D'Amore Morire
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Book preview
D'Amore Morire - Giovanni Ragonese
Note
Prefazione
Questa non è una storia facile, è semplicemente una storia surreale che descrive la realtà allo stesso tempo. I temi affrontati, malattia e morte volontaria, sono trattati con riguardo e senza ipocrisia. Abbiate menti e cuori audaci. Chiara e Christopher, i protagonisti, si conosceranno due volte mostrando, ciascuna volta, un aspetto diverso della loro stessa umanità. Uniti da una ragione mortale, cammineranno sull’orlo di sentimenti contrastanti, più grandi della loro capacità di comprensione. Due vite, diverse e complementari, che si completeranno a vicenda lasciando un cadavere alle spalle del loro amore.
Giovanni Ragonese
2 Luglio 2018
CAPITOLO 1: Il nero della pioggia
Il taxi attese, fermo, sul bordo della via. Una sagoma bianca e luci rosse appena visibili attraverso la pioggia fitta e incessante che cadeva su Roma da ormai due giorni. I tassisti conoscevano bene quel cliente, tanto da non aver bisogno di chiedere quale fosse l’indirizzo di destinazione dell’ennesima corsa, casa o ufficio che fossero. Mancia garantita, zona signorile, cliente distinto, vi era una segreta competizione per accaparrarsi la corsa. Poche volte, ma regolari, il cliente rompeva il suo silenzio e pronunciava un nuovo indirizzo, quasi sempre relativo a zone periferiche, e chiedeva di essere atteso in strada col tassametro rigorosamente acceso. Venti minuti, mezz’ora al massimo, erano sufficienti per esprimere tutto l’amore di cui era capace.
Ma quel giorno di fine marzo non fu necessario aprir bocca. Christopher voleva solo arrivare a casa, chiudersi la porta alle spalle e mettere la testa nel congelatore, o sotto l’acqua fredda, o schiantarla contro lo spigolo del camino pur di non provare più quel dolore che gli dava la misura del numero delle vene nel suo cervello.
Finalmente la vista del portone di casa, un buco grande e oscuro sulla via deserta e allagata. Lasciò il denaro sul sedile posteriore e uscì dal taxi sotto la pioggia che, fredda e dritta, gli sembrò una calda e dolce mano poggiata sulla testa. Entrò nel portone accompagnato dall’eco dei suoi passi, alta sartoria e marmo macchiati di fango. Quel cappotto nero, più dritto e freddo della pioggia che non era riuscita a penetrarne la fitta trama, fu uno strappo nella monotonia di Marcello, il portiere, che con un gesto della mano salutò Christopher senza ricevere alcun segno di vita in cambio.
L’ascensore, un altro viaggio eterno fino all’ultimo piano. Nessun ricordo della porta di casa, delle chiavi che sfuggono tra dita che tremano, la nausea che toglie il respiro, sudore freddo sulla fronte e poi dentro, finalmente al sicuro. Il profumo di legno massello e cera, la posta del giorno sotto le scarpe, nel fango: Christopher Grossi, Viale Sforza 16, Roma. Si tolse il cappotto, la giacca blu da buon avvocato e il cappio che suo padre gli aveva regalato l’ultimo Natale, la solita merda. Tutto a terra, chi se ne fotte. Sbottonò la camicia e si diresse verso il bagno, ancora acqua fredda per allontanare i più duri spigoli dalla fronte. Si guardò allo specchio, la faccia era sempre quella, sempre la stessa, che non destava preoccupazioni e poteva ancora attrarre abbastanza amori da soddisfare la carne fra le gambe e l’orgoglio dei suoi amici. Si asciugò il viso, e i capelli, neri e aderenti alla pelle pallida della fronte, tracciarono in superfice il segno di ciò che stava crescendo all’interno. Esausto, ma con quel senso di sicurezza che solo in casa sua ormai trovava, andò nel grande soggiorno dove la luce del tardo pomeriggio impallidiva lasciando lo splendore oltre le nubi. Aprì lo sportello di uno dei ripiani e vide il vuoto che quelle scatole bianche all’interno avevano creato intorno a loro.
Ne afferrò una. Il farmaco più potente che Dio e l’intera industria farmaceutica potessero concepire, talmente efficace da creare sintomi nuovi, diversi, imprevedibili e curabili con altri farmaci per creare così nuove dipendenze d’avanguardia. Due pasticche, grosse e amare, gli attraversarono l’esofago, insensibile ormai agli urti e ai graffi. Dopo qualche istante, un familiare calore gli avvolse lo stomaco. Amava quella sensazione, così familiare e confortevole, come il latte caldo la mattina, o l’accappatoio scaldato sul termosifone, o il brodo risucchiato rumorosamente per destare l’attenzione di suo padre quando era bambino.
Con l’aspra sensazione di un trionfo temporaneo, sprofondò sul divano lasciando scivolare le scarpe infangate sul parquet. Non pioveva più e dalle persiane chiuse filtrava già la fioca luce del tardo pomeriggio, debole di pioggia. Guardò il soffitto, mentre i battiti del suo cuore segnavano lo scorrere del tempo nell’assoluto silenzio, e si domandò perché avesse scelto di avere solo lampade in casa, nulla che pendesse dall’alto. L’unico lampadario era lì, poggiato in un angolo in terra, con una lunga catena che dalla parete scendeva e sfiorava il pavimento creando una curva che mai prima di allora gli era sembrata così inutile. Di tanto in tanto lo accendeva e lo scintillio dei cristalli, in parte schiacciati sotto il peso della grossa struttura d’ottone, destavano la curiosità di chi trovava fosse un’idea geniale ma che mai l’avrebbe voluta in casa propria.
Nel sopore chimico che lo pervadeva, chiuse gli occhi pensando che, in fondo, fintanto che lui l’avesse voluto, la carne che dentro di lui si nutriva della sua stessa carne non avrebbe avuto la meglio su un mondo così perfetto, dove i tassisti sanno già qual è il tuo indirizzo e i lampadari non pendono dai soffitti ma emergono dai pavimenti.
Aprì gli occhi all’improvviso, sbarrandoli. Il tempo, quanto tempo è passato, un pensiero sempre angosciante. La sensazione era quella di aver dormito per giorni, settimane, e di aver perso ogni treno, aereo, nave, e di esser in ritardo per tutti gli appuntamenti della sua vita. Guardò il soffitto, col cuore che segnava un tempo costipato, ma non distingueva più i contorni degli stucchi né l’ombra delle fessure delle persiane. La luce piccola e rossa del televisore era forte, nitida e silenziosa. I cristalli non brillavano più e a stento si poteva riconoscere la sagoma di quello che al buio sembrava un rottame ferroso. Frugò con le mani nelle tasche dei pantaloni per ritrovare l’unico punto di contatto con un mondo che, forse, era andato avanti senza di lui. Lo schermo del cellulare lo accecò, ma con ansioso coraggio affrontò il bagliore e vide che erano le 20:07 dello stesso giorno di fine marzo. Il mondo non era andato avanti senza di lui, era lui che aveva vissuto in un sonno tanto profondo da poter contenere le ansie, le paure e le speranze di una vita.
Due contatti. Pietro aveva chiamato due volte dall’orlo dell’abisso in cui Christopher era sprofondato, ma la distanza era troppo grande. Quei momenti erano solo suoi, intimi e chimici momenti di cui nessuno era al corrente. Pensò, però, che fosse ormai giunto il tempo di confidare ai suoi amici il segreto di ciò che portava dentro. Pietro avrebbe accettato la realtà con calma e lucidità, erano amici d’infanzia ma un uomo sa come accettare una perdita, anche se dell’amico più caro. Lucilla, moglie di Pietro, avrebbe avuto una reazione scomposta e patetica, da tipica donna dal temperamento instabile e schiavo della necessità di attenzione. Ma, dopo qualche minuto teatrale, avrebbe detto le tipiche parole Ti siamo vicini, vedrai ce la farai, sai quante volte si sbagliano i medici?
e tutto sarebbe diventato argomento alla stregua di altri. A Massimo e Amanda, invece, lo avrebbe confidato successivamente, tirando in ballo l’argomento tra una chiacchiera e l’altra; con loro non si parlava mai di argomenti intimi, troppo fredda lei, troppo succube lui di lei.
Ma sì, avrebbe fatto così, ma non quella sera. Era venerdì e il sangue alterato che gli scorreva nelle vene meritava di sputtanare lo stipendio guadagnato grazie al grande titolo di figlio unico dell’Avvocato
.
Appoggiò i piedi sul tappeto persiano e avvertì il pungente tocco della peluria della lana; nessun sussulto nel suo cuore lo portò al ricordo di quando correva a piedi nudi nell’enorme casa della nonna paterna. Si alzò in piedi e, per qualche secondo, si guardò intorno per accertarsi che non crollasse a terra morto stecchito. Sicuro di essere ancora al mondo, si affrettò ad accendere tutte le luci di casa. Aprì la porta-finestra e le persiane, il terrazzo splendido e tremante di voglie primaverili brillava sotto un cielo limpido e fresco d’aria umida di pioggia. La luna, appena nascente, rivolgeva la sua falce verso l’angolo di cielo nel quale, dietro l’acquazzone, era tramontato il sole di quel venerdì.
Prese il telefono e chiamò:
«Pietro!! Cazzo ma lo sai che non devi chiamarmi il venerdì dopo il lavoro. Mi ero portato a casa una tipa, è la nuova assistente di papà. La dovresti vedere...nel curriculum non aveva parlato di certe doti. Che non farebbero queste per un posto di lavoro...comunque ormai l’ho mandata a casa, si si le ho pagato un taxi, sono un gentiluomo in fondo.»
«Sei il solito, Cristo.»
«Sai che mi fai incazzare quando mi chiami Cristo...»
«Va bene va bene Avvocato, stasera che si fa? Greta non sta bene, avrà preso un