Il drago e la Sfinge
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È sempre una creatura, un mostro delle favole.
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Il drago e la Sfinge - Ilaria Di Leva
Ilaria Di Leva e Joe Oberhausen-Valdez
Il Drago e la Sfinge
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Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
A Lina, mia madre,
una donna eccezionale, quel Drago che mi ha sempre infiammato, donato forza e speranza.
Questo libro è dedicato a te, a noi, è quel che tu avevi sempre intravisto, l’inizio del mio destino migliore.
Ilaria
Il Drago e la Sfinge
Proprietà letteraria riservata Copyright ©2018 razione ILZ
Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e delle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo romanzo può essere riprodotta e diffusa con sistemi elettronici, meccanici o di altro tipo senza l’autorizzazione scritta del collettivo razione ILZ.
Autore: Ilaria Di Leva e Joe Oberhausen-Valdez
Copertina: Alessandro De Felice
Editing e Revisione: Ilaria Di Leva e Joe Oberhausen-Valdez
Impaginazione digitale e cartacea: Alessandro De Felice
Questo libro è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale.
Sito web : www.ilovezombie.it/
Pagina Facebook : www.facebook.com/collettivo.ilz/
Prefazione degli autori
Questa raccolta è un inno all’Amicizia, è lo stupore di incontrarsi in un luogo magico, che non è un posto reale, non una piazza, non una festa, ma un viaggio di due animi, distinti e separati da anni, distanze e tempo, di una donna e di un uomo che non si conoscevano ma che si sono trovati al momento giusto e all’improvviso
nella passione della scrittura, in cui imprimono svariate delusioni passate e speranze future.
Vari racconti, diversi per composizione e stile, intrisi di una malinconia che spesso sembra inarrestabile e invincibile, ma che alla fine viene sconfitta dal desiderio di approdare incolumi all’altra sponda, una meta qualsiasi che diviene la rinata consapevolezza che quest’unica vita caduca, rara e irripetibile, merita di essere amata con tutto l’ardore possibile, assaporandola in ogni istante, anche e soprattutto in quello che potrebbe avere la parvenza della delusione, dello sconforto.
Le storie sono crepuscolari, autobiografiche, sentimentali, introspettive, costruite su un’inquietudine che viene sempre sconfitta dall’autoironia dei personaggi o degli stessi scrittori, dalla loro indomita forza interiore. Sono collegati da una catarsi senza frontiere, da una palingenesi che va al di là del tempo percepito come uragano travolgente che tutto trascina via.
Pagina dopo pagina, il lettore si sprofonderà nell'anima ormai manifesta di una donna (o di un uomo) delicata, fragile e forte allo stesso tempo, dalla quale scaturiscono limpide… la gentilezza, la purezza, l'umanità di chi percepisce ogni singolo palpito della propria esistenza come transeunte e irripetibile, spaziando dal lontano passato al futuro più prossimo.
Vi si leggono le speranze, i dolori, i sogni, le sofferenze, le gioie, il desiderio di momenti che anelano di essere gustati con maggiore potenza. Il soffio vitale è adesso, con tutto il suo carico di afflizioni, dolori, dissapori, tribolazioni, ma anche con la sua allegria, felicità, dolcezza, euforia e soprattutto estasi.
Uniche fonti di energia: l'amore, che è passeggero e, soprattutto, l'amicizia infinita, che dura al di là del destino e della fine. Si risorge sempre da ogni sconfitta e si torna rinati con la consapevolezza che si sarà ancora più decisi, con più forza e passione. Si ritorna a rivivere le stesse emozioni di sempre, perché siamo destinati e allevati ad assaporare tutto quello che quest'unica landa desolata, ma anche rara e delicata, ci offrirà. È il varco che apre la strada alla felicità.
Il mondo non è magico, ma lo diviene in un campo di battaglia tra fate e demoni. Entrambi sono la stessa persona, lo stesso nemico, la stessa caverna, lo stesso precipizio che è sempre una voragine per uomini e donne, Draghi e Sfingi. Ma al di sopra di loro si erge la dinamica del risveglio
, l'unica cosa che in questo cammino conta nella trasformazione della propria rinascita, da ogni croce, soprattutto dalla propria, in cui ci si autoimmola. La vita è adesso, hic et nunc. Dentro soffocavamo, fuori saremo luce e fiamma.
Il susseguirsi dei racconti è drammatico, catartico, è il manifesto romantico e indiscusso del genio che si innalza sprezzante al di sopra di un vivere dozzinale. Il sentimento è tutto
, il solo mondo possibile, ma anche la Caina degli scrittori, specchio e spelonca in cui scontare i propri dolori. È l’atto demiurgico che atterra e suscita, pasce emozioni, le affanna e le detona, nell’impeto di un divenire di ricerca estetica. È lo sguardo interiore, dilaniato da artigli delicatissimi, che urla una sensualità metafisica, s’infiamma e si ricrea, nell’attesa dell’impossibile, travalicando persino il qui e ora. Un tuffo nel baratro della libertaria comprensione dell’essere e del nulla, da cui si risorge alati. Un’altra maschera, in volo solitario ai margini della solitudine, il labirinto delle proprie ceneri.
Le ambientazioni e i personaggi sono avvolti dalla fantasia, dal remoto e dall’impossibile. L’allegoria e il surreale divengono cavalieri al servizio di un mondo favoloso e incantato, in cui non compaiono principi e belle addormentate
, ma creature solitarie e mostri primigeni, laidi e squamati, che mutano in ninfe e demiurghi, in una metamorfosi irreversibile. Vi aleggia il fuoco della passione, che rifulge tra caverne e boschi dell’animo, sperduti in un universo fuori dal tempo reale, sovrastato e ammaliato da una luna inalterabile e splendente, o da un sole che sempre dà il via a una nuova epoca. Siamo oscurità che diventa sempre Luce.
Deliri, sogni, incomprensioni di due scrittori in aperto contrasto con l’illusione del vero, immersi nelle continue diatribe silenti coi propri demoni. In ogni riga si librano amore, amarezza, reminiscenze e riscatto, l’aspra realtà, decantazione di animi immiscibili, l’attesa divorata dall’eterna solitudine, fiori che anelano alla primavera.
Una valle di emozioni, che si allarga fino a diventare un deserto infinito, fino agli abissi della nascosta gioia, nel profondo della propria grotta in fiore. Due entità che si sono ritrovate nell’ombra dell’incomprensione.
Il tormento di una Sfinge che si erge, superba, al di sopra di una realtà che non è mai all'altezza delle sue aspettative e ritrova, nel silenzio del suo oscuro abisso, la meraviglia e la straordinarietà che non sapeva di avere. Un pozzo nel deserto.
Il tormento di un Drago che alla fine si allontana radioso con le sue ali da un mondo che non lo capirà mai. È sempre una creatura, un mostro delle favole.
Ilaria Di Leva
Joe Oberhausen-Valdez
Un’anima piena e potente non soltanto viene a capo di perdite, privazioni, rapine, insulti dolorosi e magari terribili, ma esce da simili inferni con una pienezza e potenza maggiore e – cosa più essenziale – avendo rinnovato e accresciuto la gioia di amare
.
F. Nietzsche
Il drago e la sfinge
di Ilaria Di Leva
Un drago chiuso in una grotta buia, distante duecento metri dalla luce del sole
. È così che rispose una misteriosa creatura mitologica, venuta da chissà dove, alla mia domanda Che pensi di me?
Beh… come darle torto… Io sono davvero un mostro con la lingua di fuoco che si nasconde da tutto e tutti, forse per non atterrire i cosiddetti normali
o, più probabilmente, per non esserne spaventata… io. Lui mi osservò, con due occhi che sembravano glaciali, immateriali, ma erano caldi e penetranti, e mi sprofondarono in uno stallo senza tempo. E poi mi disse: La tua bellezza è un’aquila che mi artiglia all’infinito
. Non si riferiva alla grazia del mio volto o alla mia figura sinuosa. Era già oltre.
Sono sempre stata strana. Da piccola mi pisciavo addosso. A scuola odiavo andare alla lavagna, ricordo gli occhi dei miei compagni che mi fissavano e io che tremavo come una foglia.
Una volta la maestra ci sottopose un banalissimo quesito di grammatica, sbagliarono tutti, io avrei saputo risolverlo ma mi adeguai all’errore comune, almeno nessuno mi avrebbe notata. Già allora l’umanità mi appariva di una noia mortale. Avevo gli occhiali, l’apparecchio ai denti, ero pallida e smunta, con le occhiaie di un panda. Un mostro in tutti i sensi. Il mio amichetto immaginario era un certo Alighieri, leggevo la sua opera magistralis senza capirci un fico secco. Gli dicevo: Dante, qualsiasi cosa sia questa selva oscura, mi piace assai, ne riparliamo tra qualche anno
. Difatti, poi, diventammo molto intimi, quando iniziai gli studi classici.
Un giorno mia madre mi regalò una bici, lei era contentissima, io la osservai schifata. Per quale assurda ragione aveva pensato che potesse interessarmi quell’aggeggio? Non ci sono mai salita, era rosa, orribile, come un lampadario in ferro battuto.
Ero affetta da onicofagia cronica, le mie unghie erano sempre sanguinanti, io me ne compiacevo, mi autopunivo per la mia asocialità, sapevo di essere una bambina bizzarra e che tutti ridevano del mio essere eteroclito. Eppure ai miei occhi erano loro quelli inverosimili, innaturali.
Nella mia solitudine ci stavo benissimo. L’unico che tolleravo era Pietro, un bamboccio coi capelli ricci, pazzo come me. La mattina andavamo insieme a scuola. Ogni giorno la stessa routine: lo vedevo spuntare da lontano, infagottato nel suo grembiulino blu, che si ribellava alla madre, rea di costringerlo all’insopportabile vita da scolaro perbene; scalciava come un pony imbizzarrito, le sputava amorevolmente in faccia e, sconsolato, si dirigeva verso di me, che lo aspettavo seduta su una panchina. Mi prendeva per mano rassegnato, coraggio, andiamo
mi ripeteva, con un ritornello quotidiano.
Io e Pietro ci volevamo bene. Era un orsacchiotto grassottello, mangiava come un ossesso, io inorridivo nel vederlo rimpinzarsi come un tacchino, così distoglievo lo sguardo per non urtare la mia sensibilità gastrica. Era perennemente incazzato, bestemmiava come un adulto, ma non osavo contraddirlo quando dava di matto, perché temevo mi scatarrasse in faccia e, in fondo, non volevo alterare il suo equilibrio che sapevo fragile, come il mio. Lui faceva lo stesso con me, mi guardava le spalle e tirava pugni agli infanti bulletti che mi sbeffeggiavano. La nostra era una sorta di compassione reciproca, in senso letterale, soffrivamo insieme, ci difendevamo vicendevolmente in quel mondo che avvertivamo come ostile, incapace di accogliere due alieni come noi. Chissà che fine ha fatto.
Poi gli anni del liceo. Dovevo cambiare, fingermi normale, non potevo andare avanti con la mia condotta anacoretica. Con quella faccia da reietta mi avrebbero asfaltata all’istante, non ce l’avrei fatta senza il mio prode cavaliere Pietro il Cicciottello, dovevo trovare il modo di sopravvivere nel girone infernale che mi apprestavo ad esplorare. Del resto giocavo in campo neutro, lontano dalla periferia infetta, nessuno avrebbe potuto aver contezza della mia infanzia difficile e che stavo solo recitando un copione a soggetto. Intanto mi erano spuntate pure le tette. Bene! pensai, un’arma in più. Iniziai a vestirmi e truccarmi come una giovane squillo, guardandomi allo specchio non potevo evitare di biasimarmi per quanto fossi ridicola travestita
da donna. Però qualcosa cominciava a funzionare… in poco tempo la particella di sodio diventò un’acqua minerale di tutto rispetto, invidiata dalle femmine, venerata dai maschi. Lo consideravo il mio riscatto dopo gli anni del Grande Disagio
.
Ero diventata bellissima, popolare finalmente ma, dentro, restavo ancora una povera Crista. Una sfigata misantropa. Odiavo i miei amici, tutti troppo ignoranti e infantili, pure i miei fratelli, tre ragazzetti vomitevoli che puzzavano di sesso acerbo e segaiolo. Sfidavo gli insegnanti che mi idolatravano come una divinità della sapienza ma senza volontà, un genio in potenza, distratto e arrogante. Mi piaceva studiare, ma non digerivo il dover dimostrare a qualcuno il mio grado di cultura, quale lobbistico ricettacolo di vuota retorica, lo consideravo un vanto inutile, un esercizio di stile.
Ed io non ho uno stile, io vado per i cazzi miei.
Leggevo quantità vergognose di libri, li divoravo come in preda ad una voglia disperata di scoprire mondi alternativi al mio, tra quelle pagine cercavo un conforto, un guizzo di vita, di immaginaria follia, quella stessa insania che sapevo di avere dentro, ma che tenevo nascosta perché ne avevo paura.
Mi sono sempre sentita vagamente inadatta, a disagio in mezzo alle persone, comparse senza dote.
Con il tempo ho trovato una pseudodimensione nel mondo, una terra non mia. Fingo simpatia, senza alcuna empatia. Non mi piace il genere umano, non lo capisco e non mi interessa esserne compresa. Semplicemente non ci apparteniamo.
Io sono il Caos, da cui tutto sorge e dove tutto termina. Dentro soffoco, fuori mi perdo. Cerco ardentemente la luce, ma sono attratta dalle tenebre. Un mistero insondabile che attira e spaventa. Un universo paradossale e vagamente apocalittico. Una creatura mostruosa, un esperimento divino riuscito a metà, oppure troppo… Una creazione eccelsa. Ecco cosa sono.
È venerdì sera. Mi tocca prepararmi per la farsa, la recita dell’ordinario. Mi ci sto abituando, ormai mi riesce persino naturale. Metto un tubino nero, tacchi a spillo. Mi guardo allo specchio, con il rossetto rosso fuoco sento di poter conquistare il mondo. Sono pronta per la festa, non so neanche di chi e dove… poco importa. Lo schema è sempre lo stesso. Zombie che trascorrono il tempo tra fatuità e sterile vanità, un teatrino confuso ed annoiato, che fa dell’ipocrisia la propria maschera abituale. Avatars che vivono a ritmi incessanti, quasi in preda ad un isterico horror vacui
, solo perché rallentare li costringerebbe a pensare e non porterebbe che a dover ammettere una sola, ineluttabile verità: quella bella vita, fatta di coriandoli e candeline sparascintille, non è altro che una commedia della solitudine, dietro c’è il Nulla.
Mentre le salme si dimenano in pista, esco sul terrazzo. Accendo la mia Winston Blue, alzo gli occhi al cielo e vedo lei, la luna, che mi sorride beffarda. Lei mi conosce, ci parlo spesso, e si prende gioco di me. Come ti sei conciata, Ilariù? Tu non sei come loro, quando lo capirai?
. Già… chi sono, che faccio? Me lo chiedo da sempre. Le solite, inutili domande retoriche che mi provocano orticaria papulosa diffusa. Poi la vedo sparire dietro una nuvoletta… no, è solo il fumo della mia sigaretta. Hai ragione tu, Luna storta, non lo voglio accettare il fato. La verità è che tutto mi annoia. La solitudine, la compagnia, il giorno, la notte.
Una mano sulla spalla mi ridesta dal mio torpore. È Jessica, la mia amica botoxofila, un rospo tirato a lucido a suon di acido ialuronico, genuina come una rapa coltivata sotto serra. Che fai qui fuori, tutta sola? Sempre a cercare l’infinito oltre l’orizzonte?! Uff – gonfia le gote – che palle… Dai, andiamo dentro, ci sono un paio di tipi niente male
. Costoro sono delle forme di vita ectoplasmatiche, allevate a steroidi. Purtroppo il profumo di gelsomino selvatico che emanano non è