La rivoluzione del nostro tempo: Manifesto per un nuovo socialismo
Di Paolo Ciofi
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Anteprima del libro
La rivoluzione del nostro tempo - Paolo Ciofi
1915
Introduzione
Siamo immersi in una formazione economico-sociale dominante ma decadente, percorsa da contraddizioni distruttive. Il sistema perde efficienza, la produzione ristagna, il pianeta degrada, la disoccupazione e la precarietà si diffondono, la povertà si estende, e milioni di persone muoiono di stenti e di fame nel mondo. I rischi di una guerra nucleare crescono. Sono segnali drammatici che ci indicano uno stato di fatto di enorme portata: siamo entrati nella fase decadente di un sistema, cui corrisponde la fine del dominio degli Stati Uniti nel mondo. La crisi in cui viviamo non è solo economica, è la crisi generale di un’intera formazione storica. Sono in gioco la libertà e l’uguaglianza degli esseri umani, l’esistenza stessa del pianeta, pur in presenza di una rivoluzione scientifica e tecnologica che consentirebbe di avanzare sulla via di una nuova, più elevata civiltà. E l’Italia sta dentro questo processo a cui si sommano antiche arretratezze.
Il dato che più colpisce è lo smisurato aumento delle disuguaglianze: tra i diversi Paesi, al loro interno e tra le classi sociali. Ma non si tratta di una temporanea asimmetria
del sistema. È stato dimostrato, dati alla mano, che nell’assetto sociale dominante uscito vittorioso dalla guerra fredda con i Paesi del cosiddetto «socialismo reale» le disuguaglianze non sono un retaggio del passato, bensì un fattore costitutivo del meccanismo di funzionamento del sistema. E perciò continueranno a crescere nel futuro con effetti devastanti sulla vita delle persone e sull’intero ambiente naturale.
Una domanda non si può evitare. Che senso hanno in queste condizioni l’uguaglianza e la libertà per l’operaio di fabbrica e per il dipendente dalla piattaforma digitale, licenziati via internet e buttati sulla strada come scarti dall’algoritmo impostato sui criteri del massimo profitto? Che senso hanno per la massa dei giovani precari senza reddito e senza prospettive nella vita; per le lavoratrici e i lavoratori cognitivi, della ricerca e dell’informazione, sempre più instabili e sottoposti al nuovo taylorismo della rete; per gli addetti ai servizi pubblici e privati e alla catena agroalimentare, spesso non contrattualizzati e stretti tra bassi salari e assenza di tutele?
E per le donne, che patiscono a causa della doppia oppressione di classe e di genere, del doppio o triplo lavoro tra casa, fabbrica, ufficio e famiglia? Per i pensionati, che quando possono aiutano i nipoti e spesso tirano a campare con pensioni da fame; per fasce crescenti di ceto medio impoverito delle professioni autonome; per tutti quei nuovi poveri, uomini e donne, che sono aumentati a vista d’occhio, e che incontri sempre più spesso nelle strade e nelle piazze delle nostre città. E per i migranti, costretti a fuggire dalle guerre, dalla povertà e dalla fame, dalla rapina e dalla desertificazione sempre più ampia dei loro territori. Che senso hanno per tutti costoro le parole uguaglianza e libertà?
Evidentemente per loro, vale a dire per la parte di gran lunga preponderante di chi calpesta il suolo dell’Italia, ma anche dell’Europa e del mondo, le parole uguaglianza e libertà hanno senso se cambia radicalmente il senso della vita. Ma ciò non è possibile se non si lotta per rovesciare i rapporti sociali esistenti. Serve un processo di trasformazione della società che cambi alla radice i rapporti tra gli esseri umani, piegando l’economia ai bisogni delle donne e degli uomini del nostro tempo. In poche parole serve una rivoluzione. Non una rivolta, non una sommossa delle plebi, non un’insurrezione che occupi un Palazzo d’Inverno che non c’è, ma una rivoluzione sociale e politica nel senso gramsciano e moderno del termine.
Rivoluzione. Usiamola questa parola, tiriamola fuori dalla discarica della storia in cui hanno tentato di seppellirla i tecnocrati al servizio dei proprietari universali e dei loro «serbatoi del pensiero», i reazionari e i benpensanti, e anche i rifomisti (non i riformatori) di ogni specie. Di fronte a una rivoluzione scientifica e tecnologica in atto che con il digitale ha cambiato e continua a cambiare i modi di lavorare e di vivere, i vari riformismi praticati in questi anni si sono posti in difesa della conservazione dei rapporti sociali esistenti, portandoci allo stato di instabilità, di insicurezza e di pericolo in cui vive il mondo di oggi. Mentre la libertà e l’uguaglianza hanno assunto con le piattaforme digitali contenuti ed espressioni inedite rispetto al passato, che reclamano non l’aggiustamento del sistema bensì il suo superamento, una civiltà superiore.
Dunque, c’è bisogno di una rivoluzione e di un nuovo inizio per cambiare lo stato delle cose. E se il problema oggi è dare impulso a una nuova stagione di uguaglianza e libertà, la Costituzione della Repubblica italiana indica il percorso. È l’unica Costituzione europea che consente, attraverso la sua attuazione, di aprire la strada a un civiltà più avanzata, a un nuovo socialismo.
I. La dittatura del capitale e la crisi del mondo
1. L’estrazione dei profitti dagli esseri umani e dalla natura
Cominciamo col dare un senso alle parole. Nonostante la ricerca di fantasiose e accattivanti denominazioni volte a occultarne la natura, la società in cui viviamo ha un nome che la definisce con chiarezza: si chiama capitalismo. Capitalismo perché è il capitale che dà a questa formazione economico-sociale il soffio della vita, ed è il propulsore che la spinge e la diffonde nel mondo. Ma cos’è il capitale? La domanda ci porta ai fondamenti, e proprio per questo è quanto mai attuale. È una cosa? Un insieme di merci, di macchinari e di materie prime? Un algoritmo? Un accumulo di titoli e mezzi finanziari ben nascosti nei paradisi fiscali con un semplice click?
Prima di tutto – come ha messo in chiaro Karl Marx al cui pensiero bisogna tornare per avviare un nuovo inizio – il capitale è un rapporto sociale ben definito e storicamente determinato, fondato sulla divisione degli esseri umani in due classi contrapposte: tra chi è proprietario dei mezzi di produzione, di comunicazione e di scambio che usa per ottenere un profitto e chi è proprietario delle proprie abilità fisiche e intellettuali, la forza-lavoro che vende in cambio dei mezzi per vivere. Lo sfruttamento di esseri umani da parte di altri esseri umani sulla base di determinati rapporti di proprietà è dunque la sua caratteristica inconfondibile.
Questo è il fondamento della società in cui viviamo. Un dato di realtà confermato da un intero percorso storico durante il quale il capitale si è mostrato con sembianze diversificate e imprevedibili, e il capitalismo ha subìto continue mutazioni ma sempre fondandosi sullo sfruttamento del lavoro, che a sua volta ha assunto forme mai uguali e se stesse. Nella «immane raccolta di merci» che caratterizza il modo di produzione capitalistico nella fase della rivoluzione digitale, la merce forza-lavoro non è stata cancellata, al contrario si è generalmente diffusa. Una merce particolare, il cui uso in cambio dei mezzi per vivere genera per chi la compra un valore superiore al suo costo, un plusvalore determinato dal lavoro non pagato. È il cuore del capitale, poiché il plusvalore misura il grado di sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, da cui hanno origine il profitto e l’accumulazione capitalistica.
Lo sfruttamento umano, quindi, non è un’anomalia o una asimmetria
del capitalismo degenere del nostro tempo, come sostengono alcuni economisti liberal e anche coraggiosi esploratori ed esploratrici delle forme più aberranti di precarietà e di disoccupazione che ci propongono un ritorno al passato, bensì la condizione di normale esistenza e riproduzione del capitale, ovviamente in forme diverse e di diversa intensità che nella sostanza dipendono dai rapporti di forza tra le parti. Deve essere però chiaro che senza il lavoro da sfruttare il capitale cesserebbe di esistere. E senza le lavoratrici e i lavoratori che generano plusvalore il capitalismo sarebbe condannato a morte certa.
Ma, osserva Marx, «il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza». Se consideriamo la «ricchezza reale», vale a dire i beni d’uso necessari al soddisfacimento dei bisogni umani, allora ci accorgiamo che la natura è la fonte di tale ricchezza effettiva «altrettanto quanto il lavoro». Anche per questa ragione va salvaguardata e tramandata ai posteri migliorata, evitandone la privatizzazione che sarebbe una vera assurdità, «come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo». Per altro verso, essendo il lavoro un processo