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Il vento d'estate
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Il vento d'estate

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Matteo e Silvia condividevano lo stesso banco ed erano segretamente nnamorati l'uno dell'altra, convinti che prima o poi uno dei due sarebbe riuscito a confessare quel tenero sentimento senza nome che dipingeva le guance di rosso ogni volta che i loro occhi si incontravano. Ma inaspettatamente, un triste giorno di marzo, Silvia lasciò il paese per trasferirsi a Milano. E portò via anche il sentimento che aveva unito i loro piccoli cuori.

Sono passati molti anni e il ricordo di quei bambini seduti allo stesso banco sembra essere ormai lontano. Matteo è un giovane uomo, un valido studente di medicina prossimo alla laurea. La sua vita sembra scorrere nella solita normalità fino a quando, sulla riva del mare di Gallipoli, tra incanto e poesia, il caldo scirocco salentino fa riaffiorare vecchi ricordi e promesse di un tempo. Il vento d'estate porta indietro tutto quello che sembrava essere ormai perduto, tutto quello che il cuore ha invece conservato con cura e non ha mai dimenticato, compreso l'amore per quella bambina con gli occhi grandi, le trecce e il grembiule rosa.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJul 10, 2018
ISBN9788827839706
Il vento d'estate

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    Il vento d'estate - Marika Stapane

    d'azzurro.

    Capitolo 1

    Capita di svegliarsi prima del sorgere del sole. Quando succede sembra di avere la grande responsabilità di mandare a dormire la luna e comunicare al mattino che è arrivato il momento di iniziare a tingere il cielo d'azzurro. Oggi è proprio uno di quei giorni. Nonostante la casa silenziosa, i tentativi dei miei sbadigli per costringermi ancora a letto, e la sveglia che non ha alcuna intenzione di suonare, sono già in piedi e pieno di energia.

    Sbircio fuori la finestra e mi tingo gli occhi di stupore vedendo i colori dell'aurora unirsi in un tenero e timido bacio. Ci sono anche le stelle. Le più forti sono ancora accese; le altre, ormai stremate, hanno deciso di spegnersi e di andare a dormire per ricaricare l'energia ed essere di nuovo pronte a illuminare la notte.

    Spalanco entrambe le imposte della finestra della mia stanza e mi godo l'ebbrezza del mattino di un'estate dolce, ancora tenue e fresca, che ha affidato a Maggio il compito di precederla nei suoi mesi caldi. Allungo le mani sulla scrivania e, tra la miriade di libri che l'affollano, riesco a trovare il mio fidato pacchetto di sigarette. Ne sfilo una e l'accendo. L'ombra delle prime luci dell'alba permette che io sfoghi il mio unico vizio, quel vizio che mamma, nonostante la mia età adulta, non intende accettare. Mi considera ancora il suo bambino, dimenticando che ormai sono uomo e che tra un paio di mesi diventerò anche un medico pronto a salvare vite umane.

    Pensando alla mia vita mi sembra quasi di rivivere la monotona catena di un normale percorso umano: nasci, cresci, vai a scuola, se hai voglia di continuare a studiare prendi una laurea, trovi lavoro, ti sposi, hai dei figli, diventi nonno, muori. Nella sequenza di questi eventi, già studiandola sommariamente, chiunque potrebbe muovere un'obiezione, anzi più di una, ma senza dubbio la più rilevante è trovi lavoro. A meno che tu non sia mago Merlino, e con la tua bacchetta magica riesca a cambiare i dati sulla disoccupazione giovanile italiana, quello sarà il tasto più dolente della catena. Ma c'è di peggio, perché nella catena e in tutti gli eventi che la compongono ne manca uno importante: la vita. Quand'è che vivi? E' facile respirare, camminare, mangiare, dormire, piangere, ridere e fare tutto quello che la biologia definisce attività vitale, ma vivere nel pieno significato del termine non è una cosa da tutti. Io, per esempio, non so se in tutti questi anni ho vissuto veramente, me lo chiedo spesso ma non trovo mai una risposta.

    Provando a fare un bilancio risulta che ho due genitori che mi vogliono bene e che non mi fanno mancare nulla; ho Reb, sorella pazza in piena crisi adolescenziale che rende le mie giornate più allegre; sto per completare i miei studi in modo quasi eccellente; ho degli amici fidati, e ammetto di avere anche un certo fascino, ragion per cui non ho molti problemi con le ragazze. Eppure sento che c'è qualcosa che mi manca, qualcosa che non riesco a cogliere.

    Mi godo l'ultima inspirata di fumo e lascio cadere il mozzicone giù per la strada. Guardo nuovamente il cielo, il sole sta ormai per sorgere.

    Sono convinto di aver ereditato la mania di pormi quesiti sulla vita da mio padre, valido docente di storia e filosofia in fissa con Socrate e con la constatazione che la verità assoluta non esiste, nonostante lui non smetta di cercarla. In fondo non sono stato un bambino al quale in tenera età venivano narrate le fiabe. La mia prima fiaba, se così si può chiamare, fu il mito della caverna di Platone seguita dalla storia sulle origini di Roma, sui sette re, e sul confronto tra nascita di Roma come leggenda e come letteratura con riferimento all'Eneide virgiliana. Nonostante siano passati degli anni sono ancora fermamente convinto della tesi secondo la quale mio padre mi considerava come uno dei suoi alunni, un ragazzo svogliato ed impreparato: ‹‹Teo ancora non hai memorizzato i sette re di Roma, ti rendi conto? È da due settimane che stiamo su questo argomento! », avevo tre anni.

    Con mamma la situazione era diversa perché, a differenza di papà, lei adorava raccontarmi le fiabe. Mi narrava tutti i casi che Perry Mason era chiamato a risolvere, seppur sotto forma di favola. In verità ancora oggi mi domando che razza di fiaba sia quella in cui in un processo accusano un innocente di aver ucciso un uomo, ma poi grazie all'arringa del valoroso eroe Perry si scopre la verità e l'uomo non viene più condannato. Tralasciando le storie di Agatha Christie perché quelle su di me avevano un magico effetto soporifero. Con Mason l'effetto sonno non funzionava perché mamma strillava nel narrarmi l'arringa dell'avvocato, era fortemente presa dalla storia che sembrava quasi fosse lei la protagonista. E di fatto era così. Mamma è l'avvocato penalista più prestigioso della città, quella più temuta per l'incisività delle sue parole, per la sua preparazione, per la sua forza e determinazione.

    Non nascondo che sono orgoglioso dei miei genitori, sono orgoglioso per come mi hanno educato, istruito. E anche per le loro storie su Roma, Virgilio e Mason: questo li rende unici e miei. Sì, miei. Perché se non fossero così non sarebbero loro e non sarebbero i miei genitori.

    «Teo esci dal bagno! Sbrigati, sono in ritardo!» La voce di Reb è stridula e fastidiosa anche impastata di sonno. Il suo ritardo non è commisurato in virtù dei kilometri che distanziano casa da scuola, ma in relazione al conteggio dei minuti impiegati per il trucco e per la solita passata di piastra mattutina.

    Reb è la mia pazza sorella sedicenne che io definisco adottiva perché una tipa come lei non credo possa essere mia sorella naturale: siamo i due opposti, i due contrari, siamo completamente diversi, eppure il destino ci ha uniti come fratelli. Io sono un ragazzo tranquillo, studioso, calmo e pacato; lei è la reincarnazione di Attila, è una furia, un uragano, un danno umano. Forse ci somigliamo fisicamente, entrambi magri, con gli stessi occhi azzurri, con gli stessi lineamenti del volto e con lo stesso colore di capelli, almeno prima che lei decidesse di tingerli di blu. Mi domando cosa sia passato nella testa di mamma quando le ha dato il permesso di tingere le sue punte castane di blu. Lo chiamano shatush colorato, io lo chiamo carnevale tutto l'anno perché credo che quel colore sia davvero bizzarro da portare in testa tutto l'anno. In fondo stiamo parlando di Reb e sono sicuro che il colore da fata turchina a metà l'abbia fatto senza chiedere permesso a mamma.

    «Teo ti vuoi sbrigare?»

    «Mi sono svegliato io prima di te, sei tu che devi aspettare.»

    «Teo se non esci dal bagno sfondo la porta.»

    «E tutta questa forza dove l'hai presa? Stanotte hai scoperto di avere i super poteri?» La prendo in giro ridendo per la mia stessa battuta.

    «Matteo e Rebecca, basta! » Davanti ai nostri occhi si presenta la legge fatta persona. Scandisce i nostri nomi in modo chiaro e preciso perché per lei i nomi non vanno spezzati, ogni nome ha una sua dignità e, in quanto tale, deve essere pronunciato nella sua interezza.

    «Matteo, hai dai cinque agli otto minuti per uscire dal bagno mentre tu, Rebecca, impiegherai questo tempo per rifarti il letto» aggiunge con tono serio e severo.

    «Questa me la paghi» sento bisbigliare Reb dietro la porta mentre si allontana dirigendosi verso la sua camera.

    Avvolgo il mio corpo nel pallido bianco dell'accappatoio e, intento a sgattaiolare fuori dal bagno, apro silenziosamente la porta.

    «Matteo», fuga non riuscita. Niente sfugge al perspicace avvocato Mason.

    «Buongiorno, mamma.»

    «Buongiorno a te. Come mai già sveglio?»

    «Sarà una lunga giornata: devo continuare a scrivere la tesi e studiare per i restanti esami. Ho pensato di svegliarmi così presto per ottimizzare tutto il tempo a disposizione.» Sono serio nel proferire queste parole, ciò mi lusinga molto perché abbandonando gli studi potrei dirigermi verso Hollywood: ottima recitazione.

    «Affacciandosi dalla finestra della tua stanza, si nota una chiara e inequivoca traiettoria che conduce nell'immediato alla ricostruzione del fatto: hai fumato e hai buttato il mozzicone giù per la strada», è proprio vero a Mason non sfugge nulla.

    Abbozzo un sorriso, uno di quelli che farebbero sciogliere anche le madri più dure, nonostante sia pienamente consapevole che con lei questi espedienti non funzionano. «Non condivido per niente il vizio del fumo, lo sai» sentenzia con voce ferma.

    Sono tentato di dirle che a me invece non va che mi tratti ancora come un bambino, come un ragazzino immaturo e privo della possibilità di scegliere ma evito di controbattere perché muoverebbe obiezione e poi continuerebbe ancora, ancora e ancora per il resto della mattinata fin quando non vincerà la sua causa.

    All'improvviso sbuca Reb, intenta a correre verso il bagno.

    «Rebecca fermati», l'avvocato del diavolo becca anche lei. «Ragazzi, oggi farò tardi. Ho un'udienza intorno mezzogiorno e non potrò tornare per pranzo» ci comunica quasi dispiaciuta.

    «Tranquilla tanto io nemmeno sarei tornato, ho intenzione di restare in biblioteca a studiare.»

    «Oh beh allora io ne approfitto per restare a casa di Cri, mangio da lei e studiamo insieme» aggiunge Reb.

    «Cristina. Si chiama Cristina, è chiaro? Rebecca i nomi vanno completati perché ciò è un atto dovuto, una regola obbligatoria, una forma di rispetto assoluta. Non completare i nomi equivale a privarli di un pezzo importante di loro stessi: è come se tu vedessi il mondo con un solo occhio e non con due, perdendoti tutti quei dettagli che fanno la differenza, che donano quel magico scintillio alla vita» sorride e ci lascia soli, felice del suo discorso e del suo insegnamento.

    «Per me è tutta pazza» sussurra Reb a voce bassa, attenta a non farsi sentire.

    Le sorrido e non posso far altro che essere d'accordo con lei. Ma so bene che mamma non è pazza, è solo una donna di legge, una donna che vede il mondo in modo rigoroso, convinta che l'intera matassa umana ruoti intorno ad un principio ordinatorio che ognuno di noi dovrebbe seguire. Per mamma il mondo si può cambiare con educazione e disciplina. Il rispetto per questo mondo va praticato già nelle piccole cose, ad esempio nell'augurare il buongiorno al passante che incontri di fronte: poco importa se non lo conosci, l'importante è che tu l'abbia rispettato. Il buongiorno è una forma di rispetto, proprio come lo è il sorriso. E qui non c'entra la legge, qui c'entra l'essere partecipe di un mondo fatto di persone, cioè di ossa, organi, apparati e anime. Il sorriso previene gli infarti, rafforza i muscoli e cura l'anima. Me l'ha insegnato lei da piccolo e forse è proprio per questo motivo che mi sono appassionato alla medicina al punto tale da fare di essa la scelta per

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