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Quel che resta oltre il buio
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Quel che resta oltre il buio

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About this ebook

Solo quando il dolore entra nella tua esistenza comprendi quanto smisurato sia lo sforzo per continuare a vivere. Si presenta sotto forme diverse e tutte strazianti. Quello fisico, accompagnato dalla sofferenza psicologica che mina ogni certezza morale; quello generato dalla lotta estrema in difesa della Fede e delle proprie intime convinzioni. O ancora, il supplizio prodotto dalla violenza, dalle ingiustizie, dalla privazione della dignità. Il colonnello Quattrocchi ha sgominato un traffico d’armi, ma è ancora alla ricerca degli ultimi criminali sfuggiti alla cattura. Il suo male sembra privarlo di ogni volontà di vivere. Insieme al poco amato fratello sacerdote e a un’affascinante immigrata siriana cercherà quell’unico raggio di luce capace di generare una nuova speranza. Al di là del buio resta sempre una luce inattesa. Basta saperne cogliere il bagliore.
Massimo Polimeni, catanese, è giornalista e dirigente d’azienda. Ha realizzato documentari per la RAI e diretto IN.TEA (Iniziative Teatrali). Ha vissuto a lungo all’estero (Seul, Tokio, New York), vive a Roma. Ha pubblicato per Nulla Die il romanzo In Sicilia, un’estate.
LanguageItaliano
PublisherNulla Die
Release dateJun 28, 2018
ISBN9788869151750
Quel che resta oltre il buio

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    Quel che resta oltre il buio - Massimo Polimeni

    madre

    Pre

    Le cose stavano così, dunque. Quella bestia era dentro di lui, chissà da quanto tempo, e stava divorandolo minuto dopo minuto. In silenzio, senza alcun segnale, senza lasciargli nessuna possibilità di difesa. L’uomo scavava dentro di sé alla ricerca di un ragionamento, di un indizio, anche solo di una semplice intuizione che potesse aiutarlo a razionalizzare quello che gli stava accadendo per riuscire a elaborare una strategia di difesa. Lui era abituato ad agire in quel modo: seguire una traccia, identificare una debolezza e poi azzannare al collo la sua preda. Ma essere un investigatore non gli attribuiva, di per sé, vantaggi contro quel male. Non era diverso dal resto dell’umanità.

    Quando era nato il suo male e perché? E poi come mai era capitato proprio a lui? Che cosa aveva fatto di sbagliato per meritarsi quella merda in corpo?

    Se n’erano accorti i medici, casualmente. Anselmo Quattrocchi avrebbe potuto continuare a vivere normalmente senza che nulla cambiasse nella sua vita perfetta, fondata sulla professione, la sua unica passione. Certo, di errori ne aveva fatti, ma li riteneva dazi inevitabili da sborsare lungo il percorso dell’esistenza. Uno soltanto di questi avrebbe dovuto scongiurare a ogni costo: perdere sua moglie. Un difetto, uno soltanto, era bastato ad aprire uno squarcio nella sua corazza di uomo risoluto. Quella scivolata, proprio con un’amica della moglie, costituiva un errore di vomitevole volgarità e debolezza. Debolezza appunto. Non seppe mai se quell’evento, quell’unico maledetto pomeriggio d’estate di vari anni prima, fosse una trappola tesagli proprio dalla sua Aurora, diffidente e irritata per essere stata declassata nella scala dei valori del marito. Da regina a compagna, poi collocata dopo il lavoro, quindi scalata dopo la carriera, e ancora retrocessa... Non volle indagare. Ne era uscito da perdente e non intendeva scavare in quella storia, dalla dinamica sin troppo perversa e sospetta, per capire se si fosse trattato di un’imboscata. Aveva sbagliato e tanto gli bastava.

    Tutto il resto l’avrebbe deglutito e metabolizzato il suo orgoglio.

    Al di là di questo, mai nessuna fragilità. Adesso gli si chiedeva di sedersi a quel tavolo da gioco, tentando un’assurda partita contro chi gli aveva già visto tutte le carte. Un mostro gli camminava dentro e dai polmoni si era sicuramente mosso da qualche altra parte, nell’omertosa complicità di tutti gli altri organi. Una dannata ciurma che si era ammutinata al proprio comandante e non era avvezza ad alcuna compassione.

    Quando ti convinci che nessun male riuscirà più a sfiorarti – pensava l’uomo – ecco che qualcosa ti sorprende: un ladro voleva appropriarsi del suo tempo, di quello che gli restava e l’avrebbe fatto solo per il gusto di punirlo o per legittimare il principio dei grandi numeri: tanti dovevano morire per questo male, e lui sarebbe stato fra questi. Nel suo corpo di quarantacinque anni, quell’essere letale camminava svelto ed esprimeva appieno la propria voracità. Nessuna nobile sfida, nessun faccia a faccia: si sarebbe preso il suo corpo mentre lui si divorava l’anima.

    I

    Una linea sottile di colore rosso bruno definiva il suo percorso lungo il pianerottolo del terzo piano, nel condominio in via lungomare numero quaranta. Scivolava sul pavimento con lentezza esasperante e sembrava lamentare una solitudine infinita. Un rivolo di liquido denso che avrebbe dovuto subito farsi notare, se non altro per aver vivacizzato con il suo bel colore l’anonimo pavimento di dozzinale marmo bianco e le pareti, bianche anch’esse e prive della seppur minima impronta. Una striscia sgomenta e delusa per l’assoluto disinteresse del mondo che la circondava.

    Il rivolo era giunto quasi al margine della scala. La signora Torrisi uscì sul pianerottolo, come ogni giorno, per spazzarlo e lavarlo a dovere. Che schifìo facevano queste donne delle pulizie? Lo aveva già detto più di una volta all’amministratore del condominio che ’ sti fimmini non sapivanu puliziari. Lei il pianerottolo lo voleva lindo e profumato. Lo scopava e lo lavava ogni giorno con acqua e lisoformio. Aspettava che suo marito andasse al ritrovo di Nino, in piazza, a sorbirsi quella benedetta granita di mandorle e caffè, accompagnata da una brioche e si metteva al lavoro. Quel rompicoglioni del marito non sopportava l’odore del lisoformio e così lei lo usava solo quando non le stava tra i piedi. A lei quel profumo di detergente chimico piaceva eccome, come quello di tutti i detersivi, primo fra tutti quello sprigionato dal delicato liquido che passava su tutte le superfici della cucina per farle brillare come se fossero costantemente inquadrate dalla luce di un riflettore. E di luce ce n’era tanta in quel paesino sbracato sulla costa ionica siciliana.

    Fu solo dopo averlo accidentalmente calpestato che le orme delle sue scarpe la scossero dalla lena con cui si era dedicata alle pulizie. Alzò i piedi. Le suole si erano colorate di rosso. Seguì il rivolo sino alla porta di fronte. La sorgente era nell’appartamento del professor Nocìta. La donna restò immobile davanti alla porta. Poi gettò un urlo.

    Scese di corsa le scale gridando aiuto e bussando a tutte le porte.

    I primi a giungere sul posto furono i carabinieri di un paese vicino, visto che nel paesino non c’era alcuna caserma . Il maresciallo fece sfondare la porta. Entrò per primo, seguito da altri due uomini. La folla dei condomini era stata bloccata da un altro carabiniere al pianerottolo sottostante.

    Il sottufficiale si rese subito conto che la scena che lo stava attendendo sarebbe stata sgradevole e in assoluto contrasto con la dolcezza di quella magnifica giornata di fine estate.

    Dall’ingresso si accedeva a un breve corridoio sul quale si aprivano cinque stanze. Si diresse verso quella da cui originava la lunga traccia di sangue. Ordinò ai propri uomini di non toccare nulla e di stare attenti a non calpestare il sangue. Altrimenti quei rompicoglioni del SIS se lo sarebbero mangiato vivo. Entrò fissando il pavimento e si chinò sul corpo dell’uomo anziano che giaceva sul pavimento. Con un cenno del capo si rivolse a uno dei suoi uomini. Questi capì subito che avrebbe dovuto fare un rapido giro della casa. Con un gesto d’inopportuna drammaticità, il militare mise la destra sul calcio della pistola e cominciò a girare per le stanze. Il maresciallo poggiò un ginocchio a terra e osservò in silenzio quel corpo senza vita. Toccò il polso dell’uomo, più per ossequio al protocollo che per la speranza di sentire un battito. Lo squarcio lungo la gola e la gran quantità di sangue versato erano maledettamente espliciti. Accanto al cadavere vide un rasoio a mano. Si rese conto di essere davanti alla porta finestra che dalla cucina si affacciava sul bel balcone di fronte al mare. C’era qualcosa d’insolito che lo inquietava. Qualcosa in contrasto con l’intera scena del crimine. Girò lo sguardo tutt’intorno. Scorse una moka ancora tiepida. Dentro era quasi vuota. Sul tavolo della cucina solo un piattino da caffè. A terra, il corpo senza vita di un uomo anziano, inerme, disarmato e con lo sguardo sereno.

    Una giornata illuminata dal sole sullo Stretto. La fragranza del caffè, sicuramente versato da qualche parte, una tazzina introvabile. La disarmonia tra una scena di quotidiana semplicità e la brutalità di una morte procurata da una mano esperta. Tuttavia un omicidio in qualche modo rispettoso della vittima, che non aveva avuto modo di spaventarsi, di tentare una reazione, di comprendere quel che stava per accadergli. L’espressione del viso era rimasta distesa. L’immagine che l’uomo avrebbe portato con sé nella tomba era quella delle onde dello Jonio che si poggiavano sulla spiaggia di quel paesino di mare. Le narici intrise del buon profumo del caffè. Di certo non aveva sofferto. Il cadavere era composto e dignitosamente disteso sulla ceramica azzurra del pavimento. Il maresciallo immaginò che quel crimine fosse un atto dovuto e come tale realizzato con un certo rispetto. Poi volse lo sguardo verso il suo carabiniere e decise di non esternare quelle riflessioni, generate solo dalla suggestione del momento.

    II

    Il quartiere di Librino, a Catania, è la classica testimonianza di un volo pindarico di cui è capace solo l’immaginazione di amministrazioni impudicamente visionarie, come quella che negli anni sessanta ambiva a dare una svolta allo sviluppo della città. Un progetto immaginifico che conteneva in sé grossolani errori concettuali e che quindi tradì le attese mancando le sue finalità. La progettazione prevedeva l’accoglienza di sessantamila abitanti in un sistema urbanistico moderno, basato su grandi anelli ai cui confini scivolavano strade spettacolarmente larghe, punteggiato da isole alberate, strutture sociali, scolastiche e amministrative. Librino doveva essere assolutamente autonomo dalla città. Il rischio, ampiamente sottovalutato, era quello di rendere il quartiere un satellite segregato dal resto della città.

    Siccome all’epoca le cose si volevano fare in grande, il piano particolareggiato e gli studi preliminari furono affidati al prestigioso architetto giapponese Kenzo Tange, un mito dell’architettura moderna. La presunzione di tanti politici non conosce confini così come la loro insipienza e, nel tentativo di immortalare i propri nomi nella lapide della benemerita storia cittadina, Kenzo Tange sembrò la scelta più adeguata. D’altra parte i loro predecessori, non affidarono forse all’architetto palermitano Giovan Battista Vaccarini la ricostruzione del centro storico della città, devastato dal terremoto del 1693? Non aveva Vaccarini creato uno dei complessi urbanistici e architettonici più vasti e mirabili nella storia dell’architettura barocca? E se i valenti precursori erano stati capaci di realizzare cose talmente straordinarie, loro, nel XX secolo, in pieno boom degli anni sessanta, non sarebbero stati all’altezza di fare almeno altrettanto? Anzi di più? Ma certo che sì! Allora pensarono di creare una vera new Town, e di dotare il quartiere di un’area verde di oltre trenta ettari, ideale per le gite fuori porta di tutti i loro concittadini, con tanto di salsicce e polpette di carne di cavallo al seguito. Esempio di sagacia amministrativa e di buon senso programmatico.

    Peccato che quella zona sorgesse a ridosso dell’aeroporto di Fontanarossa, per cui sosteneva un pesante inquinamento acustico. Era collocata a sud-ovest della città, troppo vicina a quartieri degradati, caratterizzati da edilizia abusiva e lontana dallo sviluppo reale della città che invece cresceva a Nord, verso i paesi alle pendici dell’Etna, da tutt’altra parte insomma. Librino quindi non sarebbe mai potuta diventare una zona residenziale di pregio. Il mancato quartiere modello finì nel tempo per dequalificarsi, grazie anche alle innumerevoli varianti, con insediamento di case popolari e cooperative edilizie. Poi iniziò l’edificazione abusiva.

    Come spesso avviene nei quartieri satellite, la popolazione era composta di famiglie operose e per bene che vivevano accanto ad altre che di buono avevano poco o niente.

    In un piccolo appartamento di un casermone in cemento armato del quartiere Librino, il giovane Pippo Mustica aspettava in silenzio una telefonata. La moglie era uscita. Doveva far visitare la bambina che da giorni era assillata da una tosse secca. Giorno e notte quella piccola di tre anni non faceva che tossire e vomitare. Avevano aspettato sin troppo tempo cercando di contrastare quel malanno solo con uno sciroppo. Adesso la cosa era diventata seria. La donna aveva alla fine deciso di andare al pronto soccorso dell’ospedale Garibaldi. Pippo non poteva accompagnarla, doveva aspettare quella maledetta telefonata all’apparecchio fisso di casa. Sapeva già di cosa si trattava e non poteva mancare quell’appuntamento mensile. Il telefono alla fine squillò.

    «Pippo, come stai?»

    «Bene.»

    «Di poche parole oggi? E che hai, incazzato sei?»

    «Sono sempre incazzato quando parlo con voi.»

    «Giovanottino, cammati... stai attento, non sbagghiari a parrari. Anche perché buone notizie porto.»

    «Dimmi.»

    «Tu devi darci i soliti calamaretti come ogni mese. Bene, ti offriamo di chiuderla qui.»

    «Come sarebbe a dire?»

    «Tu devi solo fare una cosa facile facile per noi. E non ci saranno più impegni mensili. Niente. Guarda che non è una cosa impegnativa.»

    «Non ci credo.»

    «E fai male. Sentimi bene...»

    «Sono stanco di ascoltarvi. Lo so quello che devi dirmi. Dove e quando li volete?»

    «Ehi, Pippuzzu, stai al tuo posto. Ricordati che sei poco più che un pezzente e per di più parente di uno schifoso pescatore di merda come te. Lo sai che tuo zio ci sta sulla minchia. Lui e quella specie di cesso galleggiante che usa per pescare. Hai una moglie che pare una derelitta e una figlia malandata. Vivi in una casa fitusa. Sei abbastanza nella merda.»

    «Ci sono grazie a voi. Quello che mi chiedete non posso darvelo, vi siete fatti male i calcoli, è dall’inizio che ve lo dico.»

    «Buono, stai buono che al telefono stai parlando. Non siamo qui per discutere di questo. Le decisioni prese non si discutono e se dici un’altra parola, chiudo il telefono.

    Comunque oggi porto notizie buone. In buona sostanza tu...»

    Suonarono alla porta. «Richiamami più tardi, c’è qualcuno alla porta.»

    «Stasera. Alle otto ti chiamo e fatti trovare. Ti conviene. In qualche modo puoi uscire da questa storia.»

    Si sentiva preparato a quella telefonata, sempre la stessa da mesi. Ciò nonostante la testa cominciò a dolere, la lingua si seccò e una boccata di acido gli salì su dallo stomaco alla bocca.

    Aprì la porta quasi automaticamente. La mente altrove.

    «Ciao Pippuzzu.»

    «Ciao zu Pinu, come mai sei qui?»

    «Ti ho portato un po’ di pesce. Dov’è a picciridda

    «Mia moglie l’ha portata in ospedale a farla vedere. Quella tosse non è andata via e ci siamo preoccupati. Vieni, siediti. Vedo che mi hai portato tutti i pesci del mare...»

    Zu Pinu mise la busta sul tavolo. Dai fogli di giornale ove erano avvolti, fecero capolino almeno sei pesci, spigole e luvari...

    «Mangiateveli che vi fanno bene. Tu perché non sei uscito con la barca?»

    «Veramente sono tre giorni che non esco.»

    «Allora?»

    «Io non ce la faccio a pagare questi e a uscire ogni giorno. Ai ragazzi che vengono con me devo pagare la giornata, e poi il cherosene, l’attrezzatura che si rompe. Gliel’ho detto che si sono fatti male i calcoli. Io non guadagno tanto da potergli dare tutti quei soldi.»

    «’Sti bastardi, sono cose fituse. Io non so come aiutarti. Con questi ormai sono compromesso. I miei amici erano altri e dopo che sono stati tutti arrestati anch’io sono vulnerabile. Non mi hanno ancora toccato perché ho un riferimento di cui hanno paura. Mi hanno chiesto di lavorare con loro. Mi sono rifiutato e hanno bruciato la mia bella barca, altra cosa rispetto a quella che ho adesso.»

    «Non ti devi esporre per me, zio. Anche tu sei in bilico. Lo so benissimo...»

    «Una soluzione la dobbiamo trovare. Altrimenti dovrai andartene da qui, nipote mio. Ormai si stanno mangiando la vita nostra. A loro non interessano i tuoi soldi. Vogliono che crolli e molli tutto.»

    «Non sono il solo. Uno dopo l’altro gli altri pescatori se ne sono andati o lavorano per loro.»

    «Vogliono tutto, tutto, non ti lasceranno niente, Pippo. Poi saranno solo loro a controllare la pesca locale, l’ingrosso, la pescheria. Fammici pensare per bene. Vediamo di trovare una strada.»

    Gli occhi di zu Pinu non comunicavano nulla di particolarmente positivo. Piuttosto cercavano nel vuoto di quella stanza un’ispirazione, un’idea, un segno Celeste che potesse almeno fargli tentare qualcosa in favore di quel suo adorato nipote. Negli attimi di silenzio che seguirono quella conversazione, si ricordò di quando lui metteva Pippo, bambinetto di neanche tre anni, sulla barca, da solo. Poi mollava piano piano la sagola per tre, quattro metri, quindi la tirava di nuovo a sé. Mai che quel bimbo gli avesse mostrato il minimo segno di turbamento. Il loro era un rapporto di assoluta fiducia. Io ti faccio divertire, ma tu non racconti nulla alla mamma, altrimenti non ci fa più giocare.

    «Ci penso, Pippuzzu. Stai sereno. Per adesso il pesce te lo porto io a casa.»

    Così dicendo si alzò e salutò il nipote con due baci sulle guance. Le sue non facevano alcun odore, al contrario di quelle dello zio che puzzavano di pesce e nascondevano qualche scaglietta fra i peli della barba incolta. Pippo conosceva bene quell’odore. Da sempre zu Pinu si portava dietro il lezzo di quanto pescava. Puzzi come un calamaro morto di vecchiaia sulla spiaggia gli diceva il fratello, suo padre. E tutti a ridere. Lui invece pensava che zu Pinu odorasse di mare e a lui il mare piaceva. E infatti volle fare il pescatore come lui. Brutta scelta.

    III

    Il treno Frecciarossa delle dodici fu segnalato dal tabellone elettronico al gate D, binario tredici della stazione Termini. Il colonnello della Guardia di Finanza Anselmo Quattrocchi aveva il posto 8A della carrozza Premium numero sei. Salì sul vagone cinque minuti prima della partenza e trovò la sua poltrona. Ne aveva prenotata una vicino al finestrino, rivolta nella direzione di marcia. Sistemò il borsone sulla mensola e si sedette. Le poltrone erano organizzate in coppie contrapposte. Un corridoio le divideva da un altro blocco di poltrone, disposte nello stesso modo. Abbassò la tendina laterale. A Roma splendeva un sole magnifico.

    Accanto a sé, dall’altra parte del corridoio, due anziane donne cinesi cominciarono a chiacchierare. Parlavano l’una sovrapponendosi all’altra, ad alta voce. Quattrocchi ebbe voglia di zittirle, ma desistette subito. Che diamine, non poteva mica prendersela con tutti solo perché il mondo non girava nel verso che preferiva.

    Provava a non pensare a quanto lo aspettasse a destinazione. Cercò nella mente un concetto, un ricordo, un’immagine positiva. Aveva appena concluso un’operazione su un traffico internazionale di armi che dal cuore dell’Europa si muovevano verso la Siria attraverso la Croazia. Gli sovvenne Nenè Costa, che aveva assunto il comando della cosca mafiosa all’arresto del padre, pochi anni prima. Il giovane aveva svolto un ruolo fondamentale nella gestione dell’attività criminale. Rifletté su quanto casuali molte volte possono essere

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