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L'esercizio della vita: Cronisteria
L'esercizio della vita: Cronisteria
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L'esercizio della vita: Cronisteria

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About this ebook

La saga di una città dai mille volti, che però rappresentano il suo vero volto. Una città non italiana, non croata, non ungherese, ma insieme italiana, croata, ungherese. E’ la Fiume, oggi Rijeka, prossima capitale europea della cultura nel 2020, raccontata in questo romanzo da Nedjeljko Fabrio. Una data, il 2020, entro la quale, un po’ alla volta, sta cercando di rientrare nel novero di quelle città straordinarie, multietniche, multilinguistiche, multiculturali e multireligiose, com’erano nel passato Alessandria d’Egitto o Beirut o Smirne o Rodi. Un percorso non facile che la scrolli definitivamente da quella linea piatta, senza più vita, monocorde, unilaterale, quale la Jugoslavia di Tito l’aveva ridotta dopo le lunghe bellissime stagioni dei secoli precedenti, dal 1700 al 1945, che in questo romanzo, di autentico spessore letterario, vengono raccontate da Nedjeljko Fabrio. Certo, lo fa dal punto di vista suo, croato, ma non sfugge, nonostante questo prisma a tratti deformante, proprio, del resto, di uno scrittore a cui sono concesse tutte le invenzioni possibili di questo mondo, l’impronta cosmopolita che pochi hanno saputo cogliere, chi riducendo Fiume, prima, a città ungherese, chi poi, dopo l’impresa dannunziana, a città italiana, chi poi, con l’arrivo di slavi venuti da fuori a riempire il vuoto demografico lasciato dall’esilio degli italiani, a jugoslava, e chi infine ancora, negli ultimi vent’anni, a città croata.
No, Fiume è Fiume. O non è.
LanguageItaliano
Release dateJul 17, 2018
ISBN9788899932190
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    L'esercizio della vita - Nedjeljko Fabrio

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2017 Oltre edizioni

    http://www.oltre.it

    ISBN 9788899932190

    Titolo originale dell’opera:

    L'esercizio della vita

    di Nedjeljko Fabrio

    Traduzione di Silvio Ferrari

    Collana Oltre confine

    Il libro è stato pubblicato con il sostegno del

    Ministero della Cultura della Repubblica di Croazia

    NEDJELJKO FABRIO

    Nedjeljko Fabrio è nato nel 1937 a Spalato, ha scritto romanzi, racconti, drammi teatrali e saggi.

    Ha tradotto anche molte opere dall’italiano al croato. In Italia, sempre da Silvio Ferrari, è stato tradotto il suo romanzo La chioma di Berenice, anch’esso di ampio respiro storico e letterario.

    INDICE

    Autore

    Libro primo

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Libro secondo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    Capitolo ventiseiesimo

    Capitolo ventisettesimo

    Capitolo ventottesimo

    Nedjeljko Fabrio

    L'esercizio della vita

    Cronisteria

    oltre edizioni

    "La peggior cosa di tutto ciò che succede sotto il sole è questa:

    tutti hanno lo stesso destino, il cuore dell'uomo

    è pieno di male,

    la follia è nei cuori umani fintanto che vivono,

    e da ultimo si aggiungono ai morti."

    Il predicatore 9,3

    Libro primo

    CAPITOLO PRIMO

    In un’azzurra giornata invernale, quando sembra sonoro tutto ciò che tocca la mano e cristallinamente trasparente tutto ciò che l’occhio scorge, mentre dagli Appennini scendeva un freddo vento penetrante, suo padre e lui si erano calcati sulle loro teste scarmigliate, fino a coprirsi le orecchie ancora calde di sonno, dei berretti ricavati da variopinti ritagli di tessuti diversi cingendosi poi la vita di corte stuoie di pelle di agnello sulle quali, nelle notti di tempesta, dormivano i loro cani pastori.

    Erano già scesi fino al roccioso approdo quando lui si voltò improvvisamente a guardare il paesino che stava abbandonando, il campanile della chiesetta sopra i tetti uniformi color terra, e dopo essere scesi ancora per una decina di passi, vedrà anche la chiesetta che apparve fra le case come in una fenditura, cinta dalle mura da dove, nei giorni di festa, fischiavano i petardi aprendosi nel cielo serale come il ventaglio brevemente ostentato dalla coda di un pavone.

    Lassù in alto il paesino era già sparito nella sassaia che anche sotto i loro piedi risuonava al soffio del vento, tanto che non riuscì a scorgere neppure il fumo che usciva da qualche focolare già acceso.

    Oppure non ci sono ancora i primi chichirichi?, pensò, aggiungendo: Ne sentirò qualcuno dal nostro cortile? Li sapeva distinguere dal canto. Non li sentì. (Non li sentirà del resto mai più).

    – Non ti voltare. Mai – Lo ammonì suo padre.

    Stavano già calpestando la distesa vitrea della ghiaia, sollevando i piedi dalla sabbia sempre più argentea e dalle alghe emerse in superficie, sguazzando nelle pozzanghere che il mare aveva lasciato dietro di sé.

    Procedevano in silenzio, e battendo i denti a causa del vento di ponente che, d’ora in poi li sferzerà di traverso, di piatto, come fa il falciatore con l’erba pensò e strinse in vita la corta stuoia di lana d’agnello.

    Già basso di statura, ora suo padre gli sembrava ancora più magro e basso; dagli stracci che calpestavano e in cui sguazzavano un passo o due davanti a lui spuntavano la barba e i favoriti di color cannella e i neri occhi lampeggianti che guardavano dritto davanti, nella sabbia sempre più argentea e nelle alghe emerse, nelle pozzanghere che il mare aveva lasciato dietro di sé, e che simili ad un’informe distesa grigio-azzurra galleggiavano fino all’altezza delle loro gambe.

    Giunsero ad un piccolo cantiere navale: giacevano sugli scali rovesciati sul fianco dei trabaccoli di diverse dimensioni, alcuni senza e altri con due alberi appena sgrossati e piantati; sotto le finestre delle baracche incatramate fino a metà erano appoggiate delle battane rosse e gialle. Gli scheletri lignei biancheggianti delle barchette in costruzione le cui costole impeciate erano piegate verso il futuro ventre dello scafo, gli parvero simili a quelli dei pesci.

    Suo padre gli mise la mano nella sua e, togliendosi il berretto si avvicinò ad una porta. Solo adesso, nella cornice di quella stretta porta, poté valutare adeguatamente quanto suo padre fosse ingobbito dal freddo o, per meglio dire, dai suoi guai. Quando suo padre, con precauzione, bussò, egli attraverso quella stretta porta aperta, entrerà di fatto nella vita, che lo condurrà nella nostra cronisteria.

    – Prenda mio figlio, sior Tonino – disse suo padre, già dalla soglia. – Perché diversamente non ho cosa dargli da mangiare.

    – Vedo.

    Si vergognò per suo padre.

    – Ma è ancora un bambino, compare Timoteo. Quanti anni ha?

    – Otto.

    – Gracile. Va per gli otto anni.

    – In realtà sono sei. Ma i bambini crescono in fretta, potrà verificarlo e si convincerà.

    Si vergognò per suo padre.

    – Potrà pulire per terra in segheria le schegge e i trucioli, porgere i chiodi, trasportare le doghe di quercia –

    – Chi è il padrone qui, compare Timoteo, eh?

    – La scongiuro sior Tonino, per la nostra amicizia e per le piaghe ancora aperte dei nostri beati Sebastiano e Lorenzo martiri …

    Si vergognò per suo padre.

    – Sa cantare. Potrebbe...

    – E come si chiama?

    – Dillo, figlio mio, dillo al sior Tonino, che d’ora innanzi sarà il tuo secondo padre, diglielo come ti chiami, dai! – si affrettò a dire il padre dotato di quell’astuzia che accompagna sempre gli infelici.

    Si avvicinarono tutti di un passo, come se dovessero sentire qualcosa di importante.

    – Carlo

    Il sior Tonino non disse niente.

    Bisognava in tutta fretta ravvivare i tizzoni della speranza per non farli spegnere, e così Timoteo batté con forza la mano sulla spalla del suo amico e, rallegratosi, felice di essersi ricordato di una cosa giusta, aggiunse:

    – Sior Tonino, si ricorda di quando vicino a Bassano ci siamo picchiati con i Francesi? Come si chiamava il comandante del nostro reggimento? Sono sicuro che non si ricorda come si chiamava? Il feldzeugmeister barone Löwenfeld, sior Tonino, Lö-wen-feld!

    – E allora?

    Era la primavera avanzata del millesettecentonovantasei. Bonaparte faceva miracoli sul territorio della Lombardia, del Piemonte e del Veneto. Gli Austriaci avevano firmato l’armistizio rinunciando ai territori italiani. Quando Timoteo, quattro anni dopo , si era profondamente convinto che il governo austriaco non avesse bisogno di lui per la continuazione delle loro guerre imperiali contro il console Bonaparte, che era tornato da poco dall’Egitto, il compare si girò verso sua moglie e, sollevato e euforico, aveva rapidamente fabbricato un po’ di figli. Carlo era nato nel milleottocento.

    E anche se compare Timoteo aveva già della prole, e ne avrebbe avuto, l’abbiamo detto, anche dopo Carlo, tuttavia continuava soprattutto a ricordarsi con piacere delle circostanze che avevano consentito la venuta al mondo del piccolo Carlo.

    Perché quando agli ex regni e principati italiani – che per l’ennesima volta adesso non erano stati trasformati o cancellati dalle carte dagli Austriaci ma dai Francesi – era giunta la voce dell’infelice destino del re di Savoia Carlo che i Francesi avevano cacciato dal suo regno e per giunta relegato addirittura in Sardegna e quando la moglie di compare Timoteo, sulle mura che circondavano il loro paesello, al crepuscolo, con aria contrita come se fosse colpa sua, annunciò al marito di essere in statu benedicto, Timoteo si sentì trasformato in eroe: a dispetto dei Francesi e per sua gioia e allegria per il fatto che proprio in quei giorni dell’inizio di giugno era sfuggito alla battaglia di Marengo (e i Francesi avevano perso il loro generale, caro il mio compare, il ge-ne-ra-le Desaix, e io qua vivo e sano, faccio i figli!, esultava), avrebbe dato al bambino il nome Carlo! Se sarà maschio, eccome. E lo sarà! Deve! "Tu ti limiti a parlare e io partorisco i tuoi figli. Che è la cosa più facile per tutti e due. Ma chi si prenderà cura di tutti loro fintanto che non cresceranno e saranno in grado di mangiare il pane con i loro denti? Devi pensare con la testa, Timoteo mio! Con la testa! Non vorrei che a qualcuno dei nostri figli accadesse come a Murika – piagnucolava, sulle mura, sua moglie.

    E con Murika le cose erano andate così: lo avevano portato una mattina in guerra al suono dei tamburi sotto la bandiera austriaca. Era stato proprio alla vigilia del suo fidanzamento con la sorella di Timoteo, Maria. Tutto il paese lo aveva compianto in anticipo, come a dire: questo non torna più indietro, perché la guerra è lenta e si fa presto a morirci dentro. Ma, lui era tornato! E raccontava lui stesso come: a piedi! Da dove? "Dalla strage, dallo scannatoio – rispondeva. E così del resto si comportava: come se fosse stato colpito alla testa.

    Timoteo aveva consigliato alla sorella di aspettare con il fidanzamento finché a Murika non passi – ripeteva.

    Ma non passava.

    E anzi, invece, una domenica, durante il servizio divino, Murika salì sul pulpito, spinse via il sacerdote che, allargando le braccia, si stava appunto apprestando a predicare e, come se fosse di sua competenza, tuonò rivolgendosi al crocifisso che era accanto: Io vorrei conversare con il Signore Iddio... Vorrei proprio domandargli una cosa, fratelli e sorelle. E di cosa dovresti parlare tu con lui, Murika? Scendi! – Lo supplicava il sacerdote e lo pregava in ginocchio. Con lui si parla, in cielo, Murika, anima mia!

    Ma io ho l’intenzione di andare in cielo per un colloquio con Lui Murika non si lasciava confondere. Per domandargli perché, perché l’uomo che ho scannato doveva vedere proprio il mio viso per ultimo nella sua vita? E non, diciamo, quello della sua fidanzata, come Lei, padre, guarda il viso della Madonna della Neve, e io quello della mia Maria?

    Nel lungo silenzio finalmente si sentì uno scampanio: Murika di colpo, esultante di gentilezza e di gioia era sceso dal pulpito e attraverso la folla dei fedeli si era incamminato devotamente verso il campanile. Dopo essersi arrampicato sulla cima, scavalcò con una gamba il muretto di cinta e sempre così concentrato nella sua ispirazione si diresse verso il cielo.

    – E poi... ho insegnato al bambino a cantare quella canzone... quella nostra canzone, sior Tonino, della guerra. Perché non si dimentichi di quando eravamo a combattere insieme, sior Tonino.

    Si vergognò per suo padre.

    – Quale canzone?

    – Carlo abbassò la testa. Timoteo si sentiva mancare il terreno sotto i piedi.

    Ad uno ad uno si erano avvicinati i magazzinieri, i braccianti salariati, gli operai.

    – Canta, Carlo, per il sangue della Madonna Immacolata! Canta, figlio! Canta!

    I curiosi chiusero il cerchio attorno al padrone del cantiere e ai due nuovi venuti.

    E cantò:

    Partire partirò, partir bisogna

    dove comanderà nostro sovrano

    chi prenderà la strada di Bologna

    e chi andrà a Parigi e chi a Milano

    – E sa anche il resto, tutti la cantavamo, si ricorda, sior Tonino? Sior Tonino – lo tirava per la manica – Il barone Löwenfeld, Bassano, sior Tonino, i nostri ragazzi ... e poi ne sa delle altre, di tutto, anche pasquinate e tarantelle, e gli stornelli toscani, sa anche delle ballate ... caro il mio sior Tonino, piangono anche le pietre quando canta il mio Carlo...

    E qui compare Timoteo cambiò faccia e gemette per davvero.

    Si vergognò per suo padre, non voleva continuare a cantare, ma gli operai più vecchi, come fiammelle al vento, raccolsero il motivo cantato dal bambino:

    Ah, che partenza amara, Gigina cara, Gigina bella

    – Via – urlò il sior Tonino – altro che il vostro dio rivoluzionario, al lavoro! Ma il bambino può restare.

    ... Gigina cara, Gigina bella

    – Sior Tonino... – un bagliore di lacrime negli occhi del padre. Allargò le braccia e piegò la testa da un lato, avrebbe voluto abbracciare il suo benefattore e coprirlo di pacche di solidarietà fra commilitoni, ma il paron si era allontanato, senza salutare, e il bambino, fra due lacrimoni, riconobbe nel padre che teneva le braccia aperte e la testa ancora ripiegata da un lato, con quel bagliore di pianto negli occhi, riconobbe il povero Cristo inchiodato alla croce, che al canto delle litanie, lentamente e mestamente, così nudo e ossuto, veniva portato in processione sulla collina.

    – ... fannulloni! Sì, fannulloni! Dopo ogni rivoluzione si figliano i fannulloni.

    Del gruppo che si era formato non rimase altro che il mormorio e la recriminazione del padrone. Finché non si chiuse alle spalle quella porta stretta. E loro due rimasero soli all’aperto.

    – Io vado.

    Continuava a rigirarsi il berretto fra le mani, quello cucito con variopinti ritagli di stoffa. Abbracciò il figlio.

    – Non girarti mai indietro. E se qualcuno ti si mette per traverso, tu inchinati davanti a lui. Tienilo a mente e sarai felice.

    Poi scappò via.

    Sui trucioli caddero le lacrime del bambino.

    E così Carlo trascorse la sua infanzia presso il sior Tonino. E in seguito anche in altri piccoli cantieri navali e scali della riva italica dell’Adriatico. Pulendo i pavimenti delle segherie dalle schegge e dalla segatura, porgendo i chiodi e portando le doghe di quercia...

    ... e poi, più tardi, fece il calafato sotto le navi tirate in secco e alzate sugli scali, stendeva e accendeva con l’acciarino mucchi di semprevivo, allontanandosi in fretta, mentre il fuoco si attaccava alla pece del fasciame, e la pece, odorando di resina, nel fumo denso e nero, dapprima borbogliava e si scioglieva, poi divampava, e lui abilmente afferrava a questo scopo una pialla appositamente battuta e la raschiava dal fasciame con diligenza e capacità.

    – Non lasciare mai che il fuoco si attacchi al legno della nave, fai attenzione, – lo ammonivano i padroni e i comandanti della nave, soddisfatti del suo lavoro.

    ... e così cresceva, di statura niente o molto poco, insieme con i ragazzi dei piccoli cantieri e degli scali ascoltava attentamente i discorsi dei naviganti e dei viaggiatori nei porti, dei commercianti e dei padroni delle barche, in attesa che le loro navi rovesciate sul fianco, alleggerite delle funi, delle botti e delle vele coriacee, tornassero ad essere pronte per rialzarle.

    Sì, laggiù, dall’altra parte, sull’altra sponda. Lontano dai turchi perché nel commercio ciò che è fidato è anche vantaggioso – dicevano gli armatori mentre le loro navi sparivano nella cenere leggera e nel fumo che ora sapeva di pece e ora di semprevivo.

    E’ laggiù in fondo al golfo più profondo – così si esprimevano i comandanti

    Là c’è un portofranco fin dal tempo di Carlo VI dicevano i commercianti, lucidamente, e sospirando.

    Tutti concordavano sul fatto che laggiù, dall’altra parte del mare, c’era una cittadina in cui sembrava che a momenti cadesse la manna dal cielo.

    Non c’era manzara con cui i buoi dalmati venivano trasportati fino a Venezia, non c’era petaka da guerra, non arrivavano un pièlago né una cocca o una pandora ad Ancona, o in alcun altro porticciolo della regione Marche o sotto Ravenna e su fino al Veneto, che per il porto e nelle bettole non si sentisse dire che anche il nuovo governo, si diceva, in quella cittadina pagava a profusione i marittimi, o i carpentieri, i velai, i funai, i magazzinieri, e perfino i finanzieri, i timonieri, i costruttori navali e gli imprenditori, insomma tutta la gente di mare, si diceva. E questo nuovo governo "era prima ungherese, poi austriaco, poi di nuovo magiaro...

    Né Carlo né i suoi compagni dei piccoli cantieri e degli scali sulla costa italica dell’Adriatico, sapevano per certo chi fosse con precisione al potere laggiù, dall’altra parte, ma il pensiero del porto promesso, del destino felice che poteva attenderli laggiù, covava in permanenza in tutti i loro calcoli e progetti.

    E il tizzone della speranza sfavillava, fiammeggiava e divampava in quel prodigioso focolare. Sul far della sera, contemplando l’uniformità delle ondette che andavano a morire sotto i suoi piedi e, anche nel loro frangersi, sembravano portare in sé tutto il peso dell’argentea volta celeste, Carlo si lasciava andare alle fantasticherie: guardava fisso, dall’altra parte, laggiù sull’altra riva, verso l’ignoto, lo sconosciuto.

    L’immagine di questo porto d’oltre mare, a loro ignoto, come città del guadagno e delle libertà, nei primi anni del nuovo secolo semplicemente li ammaliava: attraverso quel porto era cominciata l’esportazione del grano con cui veniva nutrito l’esercito che stava combattendo in Italia per la gloria di Napoleone. Ma, i sogni avevano cominciato a svanire negli anni che seguirono fra il milleottocentonove e il milleottocentotredici quando, in quegli stessi spazi dalla Puglia alla Carnia, si era sentito che, dall’altra parte, erano state costituite le Province Illiriche, ora non più per ordine del generale di brigata ma addirittura dell’imperatore Napoleone, dove ci si preoccupava meno del nostro pane quotidiano e in compenso si facevano grandi discorsi sulla libertà, la fratellanza e l’uguaglianza.

    E già che parliamo di questi due concetti, cioè del pane quotidiano e dei grandi discorsi che riguardano le libertà civili dei singoli, bisogna dire che la storia né allora né in seguito è mai riuscita ad armonizzare le sue due diverse esperienze. E così succede che una volta prevale la convinzione per cui nella vita la cosa più importante è la pancia piena, e per le fantasie riguardanti le libertà politiche e personali chi se ne importa; e altre volte prevale invece la convinzione che la pancia piena in quanto tale non è affatto importante e che uno vive solo quando e se ha esaudito le richieste che riguardano le già ricordate fantasie. E come nel primo caso non è importante con quale nutrimento viene saziata la pancia, così nel secondo non è di decisiva importanza se queste fantasie riguardano davvero la libertà o se queste libertà siano pura invenzione. Ma lo scontro fra la salsiccia e la fantasia rimane aperto.

    E dunque la storia non riesce ad armonizzare queste sue due esperienze neanche nel caso degli abitanti della nostra città promessa, di Fiume. Per più di quattro anni i Francesi in questa cittadina, s’è già detto, continuarono a fare discorsi sull’uguaglianza dei cittadini e sulle libertà civili, ma nello stesso periodo per tutta risposta un terzo della popolazione se ne andò dalla città! Ecco, prevaleva la convinzione (almeno in quel terzo!) che diceva che la pancia è comunque il volano se non di una grande politica – della quale il popolo poco si intende, benché la Politica attraverso la sua collaboratrice domestica, la Storia, per lo più faccia riferimento al popolino – però almeno è il braccio della leva della soddisfazione personale senza la quale, al diavolo, perché si dovrebbe vivere.

    Perché comunque per più di quattro anni, senza averne alcuna colpa (come è giusto e normale quando c’è di mezzo la storia) i cittadini della città promessa pagarono alla megalomania francese un tributo di pancia vuota. La Francia aveva promesso solennemente di separare l’Austria dall’Adriatico. E vennero fuori gli Inglesi che, secondo quel detto che affermasenza il terzo non c’è successo, con il loro solido blocco navale separarono l’Adriatico dal mondo.

    (La politica è sempre sufficientemente seria e la storia abbastanza vecchia da farci vedere a ragione in essa tutto ciò che si oppone al buon senso comune). I quattro anni francesi tornarono dunque nell’infinitezza degli universi, senza che neanche una nave in tutto quel periodo entrasse nel porto della città! Ma come ogni potere che viene odiato si attacca anche a una pagliuzza solo per potersi giustificare davanti al proprio specchio e continuare a vedersi la più bella (tanto agli altri un potere del genere lo specchio nelle mani non lo dà) e restare comunque in sella – così i Francesi facevano riferimento a quei né più né meno di 20 (in lettere venti) felici sudditi che giravano in continuazione per la città (che gli uni chiamavano liberata e gli altri, per contro, occupata, come se una o l’altra dizione non fosse la faccia della stessa follia e sciagura che si chiama politica) e, sempre per quattro anni, in continuazione, girando per la città, gridavano a più non posso in gloria del Corso. Si trattava di una ventina di studenti, non erano di più, che nel corso di quei quattro anni non dovettero mai andare a scuola, perché in città non si tenne alcun insegnamento. Un numero piccolo per la verità, ma quando e dove mai il pudore tiene conto della statistica?

    Fu necessario, pazientemente, aspettare che passasse un nuovo periodo di governo austriaco in città, che sopravvenne subito dopo la caduta delle Province Illiriche francesi e durò fino all’anno milleottocentoventidue, quando Fiume, scrivono i documenti, venne reincorporata nella Croazia. Ma anche in quell’occasione come qualcosa di speciale, come governo autonomo come diceva ora l’amministrazione.

    Per dirla tutta né a Carlo né ai suoi compagni dei piccoli cantieri navali e degli scali sulla sponda italica dell’Adriatico la cosa diede mai fastidio, né mai se ne occuparono: essi, finalmente vissero il momento in cui l’Ungheria aprì la borsa a questo governo autonomo.

    L’economia magiara deve rendersi indipendente da Vienna. Il commercio magiaro cerca la sua uscita più breve al mare. La vuole perché deve raggiungere i mercati esterni. La soluzione si chiama Fiume. Si tratta di soluzioni matematiche, signori. Prendete un compasso, piantatelo sull’atlante e sinceratevi direttamente della cosa! diceva un capitano, un Olandese, mentre in compagnia di imprenditori navali ispezionava il suo bastimento, sotto il quale scoppiettavano le fiamme del sempreverde, e attorno ad esse trafficava Carlo.

    Non c’erano le manzare, con cui venivano trasportati i buoi dalmati a Venezia, non c’erano petake di guerra, non arrivavano né pielaghi, né cocche o pandore ad Ancona, o in qualsiasi altro porticciolo della regione Marche e sotto Ravenna e fino al Veneto, senza che in porto o nelle osterie non si sentisse che il nuovo governo ungherese in città, là, dall’altra parte del mare a man bassa, dicevano, pagava i marittimi, i carpentieri, i velai, i funai, i magazzinieri, e perfino i finanzieri, i timonieri, i costruttori navali e gli imprenditori, insomma tutta la gente di mare si diceva.

    Il canto delle sirene dei magiari raggiunse l’ancora glabro giovinetto. Se lo portarono dietro i marittimi e gli ospiti occasionali. Ma una curiosità ancora maggiore nei confronti di questo strano, autonomo, separato, a quanto pareva paradisiaco porto e città promessa della quale nessuno sapeva con certezza se fosse uno stato o un governatorato, capitanato, corpus separatum o ancora qualcos’altro, fu suscitata in Italia da ciò che di Fiume si era sentito dire niente meno che a Verona. E Verona per Carlo e per i suoi compagni dei piccoli cantieri navali e degli scali era proprio davanti al loro naso! Cioè proprio in quell’anno milleottocentoventidue, per Carlo e per la nostra narrazione davvero fatale, venne organizzato e convocato proprio a Verona un consesso dei governanti e dei diplomatici europei, e questo raduno delle teste coronate e delle aquile venne sfruttato dai Croati che inviarono una solenne delegazione al loro sovrano interno Francesco per ringraziarlo di aver concesso, scrivevano i testi dei documenti, di reincorporare nella Croazia i territori d’oltre Sava, il litorale magiaro e Fiume. A Carlo e ai compagni interessava soprattutto quest’ultima.

    I lavoratori portuali, i cordai, i carpentieri, i magazzinieri, il popolino dei porti della Puglia e degli Abruzzi, del Veneto e delle Marche, della Romagna e del Molise, continuavano per giorni a raccontare della bella presenza dei contadini che aveva guidato un governatore di cui riuscivano solo con fatica a pronunciare il cognome magiaro: Gyulay.

    Carlo ascoltava con attenzione. Non era la prima volta che sentiva parlare di questi non meglio definiti Croati. Si ricordò, davanti all’uniforme movimento delle ondette sotto i suoi piedi che, pur mobili e spezzate portavano sulla loro superficie tutto il peso dell’argentea volta del cielo, che suo padre gli aveva raccontato di come, nelle guerre contro la Francia, avesse combattuto con dei Croati. E spesso li aveva anche personalmente incontrati nei cantieri, dove aveva lavorato, capitani, marinai, padroni di barche, viaggiatori che giungevano dall’altra costa e si presentavano chiamandosi così, Croati.

    Ma ciò di cui adesso si diffondeva la voce doveva essere qualcosa di veramente non visto, pensava.

    E continuava ad ascoltare attentamente:

    – In testa portavano dei colbacchi come quelli che hanno anche i nostri Savoiardi, ma quelli dei Croati erano ancora più adorni. E ai piedi stivali, laccati, con frange e speroni. Si vede che provengono da territori di pianura dove ci sono i cavalli. Dicono che in questo modo volessero ringraziare il loro imperatore, mi sono dimenticato del suo nome, per avergli restituito Fiume. Dev’essere una città molto più bella e più grande della mia Venezia, se sono venuti fino a Verona per dirglielo – raccontava il comandante di una fregata mercantile veneziana davanti a un boccale di piceno di color rosso scuro di provenienza marchigiana.

    CAPITOLO SECONDO

    E così Carlo, in un placido mattino soleggiato, nell’inverno del milleottocentoventidue, a bordo del pielago San Spiridone entrò nel porto di Fiume.

    Avevano superato, senza accorgersene, un vascello a tre ponti, dal suo fianco sinistro. Era ancorato davanti alla costa, in mare aperto: i tre alberi, di trinchetto, di maestra e di mezzana, sembravano davvero piantati in cielo, avevano le vele saldamente arrotolate, abbassate. Tre batterie per i cannoni, il fasciame e perfino la figura del galeone tutto dipinto di nero. I finestrini, forse centoquaranta con le imposte gialle ferrate, che erano sollevate, nude fauci di cannone. E ancora un certo numero di cannoni sul tetto del veliero. Il bastimento faceva l’effetto di un’isola, incuteva timore, appariva pesante come se la chiglia fosse attaccata al fondo. E non si vedeva nessuno in coperta. Il San Spiridone lo stava superando sempre più lentamente e il sorpasso sembrava durare un tempo infinito.

    La nave da guerra poteva essere lunga una sessantina di metri, infinitamente lunga. I passeggeri del pielago cercavano di leggerne il nome sul nastro della bandiera, a poppa, e di riconoscerne la bandiera imperiale. Ma il loro San Spiridone improvvisamente prese l’abbrivio in direzione del molo che era davvero spuntato di colpo dalle rocce della riva, e facendo quella manovra si girò di poppa verso il vascello, così che adesso ne potevano vedere solo gli orli riccamente incisi e dorati del castello di poppa e l’ombra del grosso fanale sulle ondette lasciate dalla loro nave. Un attimo dopo il pielago, si era già dolcemente accostato all’unico molo ligneo.

    Saltò giù dalla nave e per poco non andò a finire in mare dall’impalcatura di legno dell’approdo: tanto quell’unica struttura portuale era corrosa e consumata. Le travi erano logorate dai vermicelli marini e sfondate dalle onde e i piloni sui quali si reggeva erano integralmente coperti di grosse alghe e guarniti da lumachine di mare che erano addossate l’una sull’altra.

    Si gettò il fardello sulle spalle, si diede una grattata sul mento dove avevano fatto la loro comparsa le prime chiazze di barba arricciata – e si fermò. Quei pochi passeggeri che erano arrivati con lui si erano già sparsi sulla riva, cominciava nel frastuono lo scarico della merce.

    Carlo continuava a stare sul molo e contemplava in silenzio la città, che appariva stretta sotto i monti. Guardò in realtà solo ciò che della città poteva vedere giacché le case sulla riva, di altezza diversa e coperte di tetti a forma differente, disposte nello spazio come per ognuna si era voluto fare al momento della costruzione, qua e là con grandi comignoli di mattoni, impedivano ogni altra vista se non quella dei monti, di cui quello più vicino, davvero vicinissimo, era anch’esso abitato, poiché ne stava appunto contemplando il castello con le torri sulla cima. Fino alla quale conduceva una lunga strada di montagna dove le contadine, ne sentì le voci, spingevano le mule. Alla destra e alla sinistra del molo dove si trovava, si stendeva a perdita d’occhio della ghiaia grigia. Si accorse che la costa era rocciosa, che il mare lambiva dei ciottoli piuttosto che la sabbia, com’era invece sulla costa da dove proveniva. Da una di queste vasche stavano tirando fuori una grande rete: sembrava che si fosse saldamente impigliata a qualcosa che era dentro il mare, perché i pescatori bestemmiavano. In croato, ma un po’ di quelle parole le capì. Dal lato sinistro, in un boschetto sopra la ghiaia, si scorgeva una spianata sulla quale c’era un cannone, la canna era girata verso il vascello davanti al porto. Accanto al cannone c’erano due ufficiali: in pantaloni grigi, un cappello a due punte, con due corte giacchette ricamate sotto le quali si scorgeva un giubbetto. Erano avvolti in cappotti grigi e trasandati ai quali il vento rovesciava i lembi facendone intravvedere la fodera verde sulla quale brillavano bottoni di metallo. Osservando attentamente si accorse che sulla giacca avevano cucita una coccarda nera. Uno di loro senza batter ciglio, guardava fisso col binocolo sul vascello. Correva l’ultimo anno dell’interregno austro-tedesco.

    Fra le case sulla riva e l’acqua bassa si sporgeva una fascia di terra rossastra con delle colonnine di pietra a forma di cilindro piantate a distanza uguale alle quali venivano legati il bestiame e i cavalli della posta. Lungo tutta la riva un filare alberato, carpini. Grandi quantità di tronchi e assi di legno, un po’ dappertutto, attendevano in ordine di essere ammonticchiati per l’imbarco. Si sentiva che lì, dietro a queste case, marciava una compagnia di soldati.

    Allora, come le sembra questa sua città? – lo scosse la voce del finanziere di porto col quale aveva fatto amicizia a bordo.

    Non mi interessa come sembra, perché qui io penso di restarci.

    Si gettò il fardello dietro le spalle e, risolutamente, si diresse dal molo a terra.

    In un placido mattino soleggiato, nell’inverno del milleottocentoventidue.

    Carlo, per prima cosa, bussò alla porta dell’entrepot, come in città continuavano a chiamare la rete dei magazzini portuali che i francesi nel corso del loro ultimo anno di governo, avevano fondato e denominato. Si intendeva fin da quando era piccolo di funi e corde, e così già dopo pochi mesi figurava come il più abile cordaio del porto. Le fantasie a proposito della città promessa cominciavano in qualche misura ad avverarsi: era stato davvero il benvenuto. In breve tempo gli armatori e i capitani cercavano esclusivamente l’opinione di quel giovanotto su come e con cosa ormeggiare e legare la nave col maltempo (sapeva avvertirli sui pericoli dello scirocco e della bora, dal momento che il porto non era protetto), di quali funi e di quali tele da vela dovevano rifornirsi quando erano in procinto di partire per i lunghi e climaticamente incerti viaggi verso l’Oriente. Carlo non era solo quello che, fin dal momento dello scarico in porto, sceglieva il filamento della canapa da cui intrecciare le funi di bordo, ma perfino i cordai dietro suo consiglio e sotto il suo controllo, classificavano e intrecciavano la stoppa, la ungevano e la inzuppavano nell’acqua nella quale lui, con fiuto infallibile per i capricci del mare, ordinava che si versasse una volta una e un’altra volta tutt’altra sostanza.

    Il percorso di Carlo da aiutante di corderia fino a commerciante di materiale di funi e corde ripeteva i modi abituali di avanzamento e arricchimento, anche se quella volta nei paesi croati era ancora molto raro e travagliato. Raggiungendo la reputazione di abile funaio, ad un certo momento si era reso autonomo e aveva legato a sé come suoi mediatori, alcuni artigiani che aveva scelto lui stesso e che in quel momento erano più poveri di lui, per poter poi, in seguito nel tempo, personalmente e in grandi quantità, acquistare presso i funai dei prodotti già pronti per poterne poi disporre, senza interferire mai direttamente nell’autonomia degli artigiani.

    Per il suo successo doveva ringraziare la propria destrezza, adattabilità e laboriosità, ma anche il fatto di essere uno straniero e per il fatto che nella Croazia di allora, che alcuni malignamente ma a ragione chiamavano un deserto feudale, proprio i forestieri introducevano nuovi, tanto estrosi quanto crudeli, modi di produzione.

    Anche la domenica, ma allora col bastone in mano, la sua barbetta rossiccia ben curata e con le scarpe dal tacco alto per tentare di nascondere almeno un po’ la sua bassa statura, Carlo si aggirava attorno ai magazzini portuali, attorno ai tronchi che aspettavano di essere caricati, si muoveva da una barca all’altra, si informava della salute di capitani ed armatori di sua conoscenza, sull’andamento degli affari professionali, sulle correnti marine e sui venti, ascoltava con la stessa attenzione sia le bugie dei marinai che gli aridi conti degli armatori. Parlava italiano perché quella era la lingua del commercio e della marineria, più ampiamente in compagnia anche di un brano di lettura (anche se nel corso della sua lunga vita non leggerà neanche un libro). Comunque non gli davano fastidio né il croato né l’ungherese, dal momento che sapeva molto bene, come del resto tutti i suoi connazionali, discendenti da famiglie di commercianti che in città, sulla riva occidentale della Fiumara erano arrivati ieri o da cinquanta e più anni, che questa città promessa questa loro Fiume piccola ma sentita unitariamente, e con essa anche tutto il litorale, innanzitutto ha bisogno del sostegno del suo naturale entroterra che non può essere altro che la Croazia e, in ultima analisi, in rapporto alla situazione politica, l’Ungheria. Diversamente possiamo fare le valigie e tornare là da siamo venuti. E io sono scappato dalla fame e nella fame non ci torno più – Aveva detto una volta Carlo in una di quelle tranquille domeniche a pranzo nella trattoria Piccola Pest dove dal giorno del suo arrivo in città era ospite ordinario.

    Ben visto nella cerchia dei patrizi locali e dei notabili, che lo aiutavano in denaro ogni volta che era necessario (anche se per sua fortuna Carlo è un uomo assennato e calcolatore, e gente come lui non si lascia precipitare nei guai prendendosi l’intera mano al posto del dito che viene loro offerto), ascoltava con ancor maggiore attenzione i loro discorsi a proposito delle difficoltà economiche e politiche che stava attraversando la città e dalle quali essi, come padri della città, salvaguardando certo in primo luogo la loro pelle (e chi è che non fa così? – li giustificava Carlo a ragione), cercano ecco, lo vede anche lui, di sottrarla e di salvarla.

    Personalmente parlava poco, raramente, del resto la cosa non gli si addice in loro compagnia, ma da loro ha ben imparato, che la pietra fondamentale sulla quale riposa la loro classe, e di conseguenza anche l’interesse di tutti gli altri strati sociali in città, è la conservazione di Fiume come portofranco, il suo privilegio di essere sottratta sia all’ambito doganale austriaco che a quello magiaro.

    Ogni volta che cominciava una conversazione sul tema dell’appartenenza effettiva di Fiume, Carlo dai suoi interlocutori veniva investito da una molteplicità di paragrafi imperiali, di editti regi, di diplomi, di petizioni civiche e dei loro consigli comunali, i padri della città si basavano su un assunto, il Parlamento croato su un altro, la cancelleria reale a Vienna su un altro ancora, i circoli di Pest su un quarto... ognuno attribuiva a sé questa città di alcune migliaia di abitanti e una decina dei suoi patrizi non volevano in realtà aderire ad alcuna delle opzioni.

    In conseguenza di ciò avevano perfino cancellato dall’animo loro quel richiamo assolutamente naturale della cosiddetta patria stretta, quell’amor natio, sia nei confronti della loro origine croata, sia di quella italiana, recependo questa città come l’unico porto di salvezza e di prosperità personale. Per ciò Carlo, consapevole oltretutto della sua non scolarizzazione, si teneva lontano dalle dotte contese e perfino durante la sua vecchiaia continuava ad avere addosso un odore forte e acidulo di canapa inzuppata e di vernice. Componeva il domino, era il suo gioco preferito, l’unico, e diceva: Siamo tutti in un gioco che dura da quando ci sono il mondo e gli uomini, e che non arriverà mai al termine. Tutti conosciamo le sue regole ma nessuno sa a quale dei giocatori torni bene quando disporre sul tavolo il suo pezzo, né sa in anticipo se si sta facendo del bene o del male quando vuole restare nel gioco e aspira ad averne uno nuovo. Il destino di uno dei giocatori è nelle mani di tutti. Qualcosa di cui qualcuno non ha la minima idea e che è lontano da lui, come si dice, un milione di piedi celesti, può essergli proprio fatale. Siamo tutti in un gioco, ma noi non siamo giocatori, noi siamo soltanto in un gioco concludeva così.

    E gli altri clienti lo ascoltavano disattenti tornando preferibilmente alle menole fritte, cospargendole di sale, ma con precauzione, per non salarle troppo.

    Nell’autunno inoltrato, quando sul litorale appassiscono le erbe selvatiche che sono esplose nel corso dell’estate, e in mezzo a tutta questa grigia, bassa e amena vegetazione restano solo i cespugli di fogliame coriaceo, che sarà l’unico a resistere ai venti invernali, Carlo si sposò.

    Ego coniungo vos in matrimonium in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, amen – aveva detto il parroco, e le labbra di Carlo, impazienti, cercarono la bocca di Fanica.

    Fanica era originaria di Gomila, il cuore urbano dove da sempre viveva e vivacchiava la popolazione croata. Veniva dal padre, operaio allo scalo nel porto, e là si incontrarono. Arrivava con un fazzoletto in testa che proteggeva il suo aspetto verginale e lui quel fazzoletto – lo aveva sciolto.

    Era il primo – e doveva restare l’ultimo – al quale lei aveva consentito di farlo, perché era una verginella di luoghi nei quali il codice di Veprinac giudicava con la massima severità tre delitti: la coltellata fino al sangue, l’attraversamento della vigna altrui e… togliere ad una donna il fazzoletto dal capo. E tu mi prenderesti per marito? – le aveva domandato. – aveva risposto lei. E portò in dote la solidità connaturata del suo carattere e la costanza della fedeltà e della fede. Perché, accanto al suo Carlo, e forse una briciola più di Carlo, lei amava soprattutto le sue protettrici glagolitiche Santa Eufrosina e la Monaca senza occhi. E gliene parlava, con tutto l’ardore di un’anima del popolo, e così tante volte che a lui sembrava di vivere in persona quei racconti, perfino di dormire, non con una bensì subito con tre donne: con la sua moglie legale Fanica, ma anche con Santa Eufrosina e con la Monaca senza occhi, che si cavò i neri occhi, quella piccola monaca, perché non guardassero più il principe, ahi principe quella piccola monaca, che pregava Iddio e andava sempre in chiesa, quei suoi occhi neri, e li mandò cavati, ahi principe, quella piccola monaca, quei suoi occhi neri, in un bicchiere dorato, perché mai più di me ti ricordassi, ahi principe, di quella piccola monaca, perché non hai più una qualche ragione

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