Il reale immaginario
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Il reale immaginario - Marco Matarrese
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CAPITOLO I
Il pendolo rintoccava. Erano le 8 di mattina e in casa non si sentiva volare neanche una mosca anzi, a dir il vero, imperava senza tregua alcuna un silenzio talmente assordante, che offuscava l’ambiente con caratteristico vigore. Era giorno, ma sembrava che fosse calato improvvisamente il buio e il tempo si fosse magicamente fermato per dar spazio alla creazione di un luogo alquanto abissale, nonché irreale, parallelo al resto del mondo in continuo moto. Francesco, giovane scrittore, alquanto freddoloso, dormiva in salone, sul suo divano preferito riposto, in modo accurato, davanti al camino, che ancora fiocamente continuava a riscaldare l’ambiente circostante. Quella stanza avrebbe dovuto essere un soggiorno, ma in realtà era un vero e proprio bazar, per la mole di libri e scartoffie che vi facevano bella mostra di sé.
Quel giorno sembrava un giorno come tutti gli altri. Invero, non lo era affatto! Aleggiava una sensazione strana che non lasciava presagire, almeno in apparenza, e men che meno al giovane scrittore, che ci fosse altro. Francesco, che intanto aveva assunto una posizione supina, con un braccio disteso lungo il fianco e l’altro poggiato sul petto, sognava di volare su un cavallo bianco alato, che assomigliava tanto al suo pupazzo " Piggy , con cui amava dormire da bambino e grazie al quale era riuscito a non avere più paura del buio. A quel cavallo, che era spuntato all’improvviso e che quasi lo aveva spaventato, in sogno gli aveva appioppato, curiosamente, il nome di
Bubù ; ai suoi occhi appariva enorme e con una folta criniera eburnea e gli dava una piacevole sensazione di onnipotenza, in quanto con lui poteva sfidare tutte le leggi della fisica, come volare a testa in giù o a zig-zag e svolazzare in lungo e in largo per tutta la città, per poi lanciarsi in picchiata dalle vette innevate delle montagne circostanti. Francesco, che quel cavallo sembrava cavalcarlo con maestria, come se fosse un vero fantino, portava un paio di occhiali retrò, molto simili a quelli che avevano i primi piloti di aerei, mentre in testa indossava un berretto di un bianco accecante in grado di resistere anche alle più energiche folate di vento. In tutto il sogno spiccavano sempre il sorriso, ammaliante e dolce allo stesso tempo, e le risate fragorose, che creavano un’eco inebriante, oltre al nitrito esilarante di
Bubù ", che ogni tanto si ergeva sulle zampe posteriori per manifestare tutta la sua forza fisica. Francesco sembrava amare quel sogno, che per lui aveva una connotazione magica e che faceva trasparire sul suo volto felicità e serenità. Quel sogno gli parve talmente entusiasmante da provocargli gioia e riso, fino a quando in lontananza gli apparve una nave gigante, che sfidava con forza l’impetuosità del mare, veemente come non lo aveva mai visto in vita sua, a tal punto da creargli ansia. Il cielo diventò improvvisamente minaccioso e per un attimo trasalì. Poi, su una delle tante vele che si contrapponevano ai venti furibondi, vide che era aggrappata una dolce fanciulla, dalle bionde chiome e di un’avvenenza incantevole, che invocava il suo nome, al pari delle sirene nell’Odissea di Omero. Fu colto da una sensazione di giubilo e si sentì un piccolo Ulisse alle prese con i canti ammaliatori. Ma, al contrario del famoso eroe omerico, egli riuscì a tapparsi le orecchie e, con fare disinvolto, a salire sul suo cavallo alato, che nel frattempo gli era venuto incontro, e a volare via, mentre le onde del mare continuavano ad alzarsi sempre più in alto verso il cielo, che al contempo piano piano si stava rischiarando. Quando il sole si impose finalmente all’orizzonte, della nave non vi era più traccia. Il sereno imperversò e Francesco poté di nuovo felicemente sfidare le leggi della fisica.
Su quel divano preferiva sedersi tutte le volte che aveva intenzione o voglia di scrivere, anche semplici pensieri e non solo per trovare conforto; talvolta costituiva luogo di meditazione, e raramente posto da cui guardare la tv, rigorosamente stravaccato.
Lì sosteneva, a chi glielo chiedesse, di trovare l’ispirazione per validi romanzi, mentre agli occhi della moglie Silvia, invece, era solo un modo furbesco per poltrire; cosa che avveniva a suo avviso sovente. Tra i due, infatti, la più mondana
era la moglie e il più sedentario era proprio lui, che non solo non ammetteva minimamente di esserlo, ma diceva addirittura di possedere una vitalità senza eguali e un’energia unica ed esplosiva.
Spesso litigavano e in quei momenti capitava a volte che si scambiassero scherzosi rimbrotti sui loro reciproci stili di vita. Il loro amore, però, era ben saldo e non mostrava segni di cedimento.
Era l’8 maggio, una data importante per entrambi, ma gli appariva inconsapevolmente come un giorno uguale a tutti gli altri. Fuori pioveva a dirotto e dalla finestra del salone si potevano osservare le fronde degli alberi, situate al centro della strada, seguire e piegarsi alla forza del vento, che imperversava senza tregua. Era domenica e non una domenica come tutte le altre! Tutti dormivano, persino il cane Wolf, che per dare, forse, una nota di colore alla giornata interrompeva, di tanto in tanto, il silenzio assordante con alcune sue note sinfoniche, talvolta in crescendo. Wolf era un collie dal pelo folto marrone e bianco, molto vivace e giocherellone. Quel nome, a prima vista alquanto curioso, in realtà traeva origine dal modo rabbioso con cui soleva reagire, soprattutto da cucciolo, a chi gli si porgeva in modo scontroso. In quei momenti era capace di ringhiare come un vero lupo. Da qui il nome, che gli fu affibbiato in inglese, perché per Francesco era, come amava dire, più " figo ".
Il pendolo, intanto, continuava a ticchettare e, prima che rintoccassero le nove, si udì un segnale acustico continuo e crescente provenire dal tavolino antistante al divano su cui Francesco seguitava a riposare beatamente. Era la sveglia! Lo schermo, che si illuminava in modo schizofrenico, indicava le 8:45 di fianco a un simbolo simile a un cuore rosso pulsante, che, a chi l’aveva inserito, doveva verosimilmente ricordare una data importante (come potesse quel simbolo associarsi a un giorno importante era un mistero!) o a chi l’aveva ideato un giusto segno da mostrare. Susseguì poco dopo il rintocco del pendolo, che assieme alla sveglia intonarono un piccolo concerto sgradevolmente distonico. Silvia, nella sua camera da letto, sembrava non aver udito nulla, e continuava a dormire come se nulla fosse successo. Il primo a dar segni di vita fu Wolf che, dopo essersi stiracchiato a dovere, si avvicinò, scodinzolante e con passo svelto e cadenzato, dal suo padrone, pensando di fargli cosa gradita. Poi si mise davanti a lui e lo osservò per qualche istante fino al punto in cui decise, vedendolo immobile e assente, di rendersi utile; fece un bello scatto in avanti, pose le zampe anteriori sul divano, e sferrò qualche repentina e leggera zampata al petto di Francesco, alternandola con qualche piccola leccata alla mano. Francesco, sembrava che si stesse pian pianino ridestando dal sonno profondo in cui era sprofondato; emise un suono gutturale e si girò di scatto da un lato, dando le spalle al povero Wolf, che provvide subito a dargli un’altra bella zampata, questa volta dritta ai lombari. Francesco, accusato il colpo, si rigirò dall’altro lato; appariva come un’anima in pena e infastidito da un qualcosa che gli era ancora ignoto, intento com’era a farsi coccolare dalle braccia di Morfeo. Poi cominciò a bofonchiare qualcosa di incomprensibile, forse anche a lui, socchiuse un occhio, tenendolo per un po’ fermo in quella posizione, mentre l’altro lo teneva rigorosamente chiuso, dopodiché mosse la testa lentamente a destra e sinistra a mo’ di radar, e dopo un bello sbadiglio pronunciò, al suo ignoto disturbatore, le seguenti domande: «Chi è? Che c’è? Che cosa vuoi?». Non avendo ricevuto alcuna riposta, tentò di riaddormentarsi, voltandosi di nuovo, ma Wolf sempre attento a qualsiasi suo movimento, sferrò ancora una volta altre due piccole zampate, decise e in rapida successione. Francesco così riaprì l’occhio, che aveva tenuto per un po' semiaperto e che aveva prontamente richiuso, poi stiracchiò le braccia e le gambe e si sedette lentamente sul divano; rimase immobile per un po’, con lo sguardo assente e fisso nel vuoto, con la testa un po’ protesa verso il basso e con le mani appoggiate sulle ginocchia fino a quando si convinse che era arrivato il momento di alzarsi. A quel punto diresse casualmente gli occhi, dopo esserseli stropicciati ben benino, davanti a sé, nella direzione del camino; fu in quel momento che si accorse della presenza del suo simpatico Wolf, che, contento, gli saltò addosso. Francesco non poté fare altro che abbracciarlo e rivolgergli, dopo un po’, le seguenti parole, come se fosse notte fonda: «Wolf, sei il solito rompiscatole! Dormi!». Non si era reso conto dell’orario e soprattutto che quel giorno non era come tutti gli altri!
Erano le nove e mezza e all’appello mancava solo Silvia, a cui Francesco ancora non rivolgeva alcun pensiero. Per lui la priorità del momento era quella di bere una bella tazza di caffè, che l’avrebbe aiutato a riacquisire le capacità cognitive e senza il quale avrebbe faticato a " carburare ". Del caffè gli piaceva non solo il gusto ma anche il profumo, che trovava allo stesso tempo piacevole e rilassante e la cui preparazione costituiva a suo dire un vero e proprio rito, che riservava solo al mattino e solo la domenica. Gli altri giorni, invece, si accontentava di quello del bar, che non aveva nulla da invidiare al suo, anzi... il suo era sempre il più buono. Eppure di bar in città ne aveva provati diversi, ma la musica alla fine non cambiava! Francesco amava più di tutti il suo caffè, che preparava rigorosamente con la solita moka e con la solita miscela (prevalentemente arabica e con un pizzico di robusta) che si faceva macinare appositamente da un suo amico barista. A un certo punto cominciò a sentire allo stomaco una sensazione di vuoto, che lo aveva infastidito alquanto e che collegava istintivamente solo all’esigenza del momento di fare colazione; quella sensazione non concerneva, però, solo il bisogno di colmare un senso