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Superstizione. Tra malasorte, ragione, sorte e paura
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Superstizione. Tra malasorte, ragione, sorte e paura

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La superstizione. Tra malasorte, ragione, sorte e paura: "Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male." (Eduardo De Filippo). Partendo da questo concetto, l'autrice cerca di vagliare le cause per cui, sin dalla nascita dell'uomo, alcuni colori, pietre, piante, parole, azioni siano oggetto di credenze popolari che li caricano di potenza negativa o positiva. Credenze che cambiano da popolo a popolo e di secolo in secolo, perché la superstizione non è un elemento stabile e concreto, ma una "variabile", diremmo in termini algebrici, che si adatta alle esigenze ed alle mentalità di un'epoca. Quindi per capire le origini di determinati atti che ripetiamo ancora oggi senza averne più memoria storica, come gettare una moneta in una fontana o non passare sotto una scala o, per gli ebrei, mettere un sassolino sulla tomba dei propri cari, l'autrice si è dedicata alla ricerca delle azioni che li hanno generati dall'inizio della storia dell'uomo. L'opera suscita l'interesse del curioso, ma coinvolge ed appassiona il lettore offrendo un panorama completo sulla superstizione in Occidente non disdegnando, all'occasione, di presentarsi come un vero manuale pratico e come tale anche consultabile nei singoli capitoli.
LanguageItaliano
Release dateJul 11, 2018
ISBN9788899735531
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    Superstizione. Tra malasorte, ragione, sorte e paura - Floreana Nativo

    9788899735531

    LA MALASORTE

    Sono un reietto.

    Vedo negli occhi della gente, la paura.

    La mano esitante a toccare me,

    che sono infetto.

    Porto con me la malasorte,

    amante crudele.

    Mi ha legato con i suoi lacci

    lasciandomi la cavezza al collo.

    Ho cercato di sfuggirle.

    ma è sempre alla mia porta,

    mi abbraccia,

    lasciando le sue stigmate sul corpo.

    Vivo di carità, data per paura,

    senza misericordia.

    Ho sperato nell’amore

    e mi ha voltato le spalle

    al primo incidente sospetto.

    La malasorte non tollera altri amanti.

    Ho perso ogni speranza,

    urlando il mio dolore senza ritegno,

    mi ha risposto il suo riso sguaiato.

    Mi sono arreso.

    Ho messo la mia sentenza al collo:

    Porto Jella.

    Ho preso a braccetto la mia fedele amante

    iniziando il mio ultimo viaggio a testa alta,

    fra lo sguardo intimorito della gente.

    Floreana Nativo

    PREFAZIONE di Angelo Floramo

    Floreana Nativo, con questo splendido libro, offre una appassionante esplorazione nel gorgo dei millenni a ricercare tutte quelle tracce di antichi culti, riti e miti che oggi persistono in numerosissime credenze, superstizioni appunto (dal latino super sistere, ovvero rimanere, restare, conservarsi nel tempo), alle quali affidiamo quella parte prelogica della nostra mente, capace di rielaborare attraverso il pensiero magico, come lo definiscono gli etnografi e gli antropologi, fatti ed eventi in un più ampio orizzonte cognitivo, percettivo e sensoriale che esula dai processi della ragione per dialogare con le stelle, le ombre, le forze segrete che attraversano il mondo e alle quali i nostri antenati attribuivano un potere divino.

    Il libro dipana la sua indagine partendo dalle società mesopotamiche, dunque agli albori della civiltà in epoca storica, per passare poi a quella ebraica, quella greco-romana, quella celtica per approdare quindi a quella straordinaria tradizione rielaborata sincreticamente dalla Chiesa che, secondo quando suggeriva ai suoi missionari evangelizzatori il pontefice Gregorio Magno, seppe ammantare di un’interpretazione cristiana numerosissimi culti pagani, specialmente riscontrabili nella venerazione dei santi, nelle pratiche cultuali ad essi riservate o alla devozione per i loro miracoli e le loro reliquie.

    Molto interessante poi la perlustrazione dei poteri delle erbe e delle pietre, la ricognizione delle virtù che si celano nei numeri, il misterioso influsso dei pianeti, i tarocchi, fino ad una simpatica conclusione che non senza una elegante e divertita ironia affronta le numerose pratiche scaramantiche che ancora oggi pervadono la nostra quotidianità, tanto quella di coloro che apparentemente se ne dicono estranei quanto quella di chi non ci crede ma non si sa mai.

    Come si sarà compreso, la cifra dell’Autrice è indubbiamente una vasta conoscenza dell’argomento, dominato con disinvoltura ed eleganza, innegabile dote che le permette di sondare millenni di storia setacciati con l’occhio attento di chi sa bene che cosa cercare. L’intuizione più pregnante è quella di aver saputo cogliere il senso più profondo che sta alla base di quella grammatica di segni e di simboli che costituisce la trama stessa del pensiero magico, ovvero la strettissima correlazione intercorrente fra il simbolo e la realtà che in esso resta imprigionata. In questo senso parole, numeri, talismani, figure, canti assolvono alla stessa identica funzione nell’uso che ne sanno fare gli iniziati, siano essi sciamani, sacerdoti, guaritori, maghi o semplici fruitori di una tradizione che si tramanda attraverso le generazioni, mutando le sue forme ma non i suoi contenuti né tantomeno il ruolo primario cui da sempre essa assolve, ovvero la necessità tutta umana di difendersi dal male, o di penetrare nel fitto mistero che avvolge l’essenza di tutte le cose. Così dai riti di passaggio, che servivano a rincuorare nei momenti più pericolosi dell’esistenza (la nascita, l’ingresso nella società degli adulti, l’investitura in un ruolo, il matrimonio, la propiziazione di un’impresa e, non da ultima, la morte) fino agli scongiuri più innocenti, che nascondono nella loro apparentemente innocua reiterazione una sensibilità che si perde negli abissi della storia, gli esseri umani traggono elementi per tutelare la loro fragilità davanti a un Cosmo in cui il mistero ha l’alito alle volte terrificante, alle volte bonario e conciliante, delle divinità che lo popolano e lo animano. La parola dello scriba divino Thot, la corona di lettere che fregia la testa di Jahvè, il fascinum esercitato dalla dea Diana e dai suoi notturni cortei, sono soltanto alcune fra le molteplici manifestazioni di una stessa fondamentale certezza che tutti i popoli antichi nutrivano: la foresta simbolica che attraversa il tempo e lo spazio può essere facilmente esplorata solamente da chi è in grado di riconoscerne i segni, impercettibilmente confusi con le grammatiche degli elementi, il ciclo delle stagioni, le età del Mondo e gli spiriti che in esso si nascondono.

    Appassionata la ricognizione della figura ambigua e splendida al contempo che sotto mutate spoglie vede danzare sull’orlo dei millenni l’antica Dea Madre, quella misteriosa essenza dell’Eterno femminino capace di creare e di distruggere, di generare la vita o di partire la morte, dalle inquietanti spose di Adamo che precedettero Eva, nella cultura ebraica, fino alle streghe, sia quelle perseguitate dall’inquisizione, custodi di culti prevalentemente agrari che la Chiesa post conciliare iscrisse nelle pratiche diaboliche da condannare, fino ai personaggi delle fiabe, che la Nativo decodifica con appassionata attenzione riconoscendo entro i confini della tradizione folklorica il sapore ben più antico di religioni perdute.

    Lo stile piano per quanto mai banale rende questo libro di facile accesso e di piacevole lettura per chiunque, e dunque è adatto sia ad un pubblico di specialisti che ai molti appassionati del genere, nonché a tutti coloro che, colti da curiosità e interesse, vogliano avventurarsi in una inconsueta quanto appagante passeggiata narrativa in cui ritrovare, con rinnovata sorpresa, moltissime spiegazioni dell’oggi attraverso il setaccio di una storia che parte da molto lontano e si confonde col mito e la suggestione dei suoi simboli arcani.

    Angelo Floramo

    INTRODUZIONE

    Che cos’è che ci fa cambiare strada se incrociamo un gatto nero o temere sette anni di disgrazie se rompiamo uno specchio?

    È un riflesso dell’inconscio, vecchio quanto il mondo, noto con il nome di superstizione.

    L’uomo moderno guarda con sufficienza questi concetti, ma eviterà di passare sotto una scala appena sarà possibile. È dappertutto così? Possiamo affermare che questi influssi siano diffusi nel mondo in egual maniera, ma ciò che è infausto per noi non è detto che lo sia per altri o addirittura possa avere un significato opposto.

    Quando il primo uomo si svegliò nella notte ed alzò gli occhi al cielo lo vide pieno di fulgide stelle. Il suo stupore fu immenso. Chi aveva il potere di accendere le stelle, il sole e la luna?

    Chi poteva causare la scomparsa della luna (novilunio o luna nera) e, evento ancora più terribile, oscurare il sole in pieno giorno? A noi, che abbiamo studiato sui libri di scuola, un’eclisse di sole fa l’effetto di curiosità astronomica, ma pensate a milioni d’anni fa quando gli uomini fissarono il sole nella speranza che tornasse e si ritrovarono ciechi.

    Fu così che nacquero gli dei. I pianeti divennero esseri soprannaturali che governavano l’andamento degli astri, della terra e quindi degli uomini. Si sviluppò il primo concetto di religione e con esso di superstizione.

    Possiamo quindi dire che la superstizione è la convinzione che, compiendo una certa azione, si attiri la mala sorte e quindi, all’opposto, compiendo un certo rito la si possa scongiurare.

    Se volessimo entrare nel campo della psicologia diremmo che, per assurdo, avevano meno problemi i nostri antenati che accettavano tranquillamente questi concetti (perché facevano parte del loro bagaglio culturale) rispetto all’uomo moderno che cerca ad ogni costo di rimuoverli.

    "La nostra vita presente è dominata dalla dea Ragione che costituisce la nostra maggiore e più tragica illusione. Con l’aiuto della ragione – così tentiamo di rassicurarci – abbiamo ‘conquistato la natura’." (Carl G. Jung, L’uomo ed i suoi simboli).

    Le nostre ansie, i nostri stress, sono dovuti non solo al ritmo frenetico della vita moderna, ma al continuo rifiuto delle nostre paure ataviche, che abbiamo succhiato insieme al latte materno, cercando di farle sprofondare nell’inconscio o addirittura di rimuoverle con il risultato di trasformarle in nevrosi. Ritroveremo queste paure, questi problemi simboleggiati, il degli psicologi, nei sogni che cercheranno di proteggere la nostra psiche e di farci capire cosa ci turba.

    Per i nostri antenati invece questo tipo di "protezione" diventava linguaggio profetico e come tali i sogni erano interpretati.

    Potremmo dire che quella che oggi è l’analisi o introspezione psicologica compiuta dal nostro psicologo o analista, un tempo era fatta dal capo del villaggio o dallo stregone che grazie a delle droghe si sdoppiava (l’ombra psichica) per interpretare sogni, simboli e quanto altro fosse necessario utilizzare per decifrare determinati eventi utili alla comunità.

    Per entrare nel significato della parola mageia, possiamo dire che ha origine persiana ed indicava i riti effettuati dai magoi, i sacerdoti; solo più tardi la parola si trasformò in magia, grazie a Cicerone. A Roma una forma di divinazione era quella di estrarre a sorte: tale pratica venne chiamata sortilegio e si trasformerà poi nel francese "sorcellerie e nell’inglese sorcery".

    Non si può avere, in ogni caso, una definizione esatta della superstizione in quanto è cambiata nel tempo. Per la Chiesa Cristiana erano i riti pagani, per i protestanti i riti della Chiesa Cattolica e per gli Illuministi tutto ciò che esulava dalla Ragione. Quindi se c’è un termine che possiamo considerare adattabile e fluido alle variazioni delle credenze dei popoli è proprio superstizione.

    Il Tempo, che se ricordiamo gli dei greci è Crono, divora i propri figli: i giorni, le ore. Il tempo cronologico dell’uomo moderno è rettilineo, all’oggi seguirà il domani; per la nostra indagine invece il tempo procede a cicli, con involuzioni temporali, seguendo il percorso tortuoso della mente.

    LE PRIME CIVILTÀ.

    MESOPOTAMIA

    Abbiamo già detto che la prima forma di religione fu legata agli astri e quindi da essi dipendeva la vita quotidiana sia del popolo sia del sovrano.

    Il Pantheon sumerico era composto da una triade cosmologica, al cui vertice stava An (Anu per i babilonesi), dio del cielo e re degli dei. Era il padre di Enlil (El), dio delle tempeste e del diluvio; vi era poi Enki (Ea), dio dell’oceano e delle acque dolci, che aveva la sua residenza nell’Apsû (abisso). C’era anche una triade astrale: Nanna (Sin), dio della luna e padre dei gemelli Utu (Šamaš), dio del Sole e Inanna (Ishtar), la dea Venere che assumerà in seguito anche il dominio della Luna. Agli Inferi, sotto il dominio della dea Ereškigal, si accedeva attraverso sette cancelli. Vedremo poi che questo numero tornerà più volte nei successivi capitoli.

    Vi è anche il primo riferimento ad un albero Universale. Si tratta dell’albero cosmico Huluppu, piantato dalla dea Inanna nel suo giardino. L’albero crebbe, ma sottoterra s’insediò un enorme serpente che ne rose le radici, l’aquila Anzu fece il nido fra le sue fronde e ne mangiò i germogli e Lilit, la vergine fantasma, prese dimora nel suo tronco. Inanna chiese aiuto al fratello Utu, ma fu Gilgameš, un semidio, a sradicare l’albero e, da esso, costruire per lei una sedia ed un letto. Siamo agli inizi del cammino della Storia del Mondo, ma già il mito della fine dell’Albero Universale connesso ad un cambiamento drastico è nella mente degli uomini. Diventerà poi con i Vichinghi il frassino Yggdrasil che muore causando il Ragnarök.

    Sin dai Sumeri e poi dai Babilonesi troviamo dei riferimenti agli accadimenti infausti legati agli astri. Per i Babilonesi tutto era già scritto nel libro del cielo, lo Shitir Shame. I sacerdoti dovevano avvicendarsi sulle torri, le ziqqurrat, per codificare gli spostamenti degli astri. Spostamenti che erano letti come futuro/volontà (shimtu = destino) degli dei e potevano essere, se negativi, spostati su altri. Facciamo un esempio: se un uomo si ammalava si mandava a chiamare un sacerdote (in questo caso un Ashipu, esorcista dedito alla magia ed agli incantesimi) che studiava il caso. Poi tornava con un agnello, purificava la casa, e toccava l’ammalato e la parte infetta con l’animale, che veniva ucciso subito dopo. L’agnello era seppellito con tutti i riti dedicati ai defunti e la moglie prendeva il lutto: l’agnello quindi prendeva su di sé il male ed era sacrificato. Subito dopo si festeggiava la guarigione del malato. Questo rito era detto namburbi. Esisteva un vero e proprio manuale degli esorcismi, maqlû, dove erano raccolti gli scongiuri ed i riti:

    "Per la sostituzione dell’uomo per Ereškigal¹

    Al tramonto il malato una capretta vergine farà adagiare nel letto presso di sé;

    prima dell’inizio della notte, quando è ancora chiaro tu ti alzerai,

    ti piegherai, …e il malato solleverà la capretta sul suo grembo.

    Nella casa, dove regna l’inimicizia, tu entrerai, il malato e la capretta

    a terra getterai, la gola del malato toccherai con un pugnale di legno di tamarisco,

    la gola delle capretta trapasserai con un pugnale di rame!

    Le interiora laverai con acqua e la spalmerai con l’olio,

    …rivestirai la capretta con vestiti, le metterai le scarpe…

    e la benda dal capo del malato toglierai e alla capretta metterai trattandola come un morto…"

    Il male passava dall’ammalato all’animale, in questo caso. Oppure poteva essere rotto simbolicamente un vaso, in cui erano travasati i malanni, per le situazioni meno gravi.

    Per i Sumeri ammalarsi significava, oltre ad aver subito un sortilegio, aver infranto le leggi degli dei. "Sono ammalato perché sono un peccatore" diceva un inno. E l’unica maniera per saperlo era interpellare le stelle.

    Questo continuo osservare gli astri portò una profonda conoscenza dell’astronomia per i Babilonesi, che idearono i segni zodiacali quasi con gli stessi nomi che conosciamo oggi. Ad esempio il segno dei Pesci era detto Code ed era composto da un pesce e da una rondine le cui code si toccavano.

    D’altronde nelle tavolette d’argilla dei Baru, i veggenti, c’è scritto:

    "…un segno cattivo in cielo è anche cattivo in terra,

    un segno cattivo in terra è anche cattivo in cielo!"

    Parole che diventeranno poi l’inizio della Tavola Smeraldina di Ermete Trismegisto, derivazione del Thot degli Egizi.

    Sempre a proposito di maledizioni, anche i sovrani le lanciavano in nome degli Dei.

    La più antica e famosa è quella incisa dal sovrano babilonese Hammurabi nella stele di diorite in cui, per la prima volta, si dà una codificazione allo Stato in 282 articoli.

    Il codice è posto sotto la protezione di Šamaš, il dio sole patrono della Giustizia, in questo modo:

    "Se questo futuro re non presterà attenzione alle mie leggi… annullerà o sminuirà le leggi… che Šamaš rovesci il suo regno, dissesti la sua strada, un cattivo presagio annunci la distruzione delle fondamenta della regalità e l’annientamento del suo paese".

    L’impatto di tali parole sulla mentalità dell’epoca doveva essere molto forte. Ricordiamoci che il suddetto codice fu preso a modello per i successivi nelle varie epoche del mondo.

    All’articolo 2 del codice leggiamo quello che riteniamo il primo editto sulla stregoneria.

    Sull’accusa di Stregoneria

    "Se un uomo accusa un uomo di stregoneria ma non riesce a provarlo, colui che è accusato di stregoneria sarà gettato nel fiume; se il fiume lo inghiottirà il suo accusatore prenderà le sue proprietà; se il fiume restituirà puro quest’uomo facendolo salvo, colui che l’ha accusato di stregoneria sarà ucciso; colui che ha subito il giudizio del Dio prenderà la casa ed il patrimonio dell’accusatore."

    Il rituale fu poi ripreso nelle ordalie medievali, ma già il popolo ebraico (che fu prigioniero presso i Babilonesi), riporta nell’Esodo, nel Deuteronomio ed in Geremia concetti presi da questo articolo.

    Sempre a Hammurabi si deve la prima rivoluzione politico-religiosa. Per porre Babilonia al centro politico del territorio, fa effettuare al dio Marduk, figlio del dio Enki, un golpe con cui spodesta il capo degli dei e si autoproclama re. Storia poi avvalorata da un suo discendente, Nabucodonosor, che fa redigere l’Enûma Eliš, il poema della nuova creazione del mondo.

    A Susa, territorio Kur, nel tempio della dea Ninhursan, dea creatrice e moglie di Enki, dio delle acque più conosciuto come Ea (l’astuto che risolve i problemi degli altri dei), è stato trovato il simbolo dei serpenti intrecciati, un nodo, che fa riferimento alle qualità di guaritrice della dea. Qualità magiche che implicano un annodare per compiere la magia; per disfare la magia si disfa il nodo.

    "Hanno riempito la mia bocca di nodi", in altre parole mi hanno fatto una fattura.

    Diamo un breve esempio del nodo nel rituale dei matrimoni. Durante il rito era tirato un filo dalla veste dello sposo ed uno da quella della sposa. Poi i due fili erano annodati, in pratica, legati insieme per sempre.

    Al dio Enki era riconosciuta la creazione dei fiumi Tigri ed Eufrate grazie all’energia del suo pene. Quindi l’origine del potere fallico e del priapismo inizia da qui, ma di questo parleremo nei successivi capitoli.

    Nel pantheon mesopotamico troviamo, oltre agli dei, anche angeli e demoni, entità spirituali che accompagnavano nella vita l’individuo. Alcuni sono prettamente demoniaci come Lamashtu, spirito femminile che rapisce ed uccide i neonati. Di segno ambiguo è invece Pazuzu, spirito del vento, chiamato a protezione dei neonati, la cui statuetta era spesso posta vicino ad una culla. Pazuzu è però inteso, nella maggior parte dei casi, come spirito malvagio portatore di malattie e morte ed ha un aspetto terrificante: testa di cane con corna, corpo d’uomo, ali e artigli.

    Alla sua figura si è ispirata la Chiesa per rappresentare il Diavolo facendone un mix con i satiri pagani. La figura di Pazuzu è stata sfruttata nel film L’esorcista.

    Ai Sumeri dobbiamo anche lo studio dei numeri, sviscerati in tutte le loro declinazioni. Le otto punte della Stella Venere (la dea Ishtar) si trasformarono poi nel segno dell’infinito: la lemniscata.

    Avevano un sistema numerico in base sessanta. È stata ritrovata una tavoletta (Plimpton 322) che contiene 15 terne di numeri, il primo numero di ogni terna è un quadrato ed è la somma degli altri due che sono a loro volta quadrati. In pratica una terna pitagorica. Primo incipit del quadrato magico.

    Tirando le somme dobbiamo ad una popolazione vissuta quattromila anni avanti Cristo se l’uomo è arrivato nel Cosmo.

    EGITTO

    Per gli Egizi tutto era magia. Il mondo era stato creato dalla parola del dio Ra, ripresa poi dal dio Thot. In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

    Formula riportata poi dal Vangelo secondo Giovanni.

    Secondo un’altra versione cosmogonica, invece, Ra, il sole, creò prima Shu, l’aria, e poi Tefnut, l’umidità. Da loro nacquero Geb e Nut. I due s’innamorarono, ma il padre Shu si oppose. Un giorno però li sorprese uniti e li separò. Costrinse Geb, la terra, a restare sdraiato e spinse Nut verso l’alto, che divenne così il cielo restando però attaccata all’amato con le punte delle mani e dei piedi. Da Nut nacquero due coppie di fratelli: Osiride e Iside; Seth e Nefti.

    Tornando alla prima versione, possiamo dire, quindi, che il potere della parola era magico. Pertanto venne prima la figura del mago e poi quella del sacerdote in cui poi questa confluì.

    Anche la Bibbia riporta episodi di magia egiziana quando narra la sfida fra Mosè ed i sacerdoti egizi. I sacerdoti trasformarono i loro bastoni in serpenti e Mosè trasformò quello d’Aronne in un serpente che ingoiò gli altri. Questo non ci deve stupire: Mosè era imbevuto di cultura egizia dato che era vissuto fra loro.

    Altro episodio è quello della separazione delle acque: Mosè che divide le acque del Nilo per far passare il popolo ebreo salvo poi farle richiudere sugli inseguitori egiziani. Nel papiro Westcar si narra la storia del faraone Khufu detto Cheope, vissuto nel 3800 a.C., che chiese al suo sacerdote di recuperare un monile di turchese caduto nelle acque del lago ad una rematrice/cortigiana mentre era nella barca reale per una gita. Il sacerdote divise le acque del lago e, sul fondo, ritrovò il ciondolo di turchese.

    Legata alla stretta connessione tra parola e magia è anche l’enorme importanza che gli antichi egizi davano al nome. Come per altri popoli (vedi ad esempio gli indiani d’America) il nome era parte dell’essere e, per questo, doveva essere celato. Chi scopriva il vero nome di un individuo acquisiva potere su di lui. A questo si ricollega l’episodio in cui Iside, dopo aver fatto mordere da un serpente il dio Ra, riesce a farsi dire da lui il suo vero nome in cambio della guarigione.

    Per gli Egiziani due erano le cose importanti: le parole magiche, come abbiamo visto, e la continuazione della vita nell’aldilà o Estremo Orizzonte. A differenza dei precedenti popoli Mesopotamici, in cui il regno dei morti, dominato dalla dea Ereškigal, era un mondo grigio in cui i cadaveri si rinsecchivano appesi ad un chiodo. L’aspettativa della vita ultraterrena che attendeva gli Egizi era simile a quella che stavano per lasciarsi alle spalle (campi Ialu), sempre che il corpo, al momento della morte, fosse integro. Quindi una delle peggiori condanne era quella di smembrare il cadavere o di non seppellirlo con le dovute cerimonie.

    Anche in questo caso l’utilizzo della parola magica giocava un ruolo fondamentale, in quanto doveva essere trasmessa ai talismani, ai liquidi d’imbalsamazione ed a tutto ciò che poteva servire a preservare il corpo del defunto, anche se solo il suo spirito andava nel mondo degli dei dopo la cerimonia dell’apertura della bocca con l’urhekau. Per il modo di pensare egizio l’uomo era composto dal suo corpo, dalla sua ombra, dal suo Ka o doppio e dal Ba o spirito. Ed era il Ba ad andare nella barca di Osiride mentre il Ka restava nella tomba dove continuava ad essere nutrito.

    Come nutrire il Ka? Insieme al corpo erano modellati in argilla piccoli oggetti a forma di vivande. Insieme con lui erano seppellite anche delle figurine, sempre

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