Li cunti di Beppe - Vol.II - Il sole
By Romano Greco
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Li cunti di Beppe - Vol.II - Il sole - Romano Greco
bianche.)
Introduzione
Cunti, in questo mio paese, piccola macchia di case bianche sulla distesa del tavoliere salentino, è contrazione di racconti
. Ma non si pensi ad alcunché di letterario: Li cunti erano storielle, narrazioni che enfatizzavano fatterelli quotidiani; burle che assurgevano ad avventure; espedienti che diventavano eroismi. In tempi ormai disconosciuti, in cui il cinema cominciava appena a parlare e la televisione non esisteva neppure nelle fantasie sfrenate di un visionario, aiutavano a ingannare il tempo, a scambiarsi un sorriso. E lo zio Beppe, fra un tiro e l’altro alla Nazionale senza filtro, con gli occhi neri lucenti che ti studiavano, li sapeva raccontare, era un affabulatore, uno che su una parola ci costruiva nu cuntu, un racconto.
Hanno sparato al muto
Racconta delle volte lo zio Beppe di quella sera che lui e il Muto se ne tornarono da una battuta di caccia senza aver sparato un colpo. In verità, dice Beppe, non si era trattato di una vera e propria battuta di caccia, ma di un’uscita, una passeggiata decisa là per là nel primo pomeriggio, quando il tempo impigrito sembra essere rimasto sospeso al moto lento del sole di fine settembre, in quegli anni in cui l’estate si attarda a cedere all’autunno le terre del Salento. Al ritorno, saranno state le sette di sera, Beppe dietro, col sedere che gli doleva sul portapacchi di ferro, il Muto al manubrio della bicicletta nera modello Bianchi, ancora con le doppiette in spalla, si erano trovati a passare davanti al bar di William, quello che stava sotto la torre dell’orologio, davanti al Circolo Cittadino, dove il loro gruppo a quell’epoca faceva punto d’incontro. Beppe aveva bussato sulla spalla del Muto, poi gli aveva sventolato la mano davanti al naso per fargli segno di fermarsi. Beppe era sceso e il Muto aveva appoggiato la bicicletta al marciapiede; quindi si erano accomodati nelle seggiole con la seduta e la spalliera di filo di plastica color verde sporco e l’ossatura di metallo color ruggine e unto.
A proposito del Muto: c’è da dire che nessuno sapeva come si chiamasse il Muto, o, se qualcuno lo sapeva, non l’aveva mai detto; ragion per cui il Muto, per tutti, era stato sempre e solo il Muto. Né lui se ne era mai lagnato, visto che oltre ad essere muto, era anche sordo e quindi comunque l’avessero chiamato, per lui andava bene.
Al tempo di questa storia, Beppe poteva avere circa un sedici anni e il Muto forse un due di meno. Erano grandi amici, Beppe e il Muto: inseparabili.
Dato che ancora faceva caldo, stavano coi pantaloncini corti e la camicia sbottonata. La tenevano annodata alla vita, e ai piedi delle ciabattelle di plastica, di quelle bucherellate come andavano all’epoca. Li avresti scambiati per fratelli: asciutti entrambi, con i muscoli allenati dalla zappa che fremevano direttamente sotto la pelle, coi capelli neri pettinati all’indietro e il ciuffo di almeno dieci centimetri sopra la fronte come usava a quei tempi, sulla moda lanciata da Elvis Presley e Little Tony.
Un po’ più in là, con la sedia in bilico sul marciapiede stretto, c’era Memeo (Romeo), seduto con la gamba ciondoloni dal bracciolo della seggiola.
«Iti sparatu? Avete sparato?» Aveva chiesto Memeo.
A Beppe non era sfuggito lo sguardo che aveva lanciato, appena smontati di sella, alle catenelle del carniere che gli pendevano attristite dalla cintola; sembravano rami di salici piangenti.
«Neppure un colpo» gli aveva risposto Beppe, in italiano, per darsi contegno. E stava per aggiungere qualche altra cosa, quando il Muto si era intromesso.
Orbene, il Muto era muto, ed oltre che muto anche sordo. E questo era oltremodo vero