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Il cavaliere con gli stivali azzurri
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Il cavaliere con gli stivali azzurri

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About this ebook

Un paio di stivali azzurri, una cravatta a forma di aquila e una bacchetta adorna di un tintinnante sonaglio. Sono questi gli oggetti con cui il misterioso duca della Gloria semina lo sgomento nella città di Madrid. Nessuno sembra resistere al suo fascino ammaliatore e ai suoi strani e inquietanti poteri. Tutti rimangono abbagliati e confusi. Ma quali sono le vere intenzioni del duca? Conquistare i cuori delle donne, ridurre in schiavitù la mente degli uomini? Niente di tutto questo. Il duca ha in serbo un piano molto più elaborato: il salvataggio della letteratura…Considerato dalla critica il più interessante tra i romanzi scritti da Rosalía de Castro e rimasto finora inedito in Italia, Il cavaliere con gli stivali azzurri è un’opera dal sapore hoffmanniano che cela dentro l’argomento fantastico della trama un’acuta e tagliente critica alle contraddizioni della società spagnola del periodo.
LanguageItaliano
PublisherCliquot
Release dateJun 11, 2018
ISBN9788894073850
Il cavaliere con gli stivali azzurri

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    Il cavaliere con gli stivali azzurri - Rosalía de Castro

    Biblioteca

    2

    Rosalía de Castro

    Il cavaliere con gli stivali azzurri

    Traduzione di Alessia Ciuffreda

    Copertina di Riccardo Fabiani

    Ebook design: Fabio Fertig

    Titolo originale: El caballero de las botas azules

    Autore: Rosalía de Castro

    Traduzione: Alessia Ciuffreda

    ISBN: 9788894073850

    © 2018 Cliquot edizioni s.r.l.

    via dei Ramni, 26 – 00185 Roma

    P.Iva 14791841001

    www.cliquot.it

    cliquot@cliquot.it

    Un uomo e una musa

    I

    Uomo: «Poiché sei giunta al mio richiamo, musa, ascoltami attenta e propizia e fa’ che si avveri il mio desiderio più fervido.»

    Musa (nascosta dietro una spessa nube): «Parla, e che il tuo linguaggio sia quello della sincerità. La mia vista è di lince.»

    Uomo: «Così potrai comprendere meglio l’idea che mi ha condotto qui. Eppure vorrei che lo spesso fumo che ti avvolge si dissolvesse. Perché tutta questa ritrosia? Non posso forse vedere il tuo volto?»

    Musa: «Non sono timida, ma prudente. Quando ti sarai abituato al suono della mia voce potrai vedermi. Intanto dimmi cosa vuoi.»

    Uomo: «Persino le muse sono vanitose!»

    Musa: «Tieni presente che sono una musa, non una signora, e non dobbiamo perdere tempo in chiacchiere.»

    Uomo: «Che cosa stupida!… ma obbedirò, come prova della sottomissione che ti devo. Voglio che la mia voce si faccia sentire, in mezzo alla folla, come la voce del tuono che sovrasta con il suo rombo tutti i tumulti della Terra; voglio che il mio nome corra di città in città, di paese in paese, preceduto dalla sua fama e che non smettano di ripeterlo le generazioni future, col passare dei secoli.»

    Musa: «Sciocco desiderio di gloria postuma, il cui soffio leggero passerà indifferente sulla polvere riversa delle tue ossa! Bada al presente e smetti di pensare al futuro che per te è come se non dovesse esistere.»

    Uomo: «Proprio tu, musa, che ho invocato pieno di fervida fede, mi consigli di dimenticare ciò che di più caro esiste per un’anima desiderosa di gloria? A cosa serve allora l’ispirazione del poeta?»

    Musa: «Che sciocche preoccupazioni! L’unico bene è quello che si può toccare; ciò che dopo la morte accade nel mondo dei vivi non è nulla per chi ha oltrepassato la soglia dell’eternità.»

    Uomo: «Cosa sentono le mie orecchie? Colei nella quale nutro ogni speranza osa chiamare nulla la scia di luce che il genio lascia dietro di sé? La gloria postuma, anche questa è una bugia?»

    Musa: «Smettila! Smettila… se vuoi essere un mio protetto! Non so nulla di glorie postume né di scie di luce. Il potere che esercito sui vani pensieri degli uomini termina ai piedi della tomba.»

    Uomo: «Mi sento confuso. Che risposte… che livore, che prosa indegna! Tu non sei una musa, ma una gran mascalzona, ne sono certo come sono certo di discendere da Adamo.»

    Musa: «Tanta sincerità è poco galante, e di cattivo gusto in bocca a un genio.»

    Uomo: «Sei anche ironica? Da quale schiatta discendi, divinità sconosciuta? Assomigli forse alle altre muse candide, profumate e dolci come il miele? Dovrò piangere le mie vecchie amiche che, ingrato, ho rinnegato per seguire te?»

    Musa: «Tu, piangere? Come se quegli occhi abituati ad affrontare le ire dei tiranni potessero versare il fuoco di dolore che il cuore dell’uomo produce solamente in momenti supremi?»

    Uomo: «Furba! Le lacrime sono patrimonio di tutti.»

    Musa: «Sia, mio piccolo Geremia; ma tu sai che sei venuto da me stanco di percorrere i sentieri del Parnaso. Lì, il suono vibrante delle corde dell’arpa, la lira armoniosa, l’eco del flauto, il mormorio dei ruscelli e il canto mattutino degli uccelli avevano reso così debole il tuo cuore, così spossato il tuo animo e così molle e titubante il tuo spirito che, povero malato, sentendo che la vita ti stava lasciando, ti sei rivolto ansioso a me per respirare il venticello rigeneratore che producevo con le mie ali invisibili.»

    Uomo: «Una musa con le ali!»

    Musa: «Chiamali ventagli o soffietti se preferisci. Il nome non è importante.»

    Uomo: «Orrore! Abominio!»

    Musa: «Che stupido da parte tua! Cerchi la mia protezione eppure non sai abbandonare le vecchie preoccupazioni. Ma, ti avverto per l’ultima volta, se desideri essere mio alleato, devi smettere di interessarti alle parole e concentrarti solo sui fatti, devi rompere con tutto ciò che è stato, perché mal si adatteranno al tuo nuovo vestito i brandelli di quello vecchio.»

    Uomo: «Chiunque direbbe udendoti, bizzarra divinità, che stai per rigenerare il mondo.»

    Musa: «Uomo geniale: chiedo ai miei discepoli che siano meno chiacchieroni e più obbedienti e sommessi; di’, una volta per tutte, se desideri consegnarti a me con l’ardore di una fede sincera e la lealtà più pura.»

    Uomo: «Osi anche chiedere fervore e lealtà, quando sembri l’antitesi di ciò che offre respiro e poesia al cuore dell’uomo?»

    Musa (allontanandosi): «Continua, allora, a percorrere il tuo vecchio cammino, mortale ostinato, incorreggibile e che insiste in errori passati e in vecchi vizi, e non tornare a importunarmi. Un altro più fortunato di te domani sarà colui che…»

    Uomo (interrompendola): «Aspetta… Ti ho dato forse una risposta?»

    Musa (avvicinandosi di nuovo): «Che pungiglione potente è l’invidia! Ma smettiamola una volta per tutte. Vuoi cingere la fronte pensosa e calva con l’aureola della gloria?»

    Uomo: «E dell’immortalità.»

    Musa: «Della fama, vorrai dire. Ti ho già avvertito che il mio potere termina là dove comincia quello della morte. Vuoi, infine, essere mio?»

    Uomo: «Tuo! Tuo! Mi chiedi molto. Ma, bene, sarò tuo. Ispirami, musa sconosciuta che abiti queste strane regioni a cui finora non era mai giunto il pensiero umano; ispirami affinché possa cantare in questo nuovo stile che si esige da me, che si attende ardentemente, ma che nessuno conosce.»

    Musa: «No, non si tratta di cantare…»

    Uomo: «Ti prendi gioco di me un’altra volta?»

    Musa (cambiando tono): «Tu, figlio mio adorato, che ho scelto per lanciare sull’umanità il grido supremo, ascoltami con attenzione profonda e docile. Non è più Omero, il cui debole mormorio dei suoi lontani accenti si confonde con le onde blu del mare della Grecia; non è più Virgilio, il cui eco soave col passare degli anni diventa più sordo e freddo, più lento e incomprensibile, come un gemito che muore; non sono più Calderón, né Herrera, né Garcilaso, le cui ombre, quando la chiara luna si nasconde tra le nuvole lattiginose e diffonde sulla terra una luce confusa, vagano fuori dalle accademie e dai teatri, cercando invano qualche traccia dei passati trionfi. Il suo nome non risuona in loro, il rumore dei vecchi applausi si è spento per sempre e l’unica cosa che è loro concessa è vedere uscire dalle porte strette i nipoti dei loro nipoti che, elogiando senza consapevolezza parole vuote e aborti frutti di ingegni rachitici, gettano sulle venerabili tombe degli illustri nonni una nuova cappa di oblio. Allora, piene di vergogna, le nobili ombre desiderano fuggire e nascondersi nel fondo impenetrabile dell’eternità; ma il mondo, ferocemente crudele con i morti, quando percepisce attraverso la notte i loro vaghi profili, grida: Siete già passati! e va oltre. Questo è ciò che resta del passato.»

    Uomo: «Senza dubbio, musa! Quando vivi in alto quello che qui sotto è giorno purissimo e luminoso ti appare come una notte tenebrosa. No, per noi né Garcilaso, né Calderón, né Herrera, né nessuno dei nostri bravi poeti moriranno mai, né Omero, né Virgilio smetteranno di esistere finché sulla terra vivranno cuori sensibili.»

    Musa: «Come mi chiedi quindi nuova ispirazione, se nelle loro opere puoi trovare tutte le fonti possibili? Se il mondo è soddisfatto di ciò che possiede, se nessuna delle ombre illustri ha perso il proprio antico dominio sulla terra, né è scomparsa la loro memoria, per quale ragione mi hai detto: Ispirami, musa sconosciuta, affinché possa cantare in questo nuovo stile che si esige da me, che si attende ardentemente, ma che nessuno conosce?»

    Uomo: «Amare il nuovo non significa disprezzare il vecchio.»

    Musa: «Non si disprezza, ma si dimentica, non appaga più le esigenze degli esseri scontenti… non è sufficiente a soddisfarle.»

    Uomo: «Cos’è sufficiente, quindi? Questo è il segreto che mi devi rivelare. Forse Cervantes?»

    Musa: «L’uomo contiene dentro di sé una certa sostanza, sempre disposta a impregnarsi con piacere nello scherzo, che un grande genio bagnò con la salsa amara e piccante della sua profonda tristezza.»

    Uomo: «Questa è l’unica volta in cui ti ho sentito parlare in maniera ragionevole. È un buon punto di partenza. Cercami un cavaliere, anche se rivestito di un’eleganza nuova e moderna, che somigli a Don Chisciotte, e non un hidalgo, dato che non ne esistono più…»

    Musa: «E i cavalieri esistono?»

    Uomo: «Domanda offensiva! Se non della Mancia, di Madrid; se non di Madrid, di Cuenca; e anche se fosse un imbroglione andaluso, un furfante galiziano o un avaro catalano, se ti sembra che vada bene, lo accetterò di buon grado.»

    Musa: «Volgi lo sguardo a sud.»

    Uomo (pieno di stupore): «Cosa mi indichi con la tua mano bianca e coperta di segni che sbuca dalla nebbia che ti avvolge? Non si tratta forse del cinico Diogene che porta una lanterna accesa in pieno giorno per cercare un uomo?»

    Musa: «Si tratta proprio di lui.»

    Uomo: «E che cosa credi di fare mostrandomi questa terribile visione?»

    Musa: «Allo stesso modo in cui Diogene cercava un uomo, dovrei cercare un cavaliere, a meno che questo cavaliere, come lo intendo io, non sia tu.»

    Uomo: «Io… che dici?»

    Musa: «Un uomo esausto, di quelli che oggigiorno corrono e vivono e trionfano nel mondo; forse tra questi potrebbero essercene peggiori di te; migliori, nessuno.»

    Uomo: «Incominci a farmi sorgere gravi dubbi, creatura diabolica, e mi pento di averti invocato. Sei volubile e maleducata e mai, per dirla tutta, ha popolato i sogni di qualcuno un essere della tua specie più insolente e malizioso di te.»

    Musa: «Per darti una severa lezione di filosofia, di una filosofia lucida e solida, di cui porto sempre con me la giusta dose, non farò caso alle tue parole. Mi degnerò unicamente di aggiungere che faresti meglio a interrogarti con una mano sul cuore e poi dirmi, se ti è possibile, chi sono i tuoi genitori.»

    Uomo: «Vuoi abbassarti un pochino così te lo dico all’orecchio?»

    Musa (scoppiando in una sonora risata): «Era lui; lo era e noi dicevamo di no.»

    Uomo: «Stravagante musa, a cui ben volentieri farei sapere come fanno male i pugni dati da un debole mortale, dove vuoi arrivare con queste farneticazioni?»

    Musa: «Alla ferita che emana sempre sangue nel tuo cuore o, meglio, nel tuo orgoglio.»

    Uomo: «E non hai pensato che ti darò le spalle e che disgraziatamente ti lascerò andare?»

    Musa: «Ormai è tardi, mio discepolo, perché tu possa abbandonarmi senza dolore. Posseggo quella ricchezza agrodolce propria delle donne che non sono belle e che si chiama bellezza del diavolo; così anche quando in un eccesso di malumore mi disprezzerai, tornerai da me, stanne certo.»

    Uomo: «Esagerata! E per quale motivo dovrei tornare da te? Per il tuo modo di parlare così maleducato e diabolico da tormentare l’udito?»

    Musa: «Mi vuoi dire che non c’è niente di me che ti piaccia? È normale; ma almeno non puoi togliermi il dono di aver saputo indovinare la tua storia e di aver letto nel tuo cuore.»

    Uomo: «Se si tratta soltanto della mia storia e del mio cuore, puoi risparmiare parole inutili perché sono perfettamente al corrente di tutto.»

    Musa: «Hai dimenticato molto di ciò che dovresti ricordare e non immagini che io, in modo del tutto simile alle persone oziose, mi occupo di queste cose tanto per passare il tempo. Ogni vita nuova richiede una confessione sincera delle colpe passate e, poiché non hai ancora preso in esame la tua coscienza, con generosità ti libererò da questo compito così gravoso. Inoltre, è necessario che tu ti veda così come sei e che conosca perfettamente te stesso, senza questa circostanza crederesti di valere più di quanto vali, e per paura di scendere non muoveresti un passo lungo il difficile sentiero che ti attende.»

    Uomo: «Perché tu non creda che le minacce di un essere come te mi facciano paura, ti ascolterò ancora per qualche momento, ma non qui: se la gente sentisse le tue parole, si scandalizzerebbe.»

    Musa: «Andiamo allora, cortigiano prudente, nel bosco vicino, dove per consolazione tua e felicità mia ci sentiranno soltanto i lupi e le volpi che, se arrivassero a capirci, avrebbero la possibilità di imparare qualcosa sui tradimenti e le infamie degli uomini.»

    II

    Musa: «Ora che nessuno può scandalizzarsi per le mie parole, ti dirò che chi ha il cuore ferito non deve provare orrore per le colpe dei suoi simili, né temere di essere contaminato da loro quando piuttosto potrebbe essere lui a contaminarli.»

    Uomo: «Il mio cuore è senza macchia e, grazie al cielo, non ho bisogno dei tuoi consigli. Per quale motivo ti avrò cercato se sono già quello che desidero essere?»

    Musa: «Menti! Prima di tutto, desideravi nascere principe e provieni da una famiglia qualunque.»

    Uomo: «Sciocca! Credi che per me conti di più il sangue dei principi del mio e che non mi vanti della mia umile origine?»

    Musa: «Nessuno deve vantarsi o vergognarsi di queste cose, che sono, come si dice, un puro caso; ma la verità non è questa. Quando la tua vanità ferita lo richiede, ostenti le tue oscure origini, certo, ma in fondo al tuo cuore è conficcata questa verità, come una spina appuntita, e non riesci a ricordare senza arrossire che hai dovuto indossare la livrea di coloro che si chiamano signori per assomigliare a loro. Come se un uomo non fosse uguale a un altro!»

    Uomo: «Che dici? Le proprie origini non distinguono né nobilitano, ma l’uomo sa distinguersi e nobilitarsi rispetto agli altri.»

    Musa: «Mostrateci come

    Uomo: «Vorresti per caso paragonarmi a quegli stolti che mi passano accanto rotolandosi nel fango come le bestie? E il ricco e il nobile che non sanno fare altro che mangiare e spendere senza moderazione ciò che il diavolo accumula nelle loro casse, saranno mai all’altezza del poeta e del saggio la cui esistenza viene impiegata per il bene dell’umanità?»

    Musa: «Come sei monotono! Il cuore dell’uomo è un mistero che solo Dio comprende e potrò soltanto dirti che il saggio e il poeta, come lo stolto, il nobile e il ricco egoista credono di valere tanto quanto o più del resto degli uomini. Stare a discutere su chi abbia o no ragione è complicato quanto inutile.»

    Uomo: «Musa senza senno… Se ciò che dici fosse vero, da molto tempo avrei rinnegato me stesso. Uno stupido non può essere stato fatto a somiglianza di Dio, ed è impossibile che io sembri tale.»

    Musa: «Orgoglio e vanità! E cosa sei tu se non miseria e polvere come gli altri? Tu, che ti definisci genio e grande uomo e che aspiri all’immortalità! Un poco di talento, coraggio e ambizione colossale, ecco qui le assi poderose sulle quali hanno girato le ruote della tua fortuna…»

    Uomo: «Il piedistallo della mia fortuna è stato il lavoro; la costanza e l’intelligenza lo scanno che mi ha innalzato sopra coloro che mi sono inferiori.»

    Musa: «Il tuo lavoro… bolle di sapone per qualcuno, e la tua intelligenza lo stesso.»

    Uomo: «L’invidia posa sempre il suo sguardo in alto!»

    Musa: «La presunzione vede ovunque lodi e sguardi avidi, superba creatura… Di che cosa puoi essere orgoglioso? Di aver scritto pomposi articoli pieni del più puro amore per l’umanità e di aver mostrato la tua bravura lanciando anatemi contro i nemici della patria, ossia contro i più deboli che per la tua brama di gloria non potranno essere ricordati per il proprio valore? È stato così che issandoti a poco a poco sulle spalle dei deboli, ti sei eretto audacemente con la sicurezza e la gravità di un uomo che non dipende da nessuno e che deve tutto al proprio talento. Quando infine sei arrivato alla vetta dorata dove la gente contro e a favore passeggia senza vergogna, compagna inopportuna del vano onore che è stato abbandonato come oggetto inutile sull’ultimo gradino della scala magica, hai dato gomitate ai potenti, hai allungato con semplicità e abnegazione il mignolo al disgraziato che ti aveva fatto da sgabello (questo per non passare da ingrato), hai giocato con le loro Eccellenze (che Dio ci aiuti) il salario di un anno, che hai perso, ma perdendolo il tuo orgoglio ne ha giovato poiché certe duchesse ti hanno parlato all’orecchio, e con solo cinquemila real, incomprensibile meraviglia, hai girato il mondo, riposando poi, oltremare, su una terra vergine, nelle Antille, dove i fortunati rinfrescano la fronte arsa dal calore del clima nelle acque di fiumi che scorrono lungo argini d’oro. Quando poi, dopo aver conosciuto perfettamente la politica, l’estetica, la fisiologia, la mineralogia e le usanze straniere, sei tornato generosamente in patria (prima del viaggio sfoggiavi una bellissima capigliatura che non faceva trapelare i tuoi profondi pensieri), hai fatto la tua comparsa in parlamento con la testa calva e lucida come la buccia di un limone acerbo e hai interrogato i ministri con quell’estro comico che dà tanto valore alle parole più vuote, hai insultato gli avversari; e i tuoi vecchi amici vedendoti finalmente uomo, perché non può smettere di esserlo colui che ha visto scorrere lungo argini d’oro gli sterminati fiumi del nuovo mondo, hanno esclamato dal profondo del cuore: Ci dispiace molto, amatissimo compagno, di non averti potuto precedere, ma aspettiamo fervidamente un’occasione favorevole per spodestarti dal tuo fragile trono. In tutto questo sfarzo e questo splendore, il cibo con cui i tuoi bravi genitori ti avevano cresciuto, rendendoti paffuto e in buona salute, era un ricordo lontano, come ormai svanito: prendendo lucciole per lanterne, hai creduto di essere stato tu a costruire la tua fortuna quando la fortuna aveva costruito te, e già stufo delle vittorie che altri ottenevano a imitazione tua, lanciandoti lungo il cammino che avevano scelto, in quel momento hai esclamato: Cos’ho fatto e, infine, cosa sono? Deputato e ministro… Eppure non ho accarezzato il frutto dell’albero proibito! Ma forse soltanto la speranza degli avvocatucci petulanti e di tutti coloro che hanno diritto di comandare perché comandano. Pigmei agguantano il frutto nascosto e ministri e deputati salgono e scendono da posizioni di potere, in questi tempi felici, come salgono e scendono nella pentola le fave che non hanno finito di cuocere. E che angosce, che lotte, che disastri quando la patria o gli imitatori, allo stesso modo in cui il maestro corregge il bambino picchiandolo, correggono il deputato e il ministro… obbligandolo a rassegnare le dimissioni, in maniera elegante, certo, ma con la frusta! No, nessuno di questi trionfi, meschini come la loro origine, lascia una vera traccia di gloria dietro di sé: quasi sempre è stato il potere il recinto delle dorate mediocrità e il bazar degli onori che si conquistano d’assalto, e niente di tutto ciò si confà a uno spirito intraprendente come il mio, i cui trionfi non dovrebbero temere rivali nel mondo. Ricco e milionario, non voglio seguire i sentieri già battuti della vita, ma dare inizio a qualche opera sconosciuta che riempia di stupore l’Europa, che mi ricopra di gloria imperitura… ma cosa posso fare? Oh, scriverei volentieri un libro e lo stamperei con lettere d’oro, ma se ne scrivono tanti… E di cosa parlerei in questo libro? Chi lo leggerebbe? E anche se qualcuno lo leggesse, ne ricorderebbero il contenuto il giorno dopo? Che pazzia! Chi ricorda qualcosa di più oltre sé stesso? E, tuttavia, questa è la mia illusione più amata, il mio sogno di sempre!.

    Abbattuto, hai rivolto lo sguardo verso le antiche muse e hai capito di essere perduto. Non restava più nulla di nuovo! L’ispirazione, quella dea che tempo prima si manifestava ad alcuni eletti, i soli degni di ricevere le ispirazioni celesti, correva lungo le viuzze senza uscita, rifugio degli ubriachi, e passeggiava al braccio di qualche barbiere o dei sergenti che sanno scrivere bene. Poesie, drammi, commedie, storie universali e individuali, storie indovinate e intuite, indotte e dedotte, romanzi civilizzatori, economici, seri, sentimentali, cavallereschi, di buoni e cattivi costumi, colorati e blu, neri e bianchi… e infine di tutti i generi, di diverso tipo, facile e difficile, avevi visto opere di forme stupefacenti e aspirazioni colossali. Cosa ti restava da fare in quell’inferno senza uscita, nel mezzo di quello straripamento incommensurabile dove nessuno rende giustizia a nessuno e nel quale i più ignoranti e i più sciocchi, i più coraggiosi e i più miserabili vogliono essere i primi? Per questo motivo mi hai chiamato, perché non puoi abbandonarmi neanche quando metti in risalto il tuo vano orgoglio e racconti a te stesso verità tanto amare, per questo motivo mi cercherai sempre, perché senza di me sarai uno dei tanti e niente di più.»

    Uomo: «Oh, musa! Quali bugie, quali verità e quali impertinenze ha appena pronunciato la tua bocca, che non so se è stata disegnata con l’inchiostro o con il rossetto! Hai parlato a tuo piacimento… Vivi così in alto! E io sono qui prostrato dallo sconforto e dallo stupore. Se il passato è un sogno, il presente è caos e confusione, e la gloria del mondo non è niente per colui che ha attraversato la soglia dell’eternità, cosa mi resta? In te, dove serbavo la mia ultima speranza, non trovo altro che disinganno, presunzione e malizia, il che aumenta la mia pena, perché anche se la mia esistenza è stata come quella di tanti, apparenza e fango, e ho girato il mondo con pochi denari e ho voluto farmi calvo – un vezzo eccessivo e nient’altro – in fondo amo ardentemente la poesia, amo la giustizia e l’onore con tutta la forza del cuore e non trovo nulla di ciò in te. Sarai forse, o musa, un nuovo Mefistofele dalla piuma di gallo e le unghie ritorte?»

    Musa: «Il diavolo? Che scempiaggine! Non è forse vero che l’immortale Béranguer ha cantato molto allegramente: È morto il diavolo, il diavolo è morto?. Ecco perché, senza dubbio, da allora il mondo che aveva gioito della lieta notizia, ha deciso di offrirsi al progresso illimitato e al cambiamento continuo visto che non poteva più offrirsi al cavaliere con le

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