corrette’ determinate parole o espressioni che invece attingono dalle loro reminiscenze linguistiche locali, e non dall’italiano standard.
L’obiettivo che questo lavoro si propone di raggiungere non è soltanto quello di mettere in evidenza gli errori più frequenti che compiono gli studenti siciliani, ma è anche quello di far capire agli insegnanti, in particolar modo quelli della Sicilia, che non possono stare fermi di fronte ad errori di questo tipo, o limitarsi soltanto a evidenziarli in rosso, anzi dovrebbero cercare di spiegare ai propri alunni ogni errore segnalato sugli elaborati, affinché non vengano più commessi o comunque avvengano in modo meno frequente.
Capitolo 1
Italiano e scuola: CENNI storici
1.1. L’educazione linguistica a scuola
Occorre fare un viaggio a ritroso nel tempo, forse approdando nelle scuole filosofiche ateniesi, per scoprire i primi elementi che determinarono la nascita di un desiderio di riflessione sulle lingue e sulla loro formazione e strutturazione. Tuttavia bisogna pur riconoscere che non è la tradizione classica quella a cui ci si riferisce quando si parla di ‘educazione linguistica’. Questa espressione si è infatti concretizzata nel suo significato vero e proprio a partire dagli anni Settanta del Novecento, grazie in particolar modo al linguista italiano Tullio De Mauro. Egli ha avuto la brillante «idea di definire ed esplorare un terreno come lo sviluppo del linguaggio nella scuola»¹.
Per illustrare la situazione linguistica dell’Italia, bisogna volgere lo sguardo al passato, ponendo attenzione al fatto che le popolazioni italiche, sin dalla nascita della lingua volgare, hanno cercato di esprimere concetti e stati d’animo tramite idiomi che oggi chiamiamo più semplicemente dialetti, spesso considerati come idiomi ‘inferiori’ alla lingua nazionale comunemente parlata. In realtà Tullio De Mauro difende la loro presenza nella storia della cultura nazionale, basti considerare il fatto che persino l’italiano è una lingua derivata da un tipo di dialetto: il fiorentino del Trecento, assunto come «lingua dei dotti prima, lingua nazionale poi»².
La scuola ha da sempre rivestito un ruolo di primo piano nell’ambito dell’educazione linguistica, ma non ha avuto un passato semplice in quanto ha dovuto affrontare problemi e questioni legate al fatto di dover fornire agli allievi le nozioni di una lingua fissa, non mutevole, ma anche di una lingua in continua evoluzione.
Nei primi decenni dopo l’unità d’Italia, i maestri erano soliti adoperare in classe il dialetto o un misto di lingua dialettale e lingua letteraria: ciò accadeva, secondo Camillo Corradini, alto burocrate del ministero dell’Istruzione, a causa della «dialettofonia diffusa e l’imposizione di un modello letterario di italiano»³.
Per quanto riguarda la dialettofonia, in diversi momenti storici a scuola si è cercato di contrastarla con ogni mezzo, inserendo programmi scolastici mirati, anche se questi non hanno avuto molto successo per via delle resistenze da parte degli insegnanti. Tali programmi, se da un lato incentivavano l’espulsione del dialetto dalla scuola, dall’altro fomentavano lo sviluppo di un tipo di italiano abbastanza artificioso, definito da molti ‘italiano scolastico’, per distinguerlo da quello comunemente parlato tutti i giorni dalla gente.
A fare le spese a causa di questa ampollosità della lingua furono senza dubbio gli studenti più poveri e con un retroterra culturale arretrato e intriso di dialetto. Gli allievi meno abbienti e meno colti, infatti, avevano difficoltà a proseguire gli studi, dal momento che registravano non poche carenze linguistiche.
La situazione non poteva continuare di questo passo. Fu così che nel 1967 un prete, don Lorenzo Milani, iniziò a battersi per assicurare una scuola uguale per tutti, come diritto di tutti. Egli aveva già allestito una scuola popolare in un villaggio isolato, quello di Barbiana, frequentata da ragazzi che vi abitavano.
Aiutato dai suoi allievi, scrisse un documento che si rivelò di grande importanza, al fine di assicurare una scuola aperta a tutti e obbligatoria per tutte le classi sociali. Si tratta di Lettera alla Professoressa, che «si presenta formalmente come una lunga lettera che un non meglio precisato ragazzo di Barbiana scrive, assieme ai suoi compagni, ad una innominata professoressa, simbolo delle ottusità e delle arretratezze del sistema scolastico»⁴.
In tale documento i ragazzi si pongono in un atteggiamento di opposizione nei confronti del metodo di insegnamento loro proposto, denunciandone le contraddizioni e l’arretratezza, che non permettono a tutti gli allievi degli strati sociali più svariati di apprendere le stesse cose nella stessa misura. Infatti, era più frequente che i ragazzi benestanti fossero più avvantaggiati nell’apprendimento perché provenienti da una famiglia che forniva loro retroterra culturale più raffinato e attento all’uso corretto dell’italiano di allora
A questo punto si affaccia un altro problema: cosa si intende per uso corretto di una lingua, in questo caso dell’italiano? Don Milani ha tentato di rispondere a tale quesito, affermando con certezza che «le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo»⁵. E ha iniziato ad elencare dei nomi di studenti che fungono da esempio, come Pierino che, figlio di un medico, viene promosso a scuola perché scrive bene, ovvero come i ricchi, con una lingua fissa; invece Gianni scrive attingendo dalla lingua di suo padre agricoltore che è assai diversa da quella imposta dai ricchi e, dunque, dalla scuola: così gli allievi più poveri diventano facilmente delle vittime di un sistema scolastico arretrato e sbagliato perché non equo, che dovrebbe correggere, anziché penalizzare e basta.
Dopo don Milani si sono susseguiti parecchi tentativi di rinnovamento dei metodi di insegnamento scolastico, a partire dal maestro Bruno Ciari che, ispiratosi al pedagogista ed educatore Célestin Freinet,