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Il villaggio di Marte
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Il villaggio di Marte

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Fantascienza - racconti (202 pagine) - Undici racconti di realtà futura dal maestro italiano dell'epopea astronautica. Introduzione di Dario Tonani

Paolo Aresi è uno scrittore particolare nel panorama della fantascienza italiana. Ha vinto vari premi – tra i quali il Premio Urania – e ha pubblicato una mezza dozzina di romanzi, quasi tutti di fantascienza. Potrebbe essere considerato uno degli autori più apprezzati, ma si è sempre tenuto ai di fuori dal cono dei riflettori.
C'è molto in Paolo Aresi che ricorda Ray Bradbury, l' autore che forse più lo ha ispirato, oltre alla riservatezza: il lirismo struggente, la malinconia, i grandi afflati idealisti verso il futuro e verso lo spazio, la spiritualità sempre presente. Ma si sentono anche affinità con Arthur C. Clarke e con Clifford Simak.
In questo libro ne ripercorriamo la carriera in undici racconti, undici mappe per esplorare l' affascinante pianeta Aresi.

Paolo Aresi è nato a Bergamo nel 1958. Laureato in Lettere, giornalista a L’Eco di Bergamo, ha debuttato nella narrativa con il romanzo di fantascienza Oberon, l’avamposto fra i ghiacci. Nel 1992 ha ottenuto il premio Courmayeur con il racconto Stige. Nel 1995 ha pubblicato Toshi si sveglia nel cuore della notte, un romanzo realistico, dai toni noir. Nel 2004 ha vinto il Premio Urania con Oltre il pianeta del vento. Con Ho pedalato fino alle stelle (Mursia, 2008, due edizioni) è tornato al romanzo realistico con un’opera di sentimenti e passione per la bicicletta. Nel 2010 per l’editore Mursia nella collana di letteratura ha pubblicato il romanzo post-apocalittico L’amore al tempo dei treni perduti. Nel 2011 è apparso in Urania Korolev, appassionato omaggio al “progettista capo” del progetto spaziale sovietico che diventa una sorprendente epopea fantascientifica.
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJul 17, 2018
ISBN9788825406641
Il villaggio di Marte

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    Il villaggio di Marte - Paolo Aresi

    9788825406481

    Paolo Aresi, l’astronauta della spiritualità

    di Dario Tonani

    C’è qualcosa che rende unica la fantascienza prima ancora della sua capacità di meravigliare: è la ricchezza di definizioni con cui nei decenni studiosi, scrittori e semplici lettori hanno cercato di coglierne l’essenza. Nessun altro genere letterario può vantare tanti e tali sforzi semantici. Tutti o quasi, però, ruotano attorno al medesimo concetto: che la fantascienza è soprattutto letteratura di idee. E che nelle idee esprime la sua massima potenza di fuoco.

    Chi scrive science fiction lo fa quasi sempre al di là della banale volontà di raccontare storie; lo fa perché oltre ai personaggi, alle ambientazioni, al plot subisce la seduzione delle proprie idee. E vuole che diventino un tarlo anche per altri.

    Ecco quindi che gli scrittori di fantascienza sono untori: untori di idee, di visioni. Che preparano le loro pozioni e i loro veleni con sensibilità personalissime, anche distanti – per dirla con un termine a tema – anni luce l’una dall’altra.

    Per arrivare al volume che avete tra le mani, ricordo che una volta Paolo Aresi, amico da qualcosa come 25 anni o giù di lì, mi disse simpaticamente sì, scriviamo storie molto diverse noi due. Lo disse come stessimo amabilmente parlando di pianeti natii, anziché di libri e di scrittura: lui su uno, io sull’altro. Specie differenti. Unite dalla stessa voglia di evolversi.

    Ringrazio Paolo perché a distanza di tempo da quella battuta, mi ha fatto avere un biglietto per andare a trovarlo sul suo mondo: un biglietto comprensivo di tour a tappe, stazioni di sosta e, appunto, idee! Conoscevo alcuni dei suoi romanzi, qualche racconto sparso, ma mai avevo potuto apprezzarne a pieno il percorso narrativo come con questa antologia.

    C’è un lirismo struggente nelle sue storie che mi richiama alla mente un maestro della fantascienza che fu: Ray Bradbury. Certe rivisitazioni di Marte potrebbero far pensare a semplice assonanza di temi, a una fascinazione per il Pianeta Rosso che in qualche modo accomuna entrambi: ma non è a questo che mi riferisco. La malinconia e la spiritualità di certi sonate bradburiane rivivono nelle storie di Aresi con la stessa intensità: sia che si parli di un astronauta ostinatamente preda della propria sete di sapere sia di un piccolo reverendo della campagna marziana, consapevole del proprio ruolo di guida nella comunità locale.

    La spiritualità, appunto. I racconti di Aresi ne sono impregnati, e questo rappresenta a mio avviso uno dei punti distintivi della sua scrittura: sono sì science fiction, ma anche ricordo personale – spesso lontano e sfocato — omaggio alle persone care e, azzardo, esperienza intima. Quanti autori, nel panorama fantascientifico nazionale, possono dire di mettersi così a nudo in una loro storia? Aiutatemi, perché a me non ne viene in mente nessuno.

    E poi, quel senso di poesia sottesa. Fotogrammi raccolti dall’immaginazione del domani, ma filtrati attraverso una lente familiare, quasi un amarcord del futuro. Leggo da uno dei racconti, che ho apprezzato di più, Fuori dal rifugio: Di colpo sentì bussare, forte, alla porta. Scattò in piedi. Chi bussava in quel mondo deserto? In quel mondo di cani abbandonati, di pesci rossi morti negli acquari?.

    Chiese, altari e crocifissi, ambienti domestici, locande, campagne: è il volto terrestre di Aresi (in alcuni aspetti laici e paesani mi ricorda il grande Lino Aldani), ma ovviamente non è il solo e neppure il più conclamato. In Aresi, il più astronautico degli scrittori italiani di SF, il cosmo, l’anelito d’infinito, l’avventura tra i pianeti hanno un ruolo pregnante e fondamentale. Quante sono le sue pagine in cui si respira la grande epopea dell’esplorazione spaziale? In quante ci s’imbatte in piccoli uomini soli al cospetto di macchine perfette, in abissali debolezze umane sullo sfondo dell’infinto? Nel sogno di scoprire che diventa ossessione di fallire?

    Ora il biglietto per visitare il pianeta-Aresi è vostro, lo passo nelle vostre mani suggerendovi una navigazione a bassa quota, coi motori al minimo. E un po’ di musica di sottofondo…

    Il villaggio di Marte

    Questo è per Vic Curtoni, per Laura Grimaldi e per Marinella Meli che, per la verità, qualcosa avevano già letto. Quando avevo bisogno, loro rispondevano, sempre. Magari anche adesso.

    Noctis Labyrinthus

    Sono sempre stato piuttosto contento di questo racconto, fin dai momenti della sua scrittura, mi pare intorno al 1994. In questo racconto il protagonista, Gordon De Martino, si spinge oltre i limiti del suo ruolo, va contro le regole. Disobbedisce ai superiori. Lo fa per realizzare qualcosa in cui crede, in cui credono anche i suoi superiori che pure gli si oppongono. In questo racconto si dice che esiste qualcosa che è più importante della regola, della legge. E in questo momento mi viene in mente un insospettabile, tal Paolo di Tarso che nelle sue lettere ha più volte ribadito il superamento della legge nel nome di qualche cosa di più profondo, di radicato nell’essere umano. Per Paolo era l’adesione profonda, incondizionato all’esempio di Gesù di Nazareth, ovvero l’amore verso se stessi e verso gli altri, nemici compresi. Questa condizione di vita per Paolo consente, anzi, obbliga ad andare oltre le norme, i regolamenti, le consuetudini. La legge. In questo racconto, il protagonista disobbedisce alle regole per amore della conoscenza, per una passione: la necessità di spingersi oltre il suo mondo di origine, e sbarcare su altri mondi per cercare nuovi orizzonti, nuovi luoghi dove vivere, nuovi mondi da esplorare. A un certo punto, dice il racconto, gli schemi vanno infranti, superati. Bisogna andare oltre.

    Questa storia – pure in origine preparata per il concorso di Courmayeur – venne pubblicata nel primo numero della nuova serie di Robot. Dallo spunto di questa storia è nato anche il romanzo Il giorno della sfida edito dalla Nord: il titolo originale, era proprio Noctis Labyrinthus, un riferimento simbolico, ma anche il nome di una precisa zona delle Valles Marineris, su Marte.

    In quel momento di certo lo stavano chiamando. Stavano tempestando la radio con i loro De Martino mi senti? Mi senti De Martino? Rispondi, maledizione, rispondi Gordon, rispondi! È una follia…

    Follia. Ma la radio era spenta. E si sarebbe risvegliata quando decideva lui. C’erano già troppe cose da fare, non aveva nessuna voglia di ascoltare la voce noiosa del comandante Conrad, le litanie del vice Armstrong. Nero come il carbone. Niente contro i neri, per carità. Armstrong era più sincero di Conrad, tutto sommato. Ecco… Conrad era troppo responsabile, attento a tutto, troppo comandante.

    L’accelerazione era terminata. Era stata questione di pochi secondi. Slacciò le cinture della poltroncina, ma restò seduto, digitò sulla tastiera e il video rispose immediatamente: mancavano dieci minuti alla successiva accensione. De Martino osservò ancora una volta il grafico. Deglutì. Sì, ce l’avrebbe fatta. Avrebbe bucato quell’atmosfera leggera come un palloncino. Poi il pensiero che la navicella non era mai stata collaudata lo afferrò alla gola. Sentì il respiro farsi difficile. Che temperatura avrebbe raggiunto lo scafo? Quanti gradi ci sarebbero stati, dentro? Quella era soltanto una navicella di simulazione atterraggio. Scosse la testa. Avrebbe indossato la tuta spaziale. Avrebbe resistito. Si tirò su e prese a galleggiare nella minuscola cabina, afferrò un maniglione e si avvicinò all’oblò. Il pianeta era una distesa color dell’ocra. Lo assalì la paura di non farcela. Strinse il maniglione. Sul bordo del pianeta, appena sotto l’equatore, cominciava a distinguersi la profonda ferita della Valles Marineris.

    – Comandante! Conrad!

    Il maggiore Jan Conrad sollevò le palpebre senza capire. Mise a fuoco un volto pallido con la barba un po’ lunga, gli occhi scuri. Chiuse le palpebre, le riaprì.

    – C’è qualcosa, comandante, qualcosa!

    De Martino. Che cosa voleva De Martino? Non era il suo turno. Perchè lo chiamava? Otto giorni. Ancora otto giorni e avrebbero fatto marcia indietro: accensione dei motori e via. Il reattore a fissione che 1sparava fuori l’idrogeno e il gas che spingeva l’astronave. Impulso specifico triplo rispetto ai razzi chimici.

    – Nel campo di visione è passato qualcosa comandante!Ma cosa voleva De Martino? Sentiva la bocca impastata. Si mise a sedere. Disse: – Che cosa succede?De Martino si passò una mano tra i capelli corti e scuri. Disse: – Nel campo di visione del robot. È passato qualcosa.

    Il comandante Conrad sbadigliò. Mandò giù la saliva. – Che cosa? – Gli dava fastidio parlare appena sveglio. Era per via dell’alito cattivo. Doveva prima lavarsi i denti e bere qualcosa.

    – Come una palla. Una bolla.

    Al comandante Conrad l’alito cattivo dava particolarmente fastidio. Si era portato sull’astronave cinque bottigliette di spray apposta. Conrad chiuse gli occhi. – Una palla – disse. Si prese il viso tra le mani e rise. Si fece serio. – Una o due?

    De Martino era in piedi davanti a lui con i pantaloni della tuta, la maglietta e il cappellino della Nasa. – Una. Come trasparente – disse.

    – Hai controllato se le tue sono a posto?

    De Martino non rise. Disse: – Non sto scherzando.

    Anche il volto di Conrad si fece serio. – Un sasso. Il vento.

    De Martino scosse la testa. – Niente vento, comandante. Calma assoluta. – I sassi non si muovono da soli, De Martino.– Infatti.

    Il comandante Conrad respirò profondamente. Guardò l’orologio: aveva ancora mezz’ora di sonno, tanto valeva alzarsi. – Mi lavo i denti – disse.

    Telepresenza. Una stronzata. De Martino si grattò la guancia. Sentiva il peso del cappellone in testa, i guanti elettronici alle mani e ai piedi gli davano fastidio. Mandare giù i robot e non loro. Sarà come se voi stessi vi troviate là. Potrete vedere il deserto marziano con gli occhi del robot, decidere di muovervi come vi pare, avvertirete persino sensazioni di tatto.

    Non era vero. Non era come trovarsi là. Era poco più che stare davanti a un video. Ti mettevi quel cappellone in testa stile realtà virtuale e i guanti alle mani e ai piedi. E poi cercavi di immedesimarti con quel robot a rotelle che gironzolava là sotto. E quando i cingoli superavano un sasso allora tu sentivi il rigonfiamento sotto il piede. Robe da baraccone. Sarete voi stessi il robot. Stronzata. Un automa lungo un metro con due cingoli, un braccio e un’antenna. Una telecamera al posto degli occhi. E la visione spesso era disturbata. In quel momento il cingolato stava scavando. La sabbia superficiale aveva lasciato il posto ad un terriccio consistente. Erano a sessanta centimetri di profondità. De Martino ordinò di acchiappare un po’ di terriccio; il robot se lo portò nella pancia per l’analisi. La telecamera fissava il deserto rosso e in fondo la colossale parete del canyon.

    In quel momento sfilò evanescente la seconda bolla.

    Conrad scosse la testa e Armstrong allargò le braccia. Armstrong ebbe una smorfia sul faccione nero. Disse: – Ha ragione il comandante, De Martino. Hai controllato anche tu. Sulla registrazione non c’è niente. Niente. Nè la prima nè la seconda.

    De Martino li guardò in faccia. Era nervoso.

    Conrad scosse un’altra volta la testa. – Soltanto illusioni ottiche. Siamo stanchi. Tutti stanchi di questo vuoto e di questo niente – disse.

    Non capivano. Le bolle c’erano. Evanescenti come sfere di vetro. De Martino provò rabbia contro quello scetticismo da benpensanti. La registrazione non indicava nulla, era vero. Ma le riprese avevano grossi limiti. Gridò: – Non sono un visionario. Non sono neppure stanco. – Mandò a quel paese i due compagni. Tornò al suo turno di telepresenza.

    Non ne poteva più di quei sistemi automatici. La verità era che sulla Terra non gliene fregava niente a nessuno di Marte. Niente. E una missione che prevedesse lo sbarco era giudicata troppo costosa. Meglio spendere i soldi nelle armi. Meglio fare lavorare le industrie per i videogiochi. Che mondo avevano creato. Business, business. E basta. Quanto rende? Quanto costa? Quanto si guadagna ad andare su Marte? L’innato desiderio dell’uomo di sapere? Sì, sì, va bene. Ma quanto si riuscirà a realizzare con la ricaduta tecnologica?

    Un mondo di merda. Di numeri e contabilità. Di città lerce e cadenti. Corrotte.

    De Martino strinse i pugni dentro i guanti elettronici. Non sarebbe andato sempre così il mondo.

    Il piccolo robot avanzava nell’immenso canyon della Valles Marineris. Erano le due del pomeriggio marziano. I cingoli sfioravano la linea d’ombra. De Martino stava effettuando rilevamenti di temperatura: alla luce c’erano dodici gradi centigradi. All’ombra si scendeva sui dieci sottozero. E di notte non si calava sotto i sessanta. No, la temperatura non era proibitiva in quella parte della Valles Marineris chiamata Tithonius Chasma, nel complesso tettonico di Noctis Labyrinthus. Labirinto della Notte. L’avevano chiamato così tanti anni prima osservando le foto della sonda Mariner 9. De Martino lo sapeva bene. Sapeva tutto di Marte. Lì in quella parte del Noctis Labyrinthus l’atmosfera era particolarmente densa per via che si trovavano quattromila metri al di sotto della superficie media del pianeta. Si sfioravano i quindici millibar di pressione e il due percento di ossigeno. Ben oltre le previsioni, anche considerando che quella era una stagione ottima su Marte: le calotte polari si trovavano al minimo e il ghiaccio di anidride carbonica disciolto era riversato come gas nell’atmosfera insieme ad un poco di vapore acqueo.

    Era la stagione ideale per lo sviluppo della vita.

    Rise dentro al cappellone. Non c’era vita su Marte. Era per quello che la gente non era così interessata. Avessero detto che su Marte c’erano le pulci la gente avrebbe sollevato un poco lo sguardo. E se avessero scoperto che sul pianeta ballonzolavano i canguri allora la gente avrebbe aperto gli occhi. E se avessero detto al mondo: Abbiamo trovato i resti di una città marziana allora la gente avrebbe detto: Andiamo a vedere.

    Invece niente. Neppure un microbo. Possibile? Eppure tre miliardi di anni prima era provato che su Marte esistevano fiumi e probabilmente oceani e che l’atmosfera era identica a quella della Terra. A quel tempo, in quelle stesse condizioni, sulla Terra la vita era nata e si era sviluppata. Possibile che su Marte non fosse avvenuto niente?

    Il governo aveva tagliato altri fondi all’ente spaziale. La collaborazione internazionale era andata a quel paese. Con la balla della ricaduta tecnologica la Nasa aveva ottenuto i contributi di alcune società private ed era riuscita a tirare insieme la seconda missione marziana. Ma il futuro era buio come lo spazio.

    De Martino respirò profondamente. Noctis Labyrinthus, Tithonius Chasma. Laggiù, mille chilometri sotto di loro. Soltanto mille chilometri. Appena più in basso dell’equatore marziano. Cinque gradi di latitudine sud. Mille chilometri soltanto. Da Parigi a Madrid. Da San Francisco a Los Angeles.

    Uno sputo.

    Il robot riprese la marcia. Stava aggirando una collina di detriti che erano i resti di un’antica frana. Si trovava a dieci chilometri dal modulo di atterraggio. I pannelli fotovoltaici bevevano l’energia del sole. Che non era poca: Marte in quel periodo si trovava al minimo della distanza dalla stella, a 204 milioni di chilometri.

    Improvvisamente De Martino si tolse il cappellone e i guanti, scese dalla poltrona di ascolto. Andò al pannello di comando. Digitò sulla tastiera. Apparve lo schema dell’astronave. Gli ugelli in fondo, l’isolamento, il modulo di abitazione dove stavano loro, quindi il modulo di rientro sulla Terra e infine la navicella per la simulazione della discesa su Marte.

    – Ancora cinque giorni – fece Armstrong e gli sbocciò un grande sorriso sul volto scuro come la corteccia di un pino. Armstrong pedalava sulla cyclette. Conrad e De Martino se la vedevano con la macchina dei pesi. Ogni giorno tre ore di esercizio fisico per non indebolirsi troppo. Una missione con gravità artificiale costava eccessivamente. L’ente aveva chiesto agli astronauti un sacrificio in più.

    – Fra sei mesi sulla Terra – disse Armstrong. – Continuava a sorridere. Disse: – Voglio chiudermi subito in una stanza con Anita. Un bel lettone grande. Voglio starci tre giorni. Da mangiare in camera.

    Armstrong rise. Conrad aveva il volto rosso come il deserto marziano. Ansimava. In un soffio disse: – Hot dog.

    Armstrong pedalava e sorrideva beato. – Pollo fritto – disse. – Pollo fritto con patatine.

    Gordon De Martino tirò giù per la quarantunesima volta il manubrio dei pesi. – Il sole sulla spiaggia – disse. E pensò che sarebbe stato bello tornare sulla Terra. Pensò alla pioggia e agli ombrelli aperti e si disse che c’erano ancora posti dove la pioggia non era acida e non bucava le foglie delle piante. Pensò ai boschi che salivano verso le rocce. Pensò alla donna da cui aveva divorziato due anni prima di partire. La donna che non sopportava le assenze di un pilota militare. Peggio di un astronauta. Gli venne voglia di sputare per terra, ma lo sputo sarebbe rimasto a galleggiare nella cabina.

    Pensò al deserto senza vita di Marte.Non aveva figli a cui raccontare le sue imprese marziane. Non aveva più moglie. Non aveva nessuno a cui raccontare niente. Ripensò alle bolle. Trasparenti. Bolle di sapone. Gas. Fuochi fatui. Spiriti. No, meglio non raccontarlo a nessuno. Sarebbe finito su qualche giornale popolare da quattro soldi. E forse neppure. Alla gente non gliene fregava più niente di Marte. Era un mondo morto, Marte.

    – Salve, ragazzi. Tutto bene, lì?

    – Tutto bene.

    – Quattro giorni e poi dietro front. Vi dispiacerà lasciare Marte.

    Il comandante Conrad guardò Armstrong e De Martino. Era tentato di fare una battuta. Ma non poteva. Era il comandante.

    – Un po’, un po’ dispiace. Ma è bella anche la Terra.

    Il direttore della missione, Viktor Magaloff, rise nel video disturbato dalle scariche. – Già, è bella anche la Terra. Oggi qui a Houston piove forte. Acqua buona. Basso grado di acidità. Una bellezza… Le immagini di Marte sono interessantissime. Ci hanno dedicato cinque minuti di speciale ieri alla Cnn. Quelle frane del Tithonius Chasma sono impressionanti. Due richiami in prima pagina per Newsweek. E potrebbero farci una copertina su Time. Niente male. Le riprese della linea d’ombra del canyon. Niente male. Il cielo rosa sopra i picchi frastagliati. Niente male. La notizia dei millibar ha colpito gli scienziati. E tutto quell’ossigeno. Niente male, niente male. Ragazzi, siamo sulla buona strada per la missione di sbarco.

    De Martino ebbe un sorriso amaro. Magaloff era un illuso. Non ci sarebbe stata nessuna missione di sbarco. Quelli del

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