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Šostakovič e Stalin: l'artista e lo zar
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Ebook445 pages6 hours

Šostakovič e Stalin: l'artista e lo zar

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Solomon Volkov documentato con testimonianze e memorie racconta il rapporto conflittuale tra il duce dell'umanità progressiva, Stalin, e un genio della musica, Šostakovič
LanguageItaliano
PublisherBruno Osimo
Release dateJul 17, 2018
ISBN9788898467396
Šostakovič e Stalin: l'artista e lo zar

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    Šostakovič e Stalin - Solomon Volkov

    Solomon Volkov

    Šostakovič e Stalin

    l’artista e lo zar

    a cura di Bruno Osimo

    Copyright © Bruno Osimo 2020

    Titolo originale dell’opera: Шостакович и Сталин. Художник и царь

    Traduzione dal russo di Bruno Osimo

    Bruno Osimo è un autore/traduttore che si autopubblica

    La stampa è realizzata come print on sale da Kindle Direct Publishing

    ISBN 9788898467792 per l’edizione cartacea

    ISBN 9788898467396 per l’edizione elettronica

    Contatti dell’autore-editore-traduttore: osimo@trad.it

    Prefazione

    Se non si tiene conto del mitico cantore greco Orfeo, probabilmente nessuno ha sofferto di più per la propria musica del compositore sovietico Dmitrij Šostakovič. È stato bollato come «compositore nemico del popolo»[1] e la sua opera criticata come «flusso intenzionalmente discordante, confuso di suoni»[2]. Per molti anni, Šostakovič e la sua famiglia hanno vissuto in modo precario sul baratro della catastrofe, sotto la costante minaccia di arresto, esilio, o peggio ancora.

    Questo perché le accuse venivano direttamente dal Leader Supremo della sua patria, Iosif Stalin in persona. Indubbiamente, il compositore è stato anche insignito di premi di Stato e ha ricevuto incoraggiamenti accuratamente soppesati. Sfortunatamente, non era mai possibile capire quando sarebbe caduto il fulmine. Ciò per molti anni rese la vita di Šostakovič un inferno.

    Erano tempi di una crudeltà inimmaginabile. Gli amici, i protettori e i famigliari di Šostakovič scomparivano all’improvviso, trascinati nel gorgo della repressione staliniana. In queste circostanze, come Šostakovič sia riuscito non solo a mantenersi sano di mente, ma anche a scrivere parte della musica più universale, espressiva e nel contempo toccantemente umana del Novecento è l’oggetto di questo libro. Vi si dà il resoconto più completo del duello senza precedenti tra il compositore e Iosif Stalin, zar del paese comunista e tormentatore personale di Šostakovič. Si tratta del primo libro sull’argomento.

    Dopo il mio arrivo negli Stati Uniti nel 1976, ho sentito innumerevoli volte eseguire la musica di Šostakovič nelle sale da concerto occidentali, e spesso mi domandavo: dove nasce questa attenzione particolare da parte del pubblico? Perché un pubblico che sa poco o nulla delle condizioni inumane in cui sono nati questi suoni tormentati è preda di una tensione così evidente?

    In Urss, crescevamo con la musica di Šostakovič nel sangue. Le sue melodie cupe, i ritmi martellanti e la scrittura orchestrale urlata si confacevano perfettamente ai nostri stati d’animo e ai pensieri che cercavamo di nascondere all’occhio vigile e alle lunghe orecchie delle autorità.

    Ma qui, nell’occidente democratico, la musica di Šostakovič poteva facilmente essere bollata come importuna, primitiva, pomposa. E di fatto molti professionisti – specialmente compositori e musicologi – esprimevano queste opinioni sprezzanti su Šostakovič a causa della sua musica «priva di suono». Sono stati fodamentalmente gli esecutori e gli ascoltatori a salvare la reputazione del compositore. Il pubblico andava in massa alle esecuzioni delle opere di Šostakovič, evidentemente trovandovi una vitamina spirituale necessaria.

    Una spiegazione plausibile di questa reazione è stata ipotizzata di recente dallo statunitense Lawrence Hansen. La musica di Šostakovič tocca «la nostra paura fondamentale, primordiale: la distruzione dell’Io da parte di forze esterne, la paura che la vita sia inutile e priva di senso, di quel male che si può all’improvviso scoprire nel proprio prossimo». Ha aggiunto che Šostakovič ci dà una sensazione terrificante ma catartica di voli e cadute emozionali»[3].

    E tuttavia l’uomo che sta dietro questa musica tormentosa e tormentante restava un enigma, solo un’immagine sfocata di artista confuso nel panorama staliniano, immagine che, come in un romanzo di fantascienza, è in grado di prendere forma a seconda del punto di vista dell’osservatore. Sotto questo aspetto, un particolare ostacolo è stata l’assenza di un solido retroterra fattuale, integrato in un più ampio quadro politico e culturale dei tempi.

    Presento qui la ricostruzione più dettagliata dei due eventi chiave che hanno visto coprotagonisti Šostakovič e Stalin: La denuncia della grande opera di Šostakovič Lady Macbeth nel distretto di Mcensk, da parte di Stalin nel 1936, e la risoluzione del PCUS che nel 1948 censurava Šostakovič e altri importanti compositori sovietici. Ho prestato un’attenzione particolare a questa vicenda del 1936, che negli annali del Novecento finisce per simboleggiare in che misura uno Stato repressivo possa manipolare la cultura.

    Porto anche documenti che dimostrano che è stato Stalin a scrivere o dettare il famigerato editoriale della Pravda del 1936, Caos anziché musica, che attaccava selvaggiamente Šostakovič, e per la prima volta gli attribuisco la paternità di altri importanti testi non firmati. Non insisterò mai abbastanza su quanto personale e a volte ossessivo sia stato il coinvolgimento di Stalin nella microgestione della cultura sovietica in generale e in particolare dell’affaire Šostakovič.

    Tutto ciò è importante perché l’opinione contemporanea dominante trova difficile attribuire troppa responsabilità a una sola personalità e tende a sopravvalutare l’influenza di una burocrazia senza volto nelle questioni politiche e culturali. Tuttavia il concetto di «culto della personalità» non è infondato.

    Non avevo programmato di scrivere questo libro, avendo per molti anni anche respinto offerte di scrivere la biografia di Šostakovič. Ciò che alla fine mi ha persuaso è stata la distorsione dell’immagine di Šostakovič che ha cominciato a imporsi molto tempo dopo che gli episodi con Stalin sono stati relegati nel proverbiale cestino della Storia.

    È stato soprattutto negli ambienti accademici statunitensi che Šostakovič è stato ironicamente proclamato «forse il figlio musicale più leale della Russia»[4], e la sua opera Lady Macbeth nel distretto di Mcensk denunciata (qui senza nessuna traccia d’ironia) come «opera d’arte profondamente disumana», con la condanna finale che «la sua tecnica di disumanizzare le vittime è il metodo costante di coloro che vogliono perpetrare e giustificare il genocidio [...] se mai un’opera ha meritato di essere messa al bando, è questa»[5].

    Dopo questa solidarietà – espressa in modo risoluto ma molto in ritardo – con le opinioni staliniane su Šostakovič come compositore «nemico del popolo», le altre dotte voci che lo descrivevano semplicemente come «inconsistente»[6], «codardo»[7], «essere umano mediocre»[8] e che additavano la sua «impotenza morale e complicità servile»[9] potevano essere considerate quasi innocue.

    Eppure, lo sentivo, suonavano altrettanto false. Questo quadro di Šostakovič, che finge di essere obbiettivo e per questo si basa in modo consistente sulle sue dichiarazioni ufficiali, a me e a molti dei miei compatrioti musicisti sembrava deformato quanto qualsiasi beverone sovietico sul compositore. Non era il ritratto dello Šostakovič che conoscevamo, ma un costrutto ideologicamente filtrato che poco assomigliava all’uomo apparentemente fragile, non pretenzioso che tuttavia è risaltato come una figura complessa e contraddittoria ma in definitiva coraggiosa, la cui musica ha elettrizzato e terrificato il pubblico di tutto il mondo: non vittima ma, semmai, vincitore, anche se decisamente sfigurato a vita dalle tribolazioni.

    Il dibattito intorno all’immagine di Šostakovič e alla sua opera ora non sono meno intensi di quanto fossero quand’era in vita. Non è uno scherzo del destino. Viviamo in un’epoca molto politicizzata. Continuano a nascere dibattiti sull’estetica di Šostakovič che però scivolano rapidamente nel politico.

    Si è notato spesso che la professione di fede del compositore era la lotta contro il male e la difesa dell’uomo. (Lo stesso si potrebbe dire di Dostoevskij, altra figura molto politicizzata.) Oltre un quarto di secolo fa, quando sono venuto in Occidente, questo slogan aveva un sapore disperatamente passé e lo si percepiva con la puzza al naso. Ora non più.

    Oggi, guardando il nostro orizzonte travagliato, potremmo usare gli occhiali neri della musica di Šostakovič e nuotare con lui tra le travolgenti ondate di tormento, dolore e continua angoscia. Ma con lui noi proviamo anche repulsione di fronte al male, dolore profondo per chi ne è vittima, e la ferma risoluzione a superarlo. Sta qui almeno una delle ragioni che terranno la musica di Šostakovič al centro del dibattito nella cultura contemporanea. Per molto tempo servirà da esempio essenziale di arte politicamente impegnata di prim’ordine.

    Ho avuto il privilegio di osservare Šostakovič da vicino negli ultimi anni della sua vita, mentre collaboravo con lui alla stesura delle sue memorie, Testimonianza. In questo periodo ho cominciato a formulare una descrizione complessiva di lui che sembrava combaciare con le polarità estreme della sua personalità e ad abbracciare le moltitudini che conteneva (come nella spesso citata autodescrizione di Walt Whitman).

    Era un paradigma dello juródivyj, il folle santo, figura tipicamente russa presente sulla scena storica dal secolo XI alla fine del Settecento. Come sottolineano gli studiosi, gli juródivye erano la personificazione della coscienza della gente, poiché si esprimevano liberamente mentre le masse oppresse soffrivano in silenzio, e avevano il coraggio di sfidare anche i tiranni russi più temibili come Ivan il Terribile. Le loro invettive contro i regnanti erano strane e imprevedibili, ma potenti e memorabili.

    Ho elaborato questa concezione di Šostakovič come juródivyj dei nostri tempi nell’introduzione a Testimonianza (del 1979)[10] e in un saggio su Šostakovič e Dostoevskij pubblicato nel 1980[11]. Testimonianza ha sollevato controversie che non si sono ancora placate, e nel corso degli anni mi ha costretto a definire con maggior precisione la concezione dello juródivyj. Sono giunto alla conclusione che probabilmente Šostakovič non è stato influenzato da uno juródivyj in carne e ossa, ma che ha seguìto il modello finzionale offerto inizialmente da Aleksandr Puškin nella tragedia Borìs Godunóv (1824), rielaborata poi nell’opera omonima di Modest Mùsorgskij (1869-1874).

    Sia Puškin sia Mùsorgskij hanno trattato il personaggio dello juródivyj nella loro opera come incarnazione quasi autobiografica dell’artista che – in nome del popolo calpestato – dice verità pericolose ma necessarie in faccia allo zar. È questo il ruolo che Šostakovič ha assunto come modello, il quale comprendeva anche altre due maschere finzionali del Borìs Godunov: quella dell’annalista e quella del pretendente al trono impostore. Adottando tutte e tre le maschere e lavorandoci per molti anni, Šostakovič si è posto come effettivo seguace della tradizione russa del dialogo artistico e del confronto con lo zar, seguendo l’esempio di Puškin e Mùsorgskij.

    Quindi questa interpretazione della personalità tormentata e difficile di Šostakovič mi sembra più esaustiva e, nel contempo, più sfumata di quella presentata nell’introduzione a Testimonianza. La presento qui per la prima volta.

    Cogli anni, le opinioni di Šostakovič, come sono riportate fedelmente in Testimonianza, si sono confuse – secondo alcuni intenzionalmente, per sciatteria secondo altri – con le opinioni e concezioni mie. Per esempio, a volte sono state attribuite a me le descrizioni sprezzanti di Stalin come ignorante assoluto in tutte le questioni riguardanti la cultura. Come vedrà il lettore di questo libro, io non condivido le opinioni alquanto eccessive (ancorché comprensibili) su questa e altre questioni. D’altro canto, ho personalmente sentito un commentatore musicale dichiarare tranquillamente alla National Public Radio che «Šostakovič per tutta la vita si è definito uno juródivyj». Non è proprio così.

    Nel tentativo di chiarire questa confusione e di fare dei distinguo tra Testimonianza e questo libro, ho tenuto al minimo le citazioni da Testimonianza e dalle mie conversazioni personali con Šostakovič. Ma naturalmente, tutto in quest’opera si basa su queste conversazioni e sull’insight che mi hanno dato sulla psiche del compositore, sulla sua visione del mondo e sul suo modo di essere. ,

    Ecco perché come slogan di questo libro ho adottato le parole umili e tuttavia orgogliose della vedova del poeta Osip Mandel´štam, Nadežda, contemporanea di Šostakovič: «Una persona dotata di libertà interiore, memoria e paura è quel fuscello, quella scheggia che cambia la direzione di un flusso travolgente»[12]. Da questa osservazione capisco perché la vita e l’opera di Šostakovič sono diventate d’importanza tanto scottante per numerosi suoi contemporanei.

    Questo è un libro di storia della cultura. Non mi soffermo perciò sull’analisi della musica di Šostakovič, concentrandomi piuttosto sulle circostanze politiche e culturali del periodo di Stalin e della relazione dell’autocrate con le principali figure creative dell’epoca, un campo ancora inadeguatamente indagato e compreso. Descrivo questa relazione come cangiante, mutevole, non fissa e immutata. Oltre a Šostakovič stesso, molte personalità famose mi hanno aiutato a cercare di far luce su questo periodo. Per la comprensione dei meccanismi della politica culturale di Stalin e per orientarmi nei meandri dei pronunciamenti e dei documenti pubblicati, di valore inestimabile sono state le conversazioni con Anna Achmatova, Lilja Brik, Sergej Jutkevič, Viktor Šklovskij, Anatolij Rybakov e Maja Pliseckaja. Gli archivi russi dell’epoca staliniana sono ancora tutt’altro che aperti, ma ho fatto uso di alcune recenti pubblicazioni importanti di materiale prima secretato.

    Alcune rare intuizioni riguardo alle inclinazioni di Šostakovič mi sono state generosamente offerte da Berta Mal´ko, Gavriil Glikman, Evgenij Evtušenko, e anche da musicisti che hanno eseguito per la prima volta alcune delle composizioni più importanti: David Ojstrah, Kirill Kondrašin, Mstislav Rostropovič, Evgenij Nesterenko e Rudol´f Baršaj. Sono anche grato a Kurt Sanderling, Lazar Gosman, Vladimir Aškenazi, Jurij Temirkanov, Valerij Gergiev, Maris Jansons, Vladimir Spivakov e Gidon Kremer perché mi hanno dato la possibilità di discutere con loro alcuni aspetti importanti del fenomeno Šostakovič. Di particolare rilievo sono state le opinioni dei compositori: Georgij Sviridov, Rodion Ščedrin, Alfred Schnittke, Gija Kančeli, Aleksandr Rabinovič e Peteris Vasks.

    Sono anche immensamente riconoscente a Maksim Šostakovič per avere condiviso con me la sua ineguagliabile conoscenza del padre.

    Il Novecento potrebbe essere definito il secolo della propaganda. La cultura pubblicata e trasmessa è stata usata come potente arma politica; le parole sono diventate scambio politico; e il divario tra ciò che è proclamato in pubblico e detto in privato non è mai stato tanto grande.

    Per questo motivo, l’interpretazione dei documenti sovietici ufficiali e della stampa è un lavoro particolarmente intricato e delicato, di cui mi è esempio il libro di Lazar Flejšman Boris Pasternak v tridcatye gody ([Boris Pasternak negli anni Trenta], Ierušalaim, 1984). Al professor Flejšman, che è anche amico d’infanzia, sono grato per i consigli e gli aiuti, come lo sono al professor Timothy L. Jackson, al professor Allan B. Ho, a Dmitrij Feofanov, a Ian Macdonald, al professor Vladimir Zak e ad Andrej Bitov.

    Molti aspetti dell’attuale libro sono stati discussi inizialmente con i miei cari amici Griša e Aleksandra Bruskin. E il mio ringraziamento di cuore va a mia moglie Marianna che ha registrato e trascritto molte interviste per questo libro. Sono anche molto grato alla mia traduttrice inglese Antonina W. Bouis e alla sua assistente Luba Ostaševskij per il loro indefatigabile sostegno e l’assistenza con il manoscritto.

    Prologo Zar e poeti

    Mercoledì 8 settembre 1826 Mosca era avvolta in un turbine festoso: l’antica capitale dell’Impero russo era al secondo mese di opulente celebrazioni per l’incoronazione. Il nuovo monarca, Nicola I, era venuto a Mosca da San Pietroburgo dopo l’esecuzione di cinque importanti decabristi, nobili rivoluzionari che avevano capeggiato il tentativo fallito il 14 dicembre 1825 di bloccare l’ascesa al trono di Nicola. Il 13 luglio 1826 erano stati impiccati Pavel Pestel´, Kondratij Ryleev, Sergej Murav´ëv-Apostol, Michail Bestužev-Rjumin e Pëtr Kachovskij Il governatore militare di San Pietroburgo riferì a Nicola I: «A causa dell’inesperienza dei nostri boia e dell’incapacità di costruire le forche, al primo tentativo tre forche, e precisamente quelle di Ryleev, Kachovskij e Murav´ëv, si sono rotte, ma sono stati presto impiccati di nuovo e hanno ricevuto la morte che meritavano. In proposito riferisco lealmente a Vostra Maestà»[13]. La madre di Nicola, Marija Fëdorovna, dopo l’esecuzione scrisse sollevata a uno dei suoi confidenti: «Grazie a Dio, tutto è andato tranquillamente, tutto è a posto. Che il Signore abbia pietà dei giustiziati e sia con loro pietoso il Giudizio Finale. Ho ringraziato Dio in ginocchio. Credo che per pietà di Dio Nicola d’ora in poi regnerà in pace e tranquillità»[14].

    Per Nicola I, la ribellione era stata uno degli eventi più terribili della sua vita, un incubo a cui tornò spesso. Allora era stato lì lì per essere sconfitto e umiliato. L’imperatore avrebbe poi detto: «La cosa più stupefacente è che non mi abbiano ucciso quel giorno». Era convinto che la Provvidenza lo avesse salvato di modo che potesse diventare capo della Russia e guidare il paese con mano di ferro lungo la strada della legge e dell’ordine, delle vittorie e della gloria. Era davvero l’Unto del Signore.

    Quel mercoledì di settembre l’agenda dell’imperatore era fitta come al solito. Al mattino lui e il principe di Prussia si presentarono in piazza Ivanovskaja per il cambio della guardia; poi ricevette il governatore generale militare di Mosca per il suo rapporto. Dopo, Nicola I s’incontrò in Cremlino con i capi dell’Assemblea della nobiltà di Mosca; poi vennero vari alti funzionari a fare rapporto, tra cui il capo del corpo dei gendarmi, conte Aleksandr Benkendorf. Quel giorno, il giornale ufficiale Moskovskie Vedomosti stampava l’ukaz con la nomina di Benkendorf a capo della Terza Sezione della Cancelleria di sua maestà imperiale: la versione modernizzata della polizia segreta russa.

    Tra gli altri appuntamenti, tra il pranzo con principe di Prussia e il ballo dato in onore degli importanti ospiti stranieri dall’ambasciatore francese al meraviglioso palazzo del principe Kurakin, era in agenda un’udienza con Aleksandr Puškin, poeta giovane ma già di fama nazionale. Il fratello maggiore di Nicola, il defunto Alessandro I, era stato molto angustiato da Puškin – dissoluto, audace, altezzoso, che inondava la Russia di poesia scandalosa – e l’aveva mandato in esilio due volte, una al sud dell’impero, e poi nella campagna sperduta, nel possedimento dei genitori in provincia di Pskov, sotto la supervisione delle autorità locali. Nelle case di molti dei decabristi arrestati erano state trovate copie manoscritte dei versi antigovernativi di Puškin. Un uomo che aveva tanta influenza sulla mente dei concittadini era pericoloso, e bisognava vigilare, con attenzione, in modo spassionato, ma con decisione e fermezza.

    Puškin, che era stato convocato all’improvviso su ordine dello zar dall’esilio nel suo paese a Mosca (quattro giorni di viaggio a cavallo), fu portato al Cremlino dopo le quattro. L’autocrate e il poeta s’incontravano faccia a faccia per la prima volta. Era un momento storico, di cui entrambi apprezzavano l’importanza.

    Il destino di Puškin era appeso a un filo. Era impossibile immaginare due persone più disparate: Puškin basso, brutto, ma con la faccia vivace ed espressiva, capelli ricci e carnagione olivastra (retaggio della sua discendenza africana), mai distintosi per l’eleganza dei vestiti e ora in abiti da viaggio gualciti e polverosi, con la barba non fatta e infreddolito, stava davanti all’imperatore alto, bello, dal torace grosso, di soli tre anni più anziano, dal profilo aquilino, sempre di portamento regale e particolarmente attento all’aspetto e all’eleganza degli altri. Sembrava che lo scontro fosse inevitabile.

    Ma avvenne l’esatto contrario. Dopo un lungo tête-à-tête, lo zar e il poeta riemersero dallo studio, e negli occhi di Puškin c’erano lacrime, il poeta era commosso, profondamente agitato e felice. A sua volta, Nicola I era giunto alla conclusione che Puškin era «l’uomo più saggio della Russia»[15]. Ora lo chiamava «il mio Puškin».

    Di che cosa parlarono? Si cominciò con la domanda dello zar: «Che cosa avreste fatto se vi foste trovato a San Pietroburgo il 14 dicembre?»

    «Sarei stato tra le file dei ribelli» rispose Puškin senza esitazione. Quelle parole avrebbero potuto essere fatali al poeta. Ma l’intuizione aveva suggerito a Puškin la giusta via: Nicola I apprezzava le persone dirette e oneste. Il suo rispetto per Puškin crebbe ancora di più quando in risposta alla domanda dello zar se il suo pensiero fosse cambiato e se ora poteva dare la parola di agire diversamente, il poeta esitava. Solo dopo un lungo silenzio, porse la mano all’imperatore e promise «di cambiare».

    Come scrisse invidioso un contemporaneo di Puškin, «Il suo discorso intelligente, franco, e rispettosamente audace è piaciuto al Sovrano. Gli è stato dato il permesso di abitare dove vuole e di pubblicare ciò che vuole. Lo zar si è messo a fargli da censore a condizione che non abusi di questo dono della libertà totale e rimanga fino alla fine dei suoi giorni sotto la protezione dello zar»[16].

    Tutta Mosca seppe all’istante di questo incontro importante. Un agente segreto della Terza Sezione riferì in un rapporto speciale che «tutti sono sinceramente lieti della condiscendenza dell’Imperatore, la quale, senza dubbio, avrà le conseguenze più felici per la letteratura russa»[17]. Se solo Puškin avesse saputo quanto poco sarebbe stato generoso Nicola I, quanta poca benevolenza avrebbe mostrato per «l’uomo più saggio della Russia», quanto meticoloso, rancoroso, invidioso della fama altrui, indifferente alla poesia di Puškin e crudele si sarebbe dimostrato negli anni venturi! In altre parole, era un politico per il quale la cultura era solo uno strumento inaffidabile e sospetto per raggiungere i propri obbiettivi. Puškin fu ucciso in un duello, la cui colpa sarà sempre attribuita a Nicola I. Il funerale del poeta fu organizzato sotto stretto controllo ufficiale. Alle funzioni religiose, secondo le testimonianze, c’erano più gendarmi e poliziotti che parenti afflitti. L’addio a Puškin fu trasformato in una farsa di Stato. Ma chi avrebbe potuto sospettarlo nella festiva, gioiosa Mosca del 1826? Alla morte di Puškin, perseguitato e solo, mancavano poco più di dieci anni.

    Centodiciassette anni dopo, nell’autunno del 1943, Mosca era una città del tutto diversa, non una «vedova portatrice di porfido», come l’aveva un tempo definita Puškin, ma una vera capitale di uno stato potente, benché senza una somiglianza troppo stretta con l’impero modello che Nicola I, «Don Quijote dell’autocrazia», si era immaginato. Nel 1918, dopo uno iato di oltre due secoli, il governo era stato ritrasferito al Cremlino dal leader bolscevico Vladimir Lenin, e il suo erede, Iosif Stalin, ne aveva fatto il simbolo del proprio potere: Non era più lo sfondo esotico delle incoronazioni sontuose, ma un centro nevralgico di un paese enorme e dinamico.

    Che salto, e che ironia della sorte! La Mosca in cui Nicola I aveva ricevuto Puškin appariva festosa e piena di miriadi di luci. La Mosca staliniana del 1943 era una città militare, poco popolata, affamata, oscurata e cupa. Ma tra le due Mosche c’era qualcosa in comune: innanzitutto, la psiche dei due leader. Tanto Nicola I quanto Stalin avevano attraversato una crisi terribile: una paura immensa che nessuno dei due aveva mai del tutto superato. Per Nicola I era la rivolta decabrista; per Stalin, la reale minaccia di sconfitta nella guerra contro la Germania di Adolf Hitler.

    La guerra era cominciata il 22 giugno 1941, quando le truppe naziste avevano invaso l’Unione sovietica e in pochi giorni avevano portato l’Armata rossa sull’orlo di una catastrofe. I tedeschi avevano compiuto un’avanzata inesorabile, dal mar Baltico al mar Nero. Stalin era disperato. Pur perdendo di rado il proprio autocontrollo, in un accesso di rabbia gridò arrabbiato ai suoi compagni terrorizzati: «Lenin ha fondato il nostro Stato, e noi l’abbiamo completamente riempito di merda»[18]!

    In ottobre i tedeschi erano fuori Mosca, e la capitale poteva cadere da un momento all’altro. Il 16 ottobre per la città si diffuse il panico che molti anni dopo il regista Jurij Ljubimov mi ha descritto in questo modo: «Bruciano i documenti, turbina neve nera come in Michail Bulgakov... Nell’insieme, una scena dell’Apocalisse»[19]. I ministeri e le istituzioni più importanti furono evacuati da Mosca in quattro e quattr’otto, compreso il teatro Bol´šoj; un aereo speciale aspettava Stalin per trasferirlo a Kujbyšev, nell’interno del paese. Ma Stalin restava nella capitale. Come Nicola I, conosceva l’importanza dell’esempio personale.

    Nel confronto con i decabristi, Nicola I era riuscito a placare gli animi soprattutto grazie al suo portamento freddo. Dapprima sconvolto di fronte al disastro che avanzava, Stalin riuscì anche a dimostrare la determinazione e la brutalità necessarie per organizzare la resistenza. I soldati sovietici attaccarono il nemico al grido di «Per la Patria! Per Stalin!» Il miracolo avvenne e i tedeschi furono cacciati da Mosca. Ma il vero spartiacque della guerra avvenne all’inizio del 1943, dopo la sconfitta dei tedeschi a Stalingrado, città strategicamente importante sulla Volga, che Stalin in conversazioni private verso la fine dei suoi giorni insisteva a chiamare col suo antico nome, Caricyn.

    La battaglia di Stalingrado assunse un ruolo leggendario negli annali della storia militare moderna. In seguito, come ricordavano molte persone che hanno conosciuto bene Stalin di persona, il leader sovietico, nonostante il defatigante stress di governare il paese (passava alla scrivania ogni giorno sedici ore e più), aveva l’aria riposata. Le spalle di Stalin si raddrizzarono e sorrideva e scherzava più spesso.

    Stalin sapeva che l’Unione sovietica non solo si era salvata ma sarebbe diventata, dopo la fine della guerra, una delle superpotenze del mondo. Era venuto il momento di decidere circa i simboli imperiali più adatti. Furono introdotte uniformi per i ferrovieri e gli avvocati; ai diplomatici sovietici fu ordinato di indossare, nelle occasioni solenni, completi neri con bordino argentato sulle spalle e rifinitura dorata sull’orlo e sui risvolti. A Mosca si scherzava tranuillamente sul fatto che presto anche ai poeti sarebbe stata messa l’uniforme, con una, due o tre lire sulla spalla a seconda del rango.

    Dai tempi della rivoluzione l’inno della Russia bolscevica era l’Internazionale francese. Ora Stalin prese la decisione che l’Unione sovietica aveva bisogno di un nuovo inno nazionale, più in tono con le circostanze e le nuove ambizioni politiche. Un’apposita commissione statale capeggiata dal maresciallo Kliment Vorošilov (a cui piaceva la musica e che aveva una voce tenorile esile ma gradevole) annunciò il bando di una gara, per la quale fu stanziato molto denaro. I partecipanti mandarono centinaia di proposte; tra loro figuravano i più noti poeti del paese: Dem´jan Bednyj, Michail Isakovskij, Nikolaj Tichonov, Michail Svetlov, Evgenij Dolmatovskij. L’elenco dei compositori contava i nomi di Sergej Prokof´ev, Šostakovič e Aram Chačaturjan.

    Nel tardo autunno del 1943, Stalin, che teneva d’occhio da vicino l’andamento della selezione, scelse tra tutte le proposte una poesia scritta da due giovani poeti, il russo Sergej Michalkov e l’armeno Gabriel Urekljan (con lo pseudonimo di El-Registan). A tutti i compositori fu chiesto di musicare le parole, meticolosamente corrette da Stalin in persona. (Non molti sapevano allora che Stalin, da seminarista sedicenne, aveva pubblicato nei giornali di Tbilisi varie poesie, ingenue come è tipico dell’età, ma sincere e appassionate.)

    La fase finale della gara per l’inno fu tenuta al Teatro Bol´šoj, i cui musicisti per allora erano già tornati dallo sfollamento a Kujbyšev. Erano presenti Stalin e altri membri del Politbjuro. Ogni inno fu ascoltato cantato da un coro (L’ensemble di canto e danza dell’Armata Rossa sotto la direzione di un favorito di Stalin, il compositore Aleksandr Aleksandrov, che aveva vari titoli: professore al Conservatorio di Mosca e maggiore generale nell’esercito, oltre che artista del popolo dell’Urss), quindi eseguito dall’orchestra del Bol´šoj e infine eseguito sia dal coro con solisti sia dall’orchestra. Oltre agli inni in gara, per permettere confronti, ne furono eseguiti vari altri: l’Internazionale, la Marsigliese, God Save the King e – curiosamente – il vietatissimo simbolo della Russia prerivoluzionaria, Bože carja chrani [Dio, salva lo zar], inno scritto nel 1833 su richiesta personale di Nicola I da Aleksej L´vov, ex aiutante di campo del conte Benkendorf e futuro generale e direttore del coro della cappella di corte.

    Nell’auditorium vuoto sedevano Šostakovič e Chačaturjan: i loro inni erano giunti alla fase finale della selezione. Erano tesi, e il cremisi e l’oro del teatro appena rinnovato (essendo stato danneggiato dai bombardamenti tedeschi all’inizio della guerra) non miglioravano il loro stato d’animo. Šostakovič fissava nervoso il soffitto restaurato con le nove muse e Apollo che veleggiava nel cielo azzurro. In séguito ricordò di avere pensato cupo: «Sarebbe bene che accettassero il mio inno. Sarebbe una garanzia di non essere messo dentro»[20].

    Il Bol´šoj era davvero un teatro imperiale, eretto nel 1856 su progetto approvato da Nicola I. A Stalin piaceva andarci, e non si perdeva quasi mai una prima sia di opera sia di balletto. Certe produzioni, soprattutto i classici russi, le vedeva più volte. Evitava di andare nel palco centrale, chiamato un tempo «palco dello zar». Non troppi sapevano che Stalin si sedeva dietro una tenda nel palco A, a sinistra, subito sopra il golfo mistico. Quel palco era blindato, in caso di attentati. Nessuno sapeva mai esattamente quando Stalin sarebbe arrivato al Bol´šoj, tranne gli artisti, che potevano indovinarlo con facilità. Quel giorno il generale Nikolaj Vlasik, capo delle guardie del corpo personali di Stalin, veniva al teatro accompagnato da aiutanti di campo travestiti da dandy. In preparazione della visita di Stalin, se ne passeggiava in giro, senza salutare nessuno, lanciando al personale tremante un’occhiata dura, sospettosa mentre controllava ogni sgabuzzino e angolino del teatro.

    Durante l’esecuzione, la platea e le gallerie erano piene di guardie del corpo in borghese. Gli artisti spaventati si trascinavano sul palco come se dovessero buttarsi in un fiume gelido. Un cantante della Donna di picche di Čajkovskij, consapevole della presenza di Stalin, prese una stecca. Stalin conosceva bene la Donna di picche. Chiamò il direttore del Bol´šoj per avere una spiegazione. Quando l’uomo andò strisciando nel palco, Stalin domandò: «Questo cantante ha titoli onorari?»

    «È artista del popolo, compagno Stalin».

    Stalin scosse la testa e rilevò solamente: «Che buono il nostro popolo»[21].

    Molti cantanti del Bol´šoj erano favoriti personali di Stalin. Uno era il grande basso Maksim Michajlov, uomo pittoresco, basso e tozzo, già diacono in chiesa. Era impressionante nel ruolo di Ivan Susanin nell’opera di Glinka allora omonima, ma originariamente intitolata La vita per lo zar.Si diceva che Stalin a volte abbandonasse le sessioni serali del politbjuro per non perdere la famosa aria finale del Susanin. Michajlov confidò un segreto al direttore Kirill Kondrašin: a volte il cantante veniva convocato nel cuore della notte al Cremlino per tenere compagnia a Stalin. Lo trovava solo nel suo studio con una bottiglia di buon vino georgiano sulla scrivania. «Su, Maksim, stiamo un po’ seduti in silenzio». . . Passavano varie ore. Verso mattino, Stalin lo salutava. «Grazie, Maksim, abbiamo fatto una bella chiacchierata»[22].

    Tra gli esecutori degli inni in gara c’erano i cantanti di punta del Bol´šoj, tra cui Michajlov. Uno di loro insistette poi che le opere di Prokof´ev, Šostakovič e Chačaturjan non avevano fatto una buona impressione alla commissione. In realtà, la situazione era più complessa. Stalin distinse gli inni di Šostakovič e Hačaturjan subito, dando loro il punteggio massimo, dieci. Ognuno di loro aveva scritto varie versioni e ne avevano perfino una congiunta, su espresso ordine del capo, che credeva nell’efficienza del collettivo. Stalin disse che soltanto nelle opere di Šostakovič e Chačaturjan sentiva qualcosa di originale: per il resto erano quasi tutte marce tradizionali[23]. Ma Stalin riconobbe anche che l’originalità non era una priorità in un inno nazionale. Un inno, prima di tutto, doveva essere facile da ricordare e da cantare per tutti, «dai pionieri ai pensionati». In quel senso, il solenne Inno del Partito Bolscevico composto da Aleksandrov prima della guerra gli andava bene. Stalin chiama quella canzone «corazzata». Secondo lui, sarebbe dovuta andare benissimo con il testo patriottico di Michalkov ed El-Registan, che parlava di grande Russia, Lenin e Stalin, «l’eletto del popolo»[24][25].

    Stalin non prendeva quasi mai in fretta le decisioni importanti. Preferiva raccogliere un ampio spettro di reazioni da persone di cui stimava l’opinione professionale. Dopo un’audizione dal palco fu fatto un annuncio: «Šostakovič e Chačaturjan sono pregati di andare al palco!» Entrambi furono prontamente guidati, accompagnati da guardie, al palco di Stalin.

    Nel piccolo salottino rosso adiacente al palco (gli esecutori lo chiamavano «anticamera della sauna») erano il capo e, un po’ discosti, altri membri del politbjuro: Molotov, Vorošilov, Mikojan, Chruščëv, dieci-quindici in tutto. Šostakovič, che li conosceva dai ritratti e aveva una memoria fenomenale, salutò educatamente ciascuno per nome e patronimico. «Buon giorno, Iosif Vissarionovič! Buon giorno, Vjačeslav Michajlovič! Buon giorno, Kliment Efremovič! Buon giorno, Anastas Ivanovič! Buon giorno, Nikita Sergeevič!» Questo piacque a Stalin. «Non ci piacciono i timidi, ma non ci piacciono nemmeno gli sfacciati» soleva dire[26].

    Si guardarono incuriositi: il capo, di media statura, spalle larghe, faccia butterata, lisciandosi i leggendari baffi ora ingrigiti, e forse il più famoso compositore serio del paese, occhialuto, con il ciuffo eternamente giovane e l’aria ingannevole di uno studente ansioso di spiattellare la lezione. Stalin aveva una nuova uniforme da maresciallo cachi chiaro, con ampie strisce rosse. Aveva in mano l’onnipresente pipa.

    Stalin parlò a Šostakovič. «La vostra musica è molto buona, ma che fare, la canzone di Aleksandrov è più adatta all’inno perché suona più patriottica». Poi si rivolse ai colleghi: «Credo che dovremmo prendere la musica di Aleksandrov, quanto a Šostakovič...» . . Qui Stalin fece una pausa; Šostakovič ammise poi parlando con un amico che si aspettava di sentire «quanto a Šostakovič, portatelo in cortile e fucilatelo». Ma il capo completò diversamente la sua frase. «Quanto a Šostakovič, dobbiamo ringraziarlo»[27].

    Poi Stalin si rivolse ad Aleksandrov, pure presente. «Però, professore, nella sua strumentazione c’è qualcosa che non va». Aleksandrov cominciò a scusarsi: Aveva poco tempo e aveva chiesto al suo aiutante, Viktor Knuševickij, di fare l’orchestrazione, ed evidentemente lui aveva lavorato male. Šostakovič inaspettatamente esplose, interrompendo Aleksandrov. «Ma si deve vergognare, Aleksandr Vasil´evič! Sa perfettamente che Knuševickij è un maestro del suo mestiere, fa strumentazioni meravigliose. Sta accusando ingiustamente un suo sottoposto, e in sua assenza, quando lui non può rispondere. Si vergogni!»

    Regnò il silenzio. Erano tutti raggelati in attesa della reazione di Stalin a questo comportamento straordinario. Stalin aspirava dalla pipa e continuava a guardare con interesse ora Šostakovič ora Aleksandrov, imbarazzato, e alla fine disse: «Ma insomma, professore, non è molto carino...»[28]. . .

    Šostakovič

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