La parete gialla
By Luigi Bosi
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La parete gialla - Luigi Bosi
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Intro
Qualche tempo fa mi è stato fatto un dono prezioso: un vecchio foglio protocollo, un po’ ingiallito, con l’intestazione dello Stabilimento Penale dell’Isola di Santo Stefano, datato 2 marzo 1888, che riportava la supplica di un ergastolano, certo Buzzi Raffaele, indirizzata al sindaco della sua città natale, Comacchio, perché intercedesse in suo favore presso Sua Maestà Umberto I, il Re d’Italia. A me è parso giusto scrivere questa storia, del resto del tutto inventata, in memoria di un uomo infelice, uno dei tanti, che ha trascorso la maggior parte della sua esistenza fra le mura di un carcere, con davanti agli occhi una parete gialla come unico orizzonte. (L’autore)
Introduzione
Qualche tempo fa mi è stato fatto un dono prezioso: un vecchio foglio protocollo, un po’ ingiallito, con l’intestazione dello Stabilimento Penale dell’Isola di Santo Stefano, che riportava, in bella calligrafia, con errori d’ortografia e di sintassi da far paura, niente meno che la supplica di un ergastolano, certo Buzzi Raffaele, indirizzata al Sindaco della sua città natale, Comacchio, perché intercedesse a suo favore presso Sua Maestà Umberto I, Re d’Italia.
Già, proprio così! Nella lettera, datata 2 marzo 1888, il vecchio ergastolano molto ingenuamente si rivolge al suo antico compagno di pesca e amico, con molto rispetto per la verità e grande discrezione, perché convinca suo figlio Aldo Buzzi, oppure suo fratello Emilio, a intercedere presso Sua Maestà per fargli ottenere la sospirata grazia, in quanto lui di stare rinchiuso in quel luogo di pena non ne può più. Questa a suo dire è la tredicesima supplica che invia, confidando che finalmente sia quella buona.
Non è dato sapere se Buzzi Raffaele abbia scritto altre suppliche, dopo d’allora. Certo è che pure l’esito di questa non deve aver avuto maggior fortuna delle altre, se al momento della sua morte era ancora detenuto. Il decesso, a quanto risulta da una sommaria ricerca in proposito, avvenne infatti il 12 gennaio 1903, non nello Stabilimento Penale di Santo Stefano, dov’era vissuto per oltre vent’anni, ma in quello di Porto Longone, dove il Buzzi, non si sa quando, era stato trasferito.
Dagli archivi diocesani tuttora esistenti, risulta che Raffaele era nato a Comacchio il 20 aprile del 1844. Ma dagli stessi archivi nasce subito un piccolo dilemma, al quale è difficile fornire una plausibile spiegazione.
La donna a cui il Buzzi era legato, che venne poi trovata uccisa con due ferite da arma da taglio ai bordi di un canale, il 9 aprile 1867, e che pertanto risultò essere il motivo della sua condanna all’ergastolo, non si chiamava Teresa Simoni, come lui riporta nella supplica, bensì Teresa Parmiani!
Come mai questa discrepanza?… È difficile dirlo. Possibile che dopo ventuno anni di detenzione i ricordi nella mente sconvolta del povero ergastolano si fossero talmente arruffati, da fargli confondere il cognome della sua antica compagna, quella che poi divenne la sua vittima? Parrebbe proprio di sì.
Comunque siano andate le cose, a me è parso giusto scrivere questa storia, del resto del tutto inventata a parte i dati anagrafici sopra riportati, in memoria di un uomo infelice, uno dei tanti, che ha trascorso la maggior parte della sua esistenza fra le mura di un carcere, sia pure come quello per quei tempi all’avanguardia dell’Isola di Santo Stefano, con davanti agli occhi una parete gialla come unico orizzonte.
In corsivo nel testo sono riportati i brani integrali della supplica originale, svarioni compresi
. Leggendoli di seguito si può ricostruire il documento per intero.
L. B.
LA PARETE GIALLA
La violenta luce del sole, ormai prossimo al tramonto, entrava fra le sbarre della cella andando a riscaldare le gambe dell’anziano galeotto. L’uomo se ne stava seduto al piccolo tavolo d’angolo, intento a scrivere. Avvertendo il gradevole tepore, sollevò lo sguardo dal foglio che teneva davanti a sé e guardò la parete che gli stava di fronte.
Finalmente pareva rilassato. Si stava avvicinando la fine della sua fatica: la supplica poteva dirsi quasi ultimata. Più di un mese gli era costata quell’impresa, mica poco… Ma in fondo, che cosa contava il tempo per lui: niente, assolutamente niente.
Prima di rileggerla, Raffaele guardò fuori. Non c’era molto da vedere per la verità, soltanto la parete gialla e scrostata posta a protezione del ballatoio circolare che correva davanti al semicerchio delle celle, visibile attraverso le sbarre della porta. Uno schermo amorfo, immutabile negli anni, che lui del resto aveva imparato a conoscere a memoria, in ogni sua geografia che l’aria salmastra vi aveva col tempo disegnato, in ogni suo più piccolo dettaglio. Ogni crepa gli era familiare, ogni macchia d’umidità, ogni scrostatura.
Su quel muro lui aveva imparato a proiettare i suoi più reconditi pensieri, le sensazioni che avvertiva, le immagini che gli venivano da dentro e che con prepotenza si facevano strada fino ad affiorare agli occhi della mente. Erano anni che si confrontava con quella parete gialla, ventuno per l’esattezza, tanto che ormai era riuscito ad attraversarla, ad andare oltre. Era quella la sua vera evasione, la sua fuga! Per fortuna c’era riuscito, altrimenti a quest’ora per lui sarebbero stati guai seri.
L’anziano detenuto sollevò lo sguardo e fissò il muro oltre le sbarre. Quell’ora gli piaceva, gli dava un senso di pace, di grande serenità. Quasi di gioia. L’aria già intiepidiva, facendo presagire l’imminenza della fine dell’inverno. Un’altra primavera stava per sopraggiungere, con le sue innumerevoli sfumature di luci, di colori, di odori del tutto speciali che venivano dal mare lì poco lontano, invisibile dalla cella dove si trovava, ma pur sempre presente nell’aria che respirava. Lui ormai le aveva imparate a conoscere assai bene quelle sensazioni, che del resto solo su quel piccolo grumo di roccia sperduto in mezzo al mare era possibile avvertire.
Per qualche tempo ancora rimase a fissare la parete che gli stava davanti, mentre i pensieri, com’era sua abitudine, avevano preso a vagare senza una meta, perdendosi lontano. Poi l’uomo tornò a concentrarsi sul foglio di carta che teneva davanti a sé.
Lo fissò a lungo, mentre ora una vaga sensazione d’inquietudine s’insinuava nel suo animo e gli incupiva il volto, senza che lui potesse farci niente. Sarebbe finalmente servita a qualcosa, quella supplica?… Era la tredicesima che scriveva. Dov’erano andate a finire le altre dodici?… Cosa gli aveva procurato alla fine dei conti tutto quel suo darsi da fare, quel continuo affannarsi?… Che vantaggi ne aveva ricavato?
Fatti coraggio, Raffaele. Vedrai che questa volta ti daranno ascolto. Ti devono ascoltare, devono starti a sentire
. La mano di Beppe, il vecchio compagno di cella, s’era posata con delicatezza sulla sua spalla.
Da qualche tempo l’uomo, disteso sulla seconda branda, quella più in alto, teneva d’occhio Raffaele intento a ultimare la supplica. L’aveva visto interrompere il lavoro, ormai avviato verso la conclusione, e lasciare che lo sguardo si perdesse lontano, all’apparenza soddisfatto dell’opera compiuta. Pure lui a quel punto s’era compiaciuto, come se il lavoro, almeno in parte, fosse anche opera sua.
Poi aveva colto sul viso dell’amico, che lui del resto aveva imparato a conoscere come le sue tasche, un attimo di ripensamento, d’incertezza, mentre una nuova ombra d’inquietudine era affiorata suo malgrado. E subito s’era allarmato.
Sapeva bene che Raffaele non avrebbe potuto sopportare un’altra delusione, dopo le tante a cui era andato incontro! Di questo Beppe ne era consapevole. Un’ulteriore sconfitta, ancora una porta sbattuta sul muso, e il suo amico avrebbe potuto cedere di schianto. Per vent’anni e più quell’uomo aveva vissuto la sua vita di recluso, di ergastolano, nella convinzione che un giorno o l’altro ce l’avrebbe fatta a uscire da quella strana cella semicircolare, da quella specie di guscio d’uovo in cui era rinchiuso, per tornare a impossessarsi della propria libertà, della propria esistenza.
Me la farai leggere, quando l’avrai finita?
. Beppe ora fissava l’amico negli occhi. Sono certo che questa è la volta buona, vedrai!
.
A sua volta Raffaele guardò il compagno di cella e gli sorrise. Nel suo animo provò una profonda gratitudine, mista ad affetto, per quell’uomo mite che una sorte benigna gli aveva assegnato come compagno di cella per tutti quegli anni. Con lui aveva convissuto giorno dopo giorno, notte dopo notte, come con una sposa devota, per niente invadente, che in mille occasioni aveva saputo essergli d’aiuto, tendergli una mano. In quel momento sentì di volere bene a quell’uomo, un bene sincero, profondo, quasi fisico.
Grazie, Beppe. Speriamo bene… Certo che te la farò leggere: tu naturalmente sarai il primo
.
I due uomini rimasero a lungo in silenzio, a fissare entrambi il muro giallo di fronte alla cella, che la forte luce del tramonto andava a ricoprire di mille scaglie d’oro. La mano di Beppe, ora in piedi alle spalle dell’amico che se ne restava seduto al tavolo, davanti al foglio di carta pieno zeppo di parole scritte con cura, in bella calligrafia, andò a posarsi sul capo di Raffaele in una specie di fugace carezza. E quel semplice gesto di premura ancora una volta valse a rasserenare l’anziano ergastolano.
* * *
Nel tepore decisamente primaverile della bella giornata