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Il mistero delle cinque croci
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Il mistero delle cinque croci

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About this ebook

E se non tutto è come sembra... quando si entra in una chiesa, siamo veramente sicuri di pregare Dio e non il principe delle tenebre? Perché la Chiesa si è sporcata le mani del sangue degli innocenti durante i secoli? Chi tira le fila di certe decisioni? Un thriller crudo ed esoterico. Una guerra che dura da quasi mille anni e che vede come protagonisti cinque discendenti dei Templari. Due ispettori della questura di Ferrara, Manuela e Beppe, aiutati da un capitano dell’FBI, saranno i protagonisti di un’avventura esoterica al limite dell’occultismo. Un’indagine che li porterà a scoprire Il mistero delle cinque croci.
LanguageItaliano
Release dateJul 18, 2018
ISBN9788893691543
Il mistero delle cinque croci

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    Il mistero delle cinque croci - Simone Pavanelli

    978-88-9369-154-3

    Prologo

    Collina Golgota-Calvario. Gerusalemme.

    Aprile. 31 D.C.

    La mattina era calda. Il sole era già sorto da un po’ ma, nonostante tutto, molte persone si erano radunate su una collina fuori Gerusalemme. La via crucis era uno spettacolo da non perdere. Soldati che scortavano i condannati a morte che dovevano portare sulle spalle il fardello che li avrebbe condotti a un lento supplizio. Un rito disumano fatto di scherni all’indirizzo di coloro che erano soprannominati morti che camminano. Un rito diabolico che stremava i condannati lungo quell’ascesa a una cima che avrebbe decretato la loro fine, una fine accolta con la consapevolezza di lasciare al mondo terreno il dolore della propria morte, per poi accogliere la pace del trapasso.

    Uomini e donne erano intenti a osservare il lento issare delle croci di legno con inchiodati tre condannati a morte. Due erano ladri, uno era un Bestemmiatore che si spacciava come il figlio di Dio.

    Avevano assistito alla posa dei crocifissi, alla legatura degli arti sul legno ruvido e all’inchiodatura di mani e piedi con conseguente gemito e urla dei tre uomini a quel dolore che era solo la continuazione di quel calvario che sarebbe terminato solo con la morte, una morte lenta e dolorosa.

    Molti avevano partecipato al processo del terzo condannato. In quell’occasione, Ponzio Pilato diede la possibilità al popolo si scegliere se condannare o no il Bestemmiatore. Come per legge, in quel periodo dell’anno veniva data la grazia a un condannato e Pilato aveva messo su un palco un ladro di nome Barabba e quest’altro uomo che si faceva chiamare Gesù. La folla scelse Barabba con gran disappunto di Pilato che non trovava giusto condannare l’altro uomo, ma la legge era legge e anche lui sarebbe dovuto sottostare a quel giudizio.

    Le croci furono erette con i loro condannati. I due ladri erano stati messi all’esterno mentre Gesù in mezzo. La condanna del Bestemmiatore era stata più lunga e complessa a causa della sua convinzione di essere il figlio di Dio. Il giorno prima venne anche flagellato. Alcuni soldati romani gli misero in testa una corona di spine. Ridevano mentre schernivano l’uomo.

    «Dici di essere un Re. E ogni Re ha una corona. Questa è la tua! Dovresti ringraziarci!»

    Le spine erano penetrate nella cute bucando i capillari e facendo versare lacrime di sangue sul viso già provato di Gesù.

    La folla era festante nel vedere i tre condannati in cima alla collina attaccati alle loro croci di legno. La morte era sempre uno spettacolo da non perdere; la rabbia veniva incanalata sui condannati tanto da non pensare ai problemi più gravi che esistevano. Lasciare una valvola di sfogo nella popolazione inibiva qualsiasi rivolta. Lo spettacolo calma gli animi, lo spettacolo allontana i pensieri, lo spettacolo tiene la gente unita solo in quelle brevi occasioni. Lo spettacolo della morte, poi, allontana l’idea della ribellione.

    Un soldato decise che la condanna era troppo lieve per Gesù e ferì, con la sua lancia, il fianco del Bestemmiatore arrecandogli altro dolore oltre a quello delle mani e dei piedi trafitti da lunghi chiodi. La folla applaudì e urlò contenta di quel bagno di sangue, contenta di riempirsi gli occhi di quel dolore che vedevano lontano, tanto da non sentire le ultime parole di Gesù che chiedeva perdono per loro poiché non sapevano quel che facevano.

    In fondo a quella folla, un uomo e un soldato, osservavano la scena con un ghigno sulle labbra.

    «Sei stato tu a ordinare di trafiggere Gesù?»

    Alessandro guardò l’amico a fianco a lui. Era molto più basso e fisicamente magro. Aveva la carnagione scura, i capelli ricci neri e una barba che portava qualche pelo bianco. I suoi occhi erano neri e intensi in un viso dai tratti duri.

    «Un mio piccolo omaggio al figlio di Dio» rispose il centurione, un uomo possente e molto alto.

    La sua carnagione chiara tradiva le sue origini italiche. I suoi occhi azzurri erano intensi e il suo viso aveva lineamenti dolci. Era considerato uno dei più begli uomini di Gerusalemme. Grazie a quei tratti somatici riusciva sempre a passare la notte con donne sempre diverse.

    «Non credo che l’abbia apprezzato.»

    «Ma io sì! È incredibile che siamo riusciti a fare tutto questo. Grazie a te, Yakoov, abbiamo ucciso il figlio di Dio! Noi, poveri esseri umani, abbiamo ucciso Gesù!»

    Yakoov guardò l’amico e sorrise. Fosse stato più giovane si sarebbe fatto trasportare anche lui dall’emozione, ma riuscì a trattenersi. Ripensò a tutto il lavoro svolto per arrivare a quell’epilogo. Le parole usate con cura per convincere il popolo prescelto da Dio che quell’uomo era solo un pazzo. Il riuscire a sminuire ogni miracolo fatto dicendo che erano solo trucchi, che nessuno sarebbe tornato dalla morte e che, con ogni probabilità, Lazzaro non era morto veramente ma era stato drogato da uno dei discepoli di Gesù. Che si fosse trovato nel posto giusto al momento giusto perché solo lui poteva sapere quanto l’effetto di quella droga sarebbe durato. Che non si poteva moltiplicare niente. Aveva fatto vedere com’era in realtà semplice legare sotto lo scafo di una barca una rete piena di pesci. Non ebbe nemmeno bisogno di inventarsi qualcosa per il pane, poiché era riuscito facilmente a convincere gli ebrei a proposito dei pesci e di tutti gli altri miracoli.

    «Aspetta a cantare vittoria Alessandro» disse Yakoov in tono serio e con l’espressione tirata. «Nella mia vita ho imparato una cosa fondamentale: Dio non gioca secondo le nostre leggi, ma secondo le sue! Rammentati ciò che ti ho insegnato. Troppe volte abbiamo cantato vittoria per poi trovarci sconfitti.»

    Il centurione fece un lungo sospiro ma non cancellò il suo sorriso di fronte allo spettacolo delle tre croci sulla collina. Era da più di tre anni che conduceva quella battaglia contro il figlio di Dio. Le sue parole, suggerite dalla mente più saggia del suo mentore, erano riuscite a creare odio tra le truppe verso quel piccolo uomo che si credeva un Dio. Si accorse che i suoi commilitoni non erano persone dotate di menti elastiche e ciò andò in suo aiuto non mettendoci molto a screditare l’operato di Gesù. Un lento ma fruttuoso lavoro messo a punto con mirabile precisione.

    «Di’ quello che vuoi Yakoov, ma essere riusciti a far credere al popolo eletto che quello non era il figlio di Dio è stata una battaglia vinta con tutti gli onori del caso. Ma ci pensi? Gli ebrei, che ne hanno passate di cotte e di crude, hanno rifiutato Gesù come messia! E tutto questo grazie a noi!»

    Alessandro sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla. Si girò notando l’espressione del suo mentore. Il viso era contratto e gli occhi semi chiusi. Si accorse che in lui albergava la paura, nonostante considerasse la morte di Gesù una vittoria storica.

    «Ascoltami bene adesso: mi aspetto qualcosa, forse qualche miracolo, dobbiamo prepararci! Per prima cosa requisisci la lancia che quel soldato ha usato per trafiggere Gesù. Poi fai recuperare qualsiasi oggetto appartenutogli: bicchieri, posate, piatti. Falli sparire e fai sparire anche quella croce dopo che sarà rimosso il cadavere!»

    Il centurione osservò Yakoov con un’espressione incredula.

    «Non credi di esagerare?»

    «Credimi! Non sto esagerando per niente!»

    Alessandro scosse la testa. Non era totalmente convinto a prendere tutte quelle precauzioni, ma si fidava del suo mentore e avrebbe obbedito. Troppe volte gli aveva dimostrato la sua superiorità intellettiva.

    «Farò come vuoi. Tu, intanto, cosa farai?»

    Un sorriso comparve sul viso dell’uomo.

    «Io ho già fatto! Oggi sarà trovato il corpo di Giuda Iscariota appeso per il collo a un albero. Ricordati Alessandro: i rami secchi devono essere tagliati! Ho fatto mettere del denaro vicino al corpo. Chiunque lo trovi assocerà a Giuda il tradimento verso Gesù, e noi saremo fuori da ogni sospetto.»

    Il centurione sorrise per l’ennesima volta.

    «Hai pensato a tutto.»

    Yakoov fece un’espressione preoccupata.

    «Lo spero Alessandro. Lo spero proprio!»

    La giornata fece il suo tempo lasciando che il sole scendesse verso l’orizzonte illuminando i tre condannati in un’ultima sequenza di sfumature arancione. Sei ore più tardi, i corpi senza vita dei condannati furono tolti dalle croci. Giuseppe di Arimatea si occupò del corpo di Gesù, avvolgendo il suo cadavere in un lenzuolo per poi riporlo nel sepolcro vicino alla collina Golgota.

    Come predetto dal mentore di Alessandro, tre giorni dopo avvenne il miracolo. Il corpo di Gesù scomparve e alcuni testimoni affermarono che fosse resuscitato e fosse tornato nel regno dei cieli.

    Quello che più temeva Yakoov si avverò. Per sua fortuna riuscì a far sparire almeno i tre oggetti che erano andati a contatto con il sangue di Cristo: un bicchiere di legno in cui fu accolto il suo sangue, la lancia che lo ferì e la croce.

    Nei giorni successivi ci fu un gran lavoro da parte di Alessandro che riuscì a convincere molti soldati, tra cui molti graduati, che il ricordo di ciò che era avvenuto avrebbe indebolito l’impero.

    Le voci si moltiplicarono giungendo fino a Roma e nel 64 D.C. furono decretati fuorilegge i seguaci di Gesù. Da quel momento cominciò una vera e propria persecuzione verso i cristiani e il Cristianesimo che finì solo trecento anni dopo.

    1. Le reliquie

    Terrasanta. 1145 D.C.

    Dieci cavalli correvano sulla pianura, spronati dai loro cavalieri, a pochi chilometri da Gerusalemme, alzando una nube di polvere che si disperse grazie al leggero vento che si era alzato da est.

    Il rumore degli zoccoli riempivano il silenzio del luogo mentre, dalla loro bocca, quantità di saliva cadeva su quel terreno arido. In giro sembrava non esserci nessuno a osservare quella scena, ma non era così. Sopra una collinetta di roccia, un uomo avvolto in un turbante nero osservava quel movimento che sembrava come rallentato. Il calore della terra offriva il miraggio di un terreno umido ricoperto di acqua e, sopra, i cavalli proiettavano un’immagine riflessa che non esisteva, ingannando gli occhi e la mente di chi guardava in un gioco magico che solo madre natura poteva creare.

    L’uomo caricò la sua balestra con un dardo senza distogliere lo sguardo dal suo obiettivo e attese che i cavalieri si avvicinassero di più. Indossavano una lunga tunica bianca con sopra disegnata una croce rossa. Sotto vestivano una cotta di maglie a proteggere il busto e calzavano stivali di cuoio.

    L’uomo osservava divertito i suoi bersagli. Dietro di lui, al riparo, altri venti predoni erano pronti ad attaccare i soldati che stavano cavalcando verso di loro, pregustando l’inevitabile scontro che avrebbe dato onore ai guerrieri presenti alimentando la leggenda di quella terra che non voleva intrusi sul proprio suolo.

    Quando arrivarono a tiro, prese la mira e scoccò il dardo. La piccola freccia si conficcò dentro l’occhio di uno dei cavalieri. Senza nemmeno dare un segnale, il resto dei predoni uscì allo scoperto attaccando i soldati con le loro scimitarre.

    La battaglia fu cruenta. Pezzi di corpi umani si staccarono dai tronchi per raggiungere il sangue che, nel frattempo, aveva già bagnato il terreno sottostante, un terreno assetato che beveva quel liquido rossastro con avidità. Acciaio contro acciaio. Uomini contro uomini e cavalli che si davano alla fuga spaventati e feriti a loro volta. Combattenti che non si risparmiavano e usavano tutte le tecniche plausibili per averla vinta contro il proprio nemico, anche a costo di cavare gli occhi dell’avversario con le unghie. Qualsiasi mezzo per offendere e uccidere veniva usato e abusato da quei guerrieri. Il lucido acciaio non rifletteva più i raggi solari tanto era sporco di sangue umano. Grida, gemiti e imprecazioni avevano preso il posto del silenzio che regnava in quel luogo. I suoni di spade che si scontravano sembravano cadenzare quello scontro ammutolendosi piano piano.

    Cinque minuti dopo, la battaglia finì. La terra era coperta di corpi senza vita mentre, in alto, alcuni rapaci cominciarono a volare intorno, pregustando un sontuoso banchetto.

    I predoni avevano fatto male i loro conti. I cavalieri che davano loro la caccia non erano semplici soldati, ma facevano parte di un nuovo ordine voluto dalla Chiesa per difendere i pellegrini che si volevano dirigere in Terrasanta: i Templari.

    Ma anche loro avevano subìto delle perdite. Di quindici che erano, ne rimasero in piedi cinque. Stanchi, assetati e sporchi del sangue dei loro nemici.

    Uno di loro abbassò il cappuccio metallico e rimise la spada nel fodero dopo averla pulita sul tessuto che vestiva un predone morto. Molto alto e di costituzione robusta, portava la barba che copriva la maggior parte del volto. Una barba curata e spuntata. I suoi occhi azzurri spiccavano in un viso dai lineamenti duri dei suoi trentadue anni.

    Daniel Lacroix era il capitano di quel manipolo di Templari che davano la caccia da tempo ai predoni, i quali si erano macchiati di numerose nefandezze verso i pellegrini. Li stavano inseguendo da giorni interpretando le poche tracce che avevano lasciato e, finalmente, li avevano scovati e uccisi.

    Un uomo si avvicinò a Lacroix. Era giovane, appena ventenne. I suoi capelli biondi erano mossi dal vento come se fossero spighe di grano e i suoi occhi verdi osservavano il campo di battaglia disseminato di corpi senza vita. Al contrario degli altri cavalieri, reggeva in mano un arco.

    «Mio signore.»

    «Dimmi Gianfranco.»

    «Sono tutti morti?»

    «Dobbiamo controllare. Poi seppelliremo i corpi dei nostri e lasceremo i cadaveri dei nostri nemici come pasto ai rapaci. Sarà un monito per tutti quelli che vorranno mettersi contro di noi attaccando i pellegrini.»

    Gianfranco di Basalto era figlio di nobili e si era arruolato volontario nell’ordine Templare. Come tutti i cavalieri, si accorse che le cose erano molto diverse da come le raccontavano i nobili che si vantavano di aver partecipato a numerose missioni in Terrasanta. La realtà era semplice: loro non c’entravano niente in quella situazione. Erano in un posto lontano da casa ad arrogarsi il diritto di proprietà di una città che mai era stata cristiana in passato, nonostante vi fosse nato e cresciuto Gesù.

    L’occhio vigile del giovane notò una strana ombra. Velocemente alzò l’arco, prese una freccia e la posizionò sull’arma per poi scagliarla verso la collinetta di roccia. Fu talmente veloce che gli altri Templari non si accorsero nemmeno dell’accaduto se non dopo aver sentito l’urlo di una persona provenire dalla direzione in cui era stata scoccata la freccia.

    Lacroix fece un cenno e due cavalieri corsero verso le urla brandendo la spada. Andarono dietro a quel cumulo di rocce e tornarono portando in braccio un predone avvolto nella sua veste nera con, nel braccio, la freccia scoccata da Gianfranco. I due Templari erano Francesco di Terrana e Bernard LeBlanc, due veterani che si erano uniti all’ordine. Nonostante fossero di due nazioni diverse, sembravano fratelli. Entrambi di corporatura taurina, con i capelli color pece tagliati corti e il viso ben rasato. I loro occhi erano castani e avevano l’espressione di chi ne aveva viste fin troppe. Avevano partecipato a molte battaglie uscendone sempre indenni grazie al loro addestramento e alla loro sete di sangue.

    L’ultimo Templare si affiancò a Lacroix e Gianfranco. Lo chiamavano Drago, un nome affibbiatogli a causa di uno stemma che portava cucito sulle vesti che ritraeva l’animale mitologico. Non sapevano se fosse muto, fatto sta che non parlava mai, nemmeno se interrogato. La sua provenienza era sconosciuta, com’era sconosciuta la sua storia.

    Lacroix lo guardò. Portava sempre un cappuccio che metteva in ombra il suo volto, un volto solcato da una profonda cicatrice su una guancia. Nonostante fosse il più basso di tutti, era un combattente incredibilmente capace. Il capitano fece un cenno a Drago che estrasse un lungo coltello per poi avvicinarsi al predone puntandoglielo alla gola.

    «Ce ne sono altri?» chiese il capitano.

    L’uomo cominciò a parlare nella sua lingua. LeBlanc tradusse la domanda per poi riferire la risposta.

    «Dice che ce ne sono molti di più e che ci uccideranno tutti.»

    Lacroix fece un cenno a Drago che cominciò a infilare la punta del coltello nella carne e, contemporaneamente con l’altra mano, rigirò la freccia nella ferita. L’uomo iniziò a urlare dalla paura e dal dolore. Parlò velocemente con la speranza di far cessare la tortura.

    «A quanto pare c’è un’intera milizia a sud di Gerusalemme. Dice che sono un centinaio di predoni ben armati.»

    Il capitano sorrise.

    «Dobbiamo avvisare il comandante del battaglione dell’esercito che staziona in città. Seppelliamo i corpi dei nostri compagni e recuperiamo i cavalli. Drago, a te l’onore di mandare questo pezzente al cospetto del suo Dio.»

    In un attimo la lama s’infilò nella gola del predone uccidendolo.

    I Templari cominciarono a scavare una fossa per i loro compagni morti, tranne Lacroix che sembrava aver notato qualcosa in quella collinetta fatta di roccia. Si avvicinò e osservò bene se ci fossero delle insenature. Aveva uno strano presentimento. Cominciò a sentire degli scricchiolii. In un attimo scomparve inghiottito dal terreno sottostante.

    Lacroix aprì gli occhi e vide solo buio. Alzò la testa notando un buco che portava in superficie. Da quella posizione poté notare delle assi rotte ormai marce che chiudevano l’entrata della grotta in cui era caduto. La voce di Gianfranco inondò la stanza.

    «Mio signore! Tutto bene?»

    Il capitano si alzò in piedi costatando, con suo sollievo, di non essersi rotto niente. Si guardò intorno ma l’oscurità celava quanto vi era all’interno. Notò una vecchia torcia appesa

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