Le bare di granito
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Con la prefazione di Felice Pozzo.
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Book preview
Le bare di granito - Calogero Ciancimino
Generi
6
Calogero Ciancimino
Le bare di granito
Ebook design: Cristina Barone
Copertina di Riccardo Fabiani
Titolo originale: Le bare di granito
Autore: Calogero Ciancimino
isbn: 9788894073881
© 2018 Cliquot edizioni s.r.l.
via dei Ramni, 26 – 00185 Roma
P.Iva 14791841001
www.cliquot.it
cliquot@cliquot.it
Prefazione
Calogero Ciancimino è scivolato nel dimenticatoio, nonostante i reiterati tentativi di rinverdirne la memoria. Questo è un tentativo nuovo, si capisce, ma senza troppe pretese e, come gli altri, dovuto alle attenzioni che merita un autore parimenti senza pretese eppure degno di una sosta e di considerazioni, tanto più se contestualizzato nell’epoca in cui operò.
In fondo stiamo parlando di uno scrittore alla buona, veloce nella realizzazione del proprio lavoro, che era fondamentalmente d’intrattenimento. Se si escludono tre libri riferiti al primo conflitto mondiale sopra e sotto i mari (trattano di sommergibili, incrociatori e corazzate), i suoi romanzi, una dozzina circa, sono di avventure. Di ogni genere, dal western alla fantascienza. E per di più tutti scritti in circa quattro anni, tra il 1932 e il 1935.
Nato a Sciacca il 14 marzo 1899, morì prematuramente il 14 gennaio 1936.
Stava pubblicando a puntate su «La Tribuna Illustrata» il romanzo fantascientifico Come si fermò la Terra.
Soltanto quattro anni prima, appunto, aveva esordito con La nave senza nome, iniziato durante i primi anni di navigazione, poiché fu capitano marittimo. Molto tempo dopo, nel 1945, i suoi eredi ne curarono la stampa della sesta edizione, addirittura dopo aver dato vita a Milano a una Casa Editrice Ciancimino che avrebbe dovuto riproporre tutti i suoi lavori. E al 20 luglio 1945 risale appunto la seconda edizione de Le bare di granito edita da quella casa editrice con illustrazioni di Cossio.
In quei pochi anni di operosa scrittura, quando l’avventura di carta cercava, non senza fatica, di svincolarsi definitivamente dal salgarismo, Calogero Ciancimino aveva incrociato le fantasiose iniziative di un autore alla moda, Luigi Motta, che se non si faceva problemi a firmare opere affiancando la propria firma a quella del grande Emilio Salgari, naturalmente già defunto da tempo, allo stesso modo trovava il sistema per rinverdire la propria fantasia accordandosi con le nuove leve del genere avventuroso.
Fu così che, tra l’altro, nacquero le interminabili avventure di un improbabile figlio segreto di Buffalo Bill, stampate a Milano.
Uno scrittore alla buona, si è detto, ma dotato di carisma, fantasia, visuali innovative.
È così che, se non vogliamo credere troppo alle coincidenze (anche esse troppe), con tutta probabilità il suo Paolo Berri, che ritroveremo in queste pagine, anticipò in qualche modo James Bond.
E questa è una storia che ho già raccontato molte volte altrove.
Felice Pozzo
Capitolo I
L’inutile scoperta di un cronista
Per quanto sembri strano, in una metropoli come Londra, che conta oltre otto milioni di abitanti, un cronista qualunque, per un caso fortuito, scoprì l’assenza inspiegabile di due uomini di larga notorietà: uno era il medico italiano Paolo Berri, stabilitosi in quella mostruosa città da vari anni, ove, con fortuna e successo, vi esercitava la sua professione. L’altro era lo scienziato Benson, amico del primo e libero docente all’Università, sezione di chimica pura, e insegnante di patologia in una delle undici scuole annesse agli ospedali.
Il cronista, un oscuro imbrattacarte di un ancora più oscuro periodico, per quel caso fortuito balzò alla luce, si può dire da un giorno all’altro, perché la cosa fece chiasso e se ne dovettero interessare anche i principali quotidiani. Ecco, all’incirca, come si erano svolti i fatti:
Woter (il cronista) per un persistente mal di capo si era deciso a spendere cinque scellini per farsi visitare da Berri, ma non avendolo trovato per tre o quattro volte di seguito era stato anzi mandato, con malgarbo dal cameriere del medico dal professore Benson. Il cameriere, il quale sapeva che il padrone non poteva venire, trovandosi molto lontano, non avrebbe sospettalo mai che la sua beffa avesse potuto avere quelle conseguenze.
Mister Woter, andando a trovare il prof. Benson, ebbe l’identico risultato, cioè quello di non trovarlo. La sua fantasia di cronista, di persona che voleva vedere nero a tutti i costi là ove c’era il più vago color di rosa, cominciò ad almanaccare sull’inspiegabile mistero di quella doppia assenza.
A forza d’indagini riuscì a scoprire che i due uomini erano partiti nel mese di gennaio, per ignota destinazione. Ma siccome quella partenza non era stata rigorosamente accertata, con la massima disinvoltura arguì che doveva trattarsi di qualche orrendo delitto, di cui la colpa doveva attribuirsi al cameriere Leonardo oppure a quello di Benson.
Dopo vari tentennamenti, il direttore dell’oscurissimo periodico acconsentì a fargli pubblicare una ventina di righe; una specie d’invito alla polizia per interessarsi della faccenda.
E poiché il silenzio della polizia continuava imperturbabile, gli articoli divennero più lunghi e più numerosi, sino a quando provocarono l’interessamento, sia pure riluttante, di quotidiani più importanti.
La cosa faceva rumore e aveva già l’aria di un insondabile mistero; il cronista gongolava per la sua scoperta, e si accorgeva, non senza orgoglio che il direttore, dal giorno in cui era incominciata la vicenda, lo guardava con altro occhio, principalmente per il fatto che l’amministratore, eternamente in lite con i fornitori e con i tipografi, vedeva aumentare la tiratura del periodico, con un ritmo sensibilmente accelerato.
Dopo una quindicina di giorni, il capo della polizia cominciò a preoccuparsi anch’esso per le lettere che gli pervenivano sempre più numerose e non scritte certamente tutte con un tono candido o angelico.
Finalmente, quando due o tre quotidiani pubblicarono una lettera aperta, diretta al Ministero degli interni, per svelare quello che già chiamavano il Caso Berri e Benson
, fu dato alle stampe dalla suprema autorità della polizia il seguente comunicato:
Il medico italiano mister Paolo Berri e lo scienziato Benson sono periti in Cina, a Shanghai, in una sciagura automobilistica. Si trovavano là in missione scientifica segreta, per tentare la scoperta di un prodotto che doveva rivoluzionare la scienza medica e di cui non sappiamo la qualità e la natura.
Lo scopo di mantenere il segreto aveva avuto origine dal fatto che un’altra nazione tentava la scoperta per suo conto e contava di arrivare per prima, naturalmente.
La notizia della morte ci è stata comunicata dal nostro console questa mattina; ignoriamo i particolari del disastro.
Quel comunicato, pur essendo alquanto oscuro, ebbe però il potere di placare subito l’opinione pubblica e dopo qualche giorno l’affare era stato completamente dimenticato.
Quello che vi aveva guadagnato – non si può negare che il merito di quella scoperta era soltanto suo – era stato Woter, promosso corrispondente ordinario, con un buon mensile e in prospettiva di essere assunto da un periodico più serio, che almeno gli avrebbe reso tranquillo il nebuloso avvenire.
Però, la scoperta del cronista era stata inutile o addirittura dannosa. Il medico Berri e il prof. Benson erano vivi, carichi di salute e nascosti nella stessa città di Londra.
Tornati loro malgrado dalla Cina, insieme all’ispettore di polizia Jacobson, in seguito a tutte le traversie subite, si misero d’accordo tutti e tre per far credere al mondo di essere morti.
Il nemico invisibile e potente, quello che personificava la paurosa Sfinge Gialla, sapendoli morti sarebbe stato più tranquillo e quindi più facilmente catturabile.
Quel nemico, ch’era riuscito a scoprirli, a pedinarli per tre mesi e che alfine li aveva presi, che li aveva murati vivi in una galleria sotterranea, in quel momento era sicuro della loro morte.
In quel pomeriggio di primavera avanzata, Berri, Benson e Jacobson parlavano con calma delle nuove ricerche che avrebbero intrapreso e sulla loro partenza imminente per Shanghai, luogo ove Fu-Mang-Yu, il misterioso individuo che reggeva le fila della sua potentissima organizzazione per nuocere alla razza bianca, padrone di un ritrovato chimico da lui inventato e mediante il quale la vittima si trasformava in un altro essere, in un mostro di perversità e di turpitudine; si trasformava in un essere con un nuovo cervello, di cui ogni cellula lavorava per il male e per il delitto.
Il luogo ove si nascondevano i tre uomini era una casa isolata, alla periferia, appartenente alla polizia segreta, al corrente di tutte le loro avventure. Lo stesso capo supremo era personalmente interessato allo svolgersi degli avvenimenti e poiché si trattava di un affare della più vasta e grave importanza, tutti i mezzi di difesa e di offesa, in potere dell’umana possibilità, erano stati messi a disposizione di quei tre uomini, tutti presi dalla loro grande missione, in lotta da soli contro una organizzazione che probabilmente contava migliaia di affiliati.
La preoccupazione allucinante del dottor Berri era la sua fidanzata, Dolly, catturata dal nemico, sottoposta al processo della morte apparente
, mediante l’iniezione di quel terribile prodotto che a un anno di distanza l’avrebbe trasformata in una creatura mostruosa, in un’altra Dolly che non lo avrebbe riconosciuto e che sarebbe rimasta asservita ai voleri di Fu-Mang-Yu.
L’ispettore Jacobson riprese il discorso che aveva interrotto per prepararsi una bibita.
«Quell’imbecille di cronista voleva fare sapere a tutti i costi al nostro nemico che noi siamo vivi e più agguerriti di prima. Ora, poiché, suppongo, Fu-Mang-Yu ci crede all’altro mondo, dobbiamo riprendere la lotta al più presto, prendendolo nel suo covo stesso, prima che lo abbandoni.»
«Covo che ancora non conosciamo» osservò Berri.
«Conosciamo la zona e ciò per il momento ci basta; con un buon servizio di osservazione aerea lo scopriremo senza dubbio; intanto, con ogni probabilità, quasi con certezza, sappiamo che questo covo si trova a una distanza media di cinquecento miglia da Shanghai, in una delle isole giapponesi di Riu-Kiu.»
«Quando partiremo?»
«Fra qualche giorno; appena il mio capo avrà disposto le cose in modo da poterci dare un aiuto immediato, anche a Scianghai, con grandi mezzi, per catturare definitivamente Fu-Mang-Yu.»
«Se lo cattureremo…»
«Una sola ipotesi lo potrebbe fare fuggire.»
«Quale?»
«La nostra morte; forse nemmeno questa perché se cadremo, altri continueranno, prendendo il nostro posto, il servizio segreto provvederà a farci sostituire opportunamente.»
«Non pensiamo a questa lugubre eventualità» intervenne Benson. «Dovremo vincere su tutta la linea, riguadagnare il tempo che abbiamo perduto, sia pure contro la nostra volontà, salvare le vittime che sono in potere di quel mostro!»
«Dolly!» sussurrò con pena Berri.
«E tutti gli altri!»
Quando cominciò l’oscurità i tre uomini uscirono dal loro nascondiglio, truccati in modo irriconoscibile, e si avviarono in un modesto ristorante.
Era perfettamente vero che Fu-Mang-Yu, almeno sino a quel momento, li credeva morti, murati là, a Scianghai, in una galleria sotterranea; ma è anche vero che il suo programma seguiva il suo normale sviluppo e che a Londra i suoi affiliati lavoravano in modo speciale.
Capitolo II
La sparizione di sir Kingston
L’incredibile notizia fu appresa dal capo del servizio segreto il mattino seguente all’accaduto.
Il notaio, l’amico dello scienziato, alle otto si presentò a uno degli uscieri di Scotland Yard.
«Ho urgente bisogno di parlare col vostro capo.»
L’agente lo squadrò da cima a fondo e non persuaso da quell’esame superficiale, gli disse:
«Il capo non c’è».
«Non c’è?»
«No.»
«Se non ne siete sicuro, andate a vedere perché si tratta di cosa di estrema importanza; io sono il notaio Watt.»
«Perché non avete telefonato, annunziando prima la vostra visita?»
«Non l’ho creduto opportuno; voi non potete capire; vi prego, quindi, di non farmi perdere altro tempo e di farmi andare dal vostro Capo.»
L’agente nicchiò ancora; si trovava in un bivio per lui preoccupante: se il capo fosse stato disturbato per qualche cosa d’importanza relativa (la sua esperienza gl’insegnava che chiunque ricorreva alla polizia o al servizio segreto, specie a quest’ultimo, aveva sempre da comunicare cose d’estrema importanza che poi, in massima parte, erano inezie) avrebbe avuto una punizione o, nella migliore delle ipotesi, un sonoro rimprovero. Se invece la cosa fosse stata veramente importante e non avesse introdotto il notaio, agli effetti della sua carriera e del suo fiuto
l’affare sarebbe stato ben più grave.
«Non potreste parlare a qualche ispettore?» lo interrogò, con un ultimo dubbio.
«No, personalmente col capo e voi non perderete nulla a telefonare.»
«Va bene, telefonerò; sedetevi.»
L’agente prese in mano la cornetta con una certa ansia e appena pronunziò il nome del notaio Watt gli giunse la voce del capo:
«Cosa aspettate a introdurlo, imbecille?».
E la comunicazione fu tolta repentinamente. L’agente sentì un sudorino gelido lungo le tempie e con voce roca disse rivolto al notaio:
«Potevate dirlo prima che conoscevate il capo!».
«Non l’ho mai visto.»
«Insomma che eravate sicuro d’essere ricevuto…»
«Andiamo, andiamo…»
«Andiamo» ripeté come un’eco, con voce afona il povero agente. «O cotta o cruda, quello che ci va di mezzo sono sempre io!»
Appena il notaio si presentò davanti l’uscio, il capo si alzò dalla sua ampia poltrona, andandogli incontro e stringendogli vigorosamente la mano. Mr Watt, dopo avere risposto a quell’effusione con altrettanto calore, dopo essersi seduto, dette la notizia con poche parole:
«Hanno rubato il corpo del baronetto Kingston».
Il capo