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Terra e dissenso: voci in movimento
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Terra e dissenso: voci in movimento

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About this ebook

Un viaggio dalla Valsusa al Salento per conoscere da vicino alcuni dei movimenti popolari che si oppongono alle cosiddette "grandi opere". 
Come si vive presidiando? Quali sono i nomi, i volti e le storie di chi anima la resistenza civile? Che direzioni prende il rapporto tra i cittadini e lo Stato? Cosa succede quando si mettono a confronto progresso, quotidianità e tradizione?
Un reportage che non solo presenta le ragioni dei comitati, ma si propone anche di analizzarne gli aspetti sociali di contorno: si inizia manifestando insieme e spontaneamente per evitare la devastazione del territorio e si finisce per riscoprirsi "comunità", riunendosi attorno al fuoco e trovando nel dialogo una forza quasi rivoluzionaria, capace di far condividere incertezze, dissensi e prospettive. 
 
LanguageItaliano
Release dateMay 6, 2018
ISBN9788885491502
Terra e dissenso: voci in movimento

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    Terra e dissenso - Matthias Canapini

    TERRA E DISSENSO

    voci in movimento

    Matthias Canapini

    Copyright © 201x, Prospero Editore, Novate Milanese (MI)

    Prima edizione: maggio 2018

    ISBN: 978-88-85-49150-2

    ISBN cartaceo: 978-88-98-41911-1

    www.prosperoeditore.com

    info@prosperoeditore.com

    www.facebook.com/ProsperoEditore

    Collana: Prospero romanzi

    Direttore: Riccardo Burgazzi

    Grafica di copertina: Francesco Ravara

    Immagine di copertina: Matthias Canapini

    Illusteazione: Jacopo Belloni

    Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali.

    Questo eBook contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito senza l'autorizzazione dell'editore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce una violazione dei diritti dell'editore e degli autori (legge 633/1941 e successive modifiche).

    PREFAZIONE

     Ho conosciuto Matthias al presidio del Comitato No Tap di San Foca, in Puglia, in un giorno caldo del giugno 2017. L’incontro non poteva avvenire in un luogo più naturale per la geografia di vita di entrambi. Ero nella zona per presentare un libro che racconta storie di donne militanti, e una mia amica, una compagna, una donna resistente che ha scelto di difendere con determinazione la sua terra, mi ha voluto portare nel cantiere deserto, nel luogo in cui al gasdotto ci si oppone, in quella spiaggia e quel mare limpido che saranno feriti da un’opera grande quanto dannosa. Era una situazione tranquilla, di riposo. Poche persone a mantenere il presidio in vista dei momenti più caldi. Ci siamo seduti in tondo a parlare di quella che a volte viene sminuita come la battaglia per la salvezza di un pugno di ulivi, ma in realtà è resistenza per la difesa di territori dalla devastazione, dall’inquinamento e dalla speculazione di opere dispendiose, progettate mettendo in primo piano gli interessi economici, a discapito dell’utilità e della vita delle popolazioni.

     Troppo veloce è stato quel mio passaggio al presidio e in alcune delle altre realtà di lotta descritte nel libro. Nulla a che vedere con i lunghi pellegrinaggi di Matthias, con i suoi appunti di un viaggio fra le piccole cose, fra le vite di persone che nella lotta e negli obiettivi comuni rafforzano anche la gioia della condivisione. Mi rendo conto che soste così fugaci portano l’attenzione soprattutto sugli eventi. Le lotte, la repressione. I contenuti, certo, che spingono intere popolazioni a contrastare l’invasione delle proprie terre. Senza però riuscire a vivere quel caleidoscopio di sensazioni che si può provare solo «stando in cerchio attorno ai fuochi disobbedienti», condividendo una quotidianità fatta anche di pasti, nottate, zanzare e scomodità. Quando un piatto di pasta caldo in alcuni momenti arriva a rinvigorire stomaco e allegria. Realtà dove, nell’epoca delle virtualità, età, culture, vissuti diversi si incontrano mettendo in gioco i loro corpi nella resistenza.

     Una storia in movimento e nei movimenti, quella descritta da Matthias, che dalla Val di Susa, la lotta più lunga e conosciuta, si sposta in altre resistenze. Con un’incursione nelle comunità che nel 1963 hanno vissuto la tragedia del Vajont. Una delle tante stragi provocate dalla speculazione e dal profitto.

     Una storia che ribalta, con la concretezza dei fatti, gli stereotipi diffusi di chi afferma che oggi si vive nell’individualismo del «si salvi chi può». Mostrandoci un mondo altro, variegato, fatto di volti e colori, dubbi, paure e vittorie. «Si parte e si torna insieme» ci insegna il movimento No Tav quando rivendica collettivamente anche le azioni più criminalizzate. È importante che questa parola d’ordine diventi patrimonio di tutte le lotte sociali e popolari, che ci sia solidarietà, che coloro che vengono colpiti dalle misure repressive non si sentano soli. Perché si possa marciare avanti verso battaglie sempre più incisive. Cercando di creare una rete tra le tante piccole lotte, che sempre più nella crisi si diffondono e si radicalizzano, con rivendicazioni legittime che vanno però a scontrarsi con la legalità di un modo di produzione basato sulla disuguaglianza e l’oppressione. Il confine è sottile. Negli ultimi anni la devastazione di interi territori in nome del profitto, la mancanza di case, lavoro, il generale peggioramento delle condizioni di vita ha portato a una nuova effervescenza sociale, spingendo sul terreno della lotta settori popolari più vasti, a fianco ai militanti politici. Lavoratori, cittadini che si oppongono a discariche, basi militari, grandi opere, iniziative fasciste, migranti, disoccupati, occupanti di case si sono trovati a fare i conti con pestaggi, denunce, fogli di via, misure restrittive, o con nuove forme subdole quali le multe pecuniarie, volte a indebolire il sostegno popolare ai movimenti. Diffondere la conoscenza di queste lotte, delle loro ragioni, difendere la legittimità di quelle pratiche che sono bersaglio di provvedimenti repressivi può rafforzare elementi di resistenza utili al proseguimento delle lotte.

     Salvaguardare l’azione dal basso, anche nelle forme di opposizione più dura, è una potente forza di cambiamento. Conoscere le storie di persone concrete rafforza il concetto che un mondo più giusto sia necessario, ma anche possibile. In un’epoca in cui tutto si velocizza, Matthias ci guida in una riscoperta di ritmi più lenti. Che sicuramente ci regalano una maggiore consapevolezza.

     Paola Staccioli

     A tutte e tutti coloro che siederanno ancora intorno al fuoco.

    INTRODUZIONE

     L’umanità riesce ad avere la meglio sulle paure del nostro tempo? Balcani, Caucaso, Vajont, Est Europa, Siria, Turchia, Valsusa, poi l’Estremo Oriente, vagando senza pace, cercando nella polvere della strada le risposte in grado di lenire o appagare questo dubbio interiore. In questi stessi giorni, ma durante il rigido novembre di due anni fa, tornando da un Nepal sconquassato dal terremoto, mi ritrovai a Idomeni, confine greco-macedone, pronto per condividere passi e frontiere insieme a un paio di famiglie afghane in cammino da Kabul a Berlino, con la forza di chi non aveva più nulla da perdere. Zharmal, ventinove anni, mi condusse su stradine dissestate e binari arrugginiti, seguendo ciò che all’epoca era al centro delle cronache: la rotta dei migranti. Tenendo in braccio la piccola Fareeha e per mano Negaynah, la moglie di nove anni più giovane, mi raccontò la sua folle prigionia sotto le mani fanatiche di Daesh. Cosi fu. In un bar burrascoso di Trieste, mi ritrovai poi a tirar le somme di questo peregrinare. Cercai per mesi ulteriori risposte, seguendo in sordina la saggezza dei contadini e gli insegnamenti dei nonni, perdendomi nella colonna vertebrale d’Italia, smarrendo la bussola tra i boschi degli Appennini.

     Già all’epoca frequentavo da anni la Valsusa per raccontare e capire il popolo resistente e solidale dei No Tav, in lotta contro un treno certo, ma anche contro il malaffare e la disinformazione cronica, riscoprendosi comunità passo dopo passo. Decisi di tornare più volte in quella valle, cara e ostinata, frequentando attivisti generosi e montanari taciturni, evitando volutamente le grandi manifestazioni o le giornate di scontri, proprio per raccontare e dar maggior valore a quella quotidianità perennemente in lotta, inesistente per le masse. Gli autoctoni, additati come facinorosi e violenti, d’incanto, diventarono i legittimi difensori delle proprie montagne, strappando alla retorica mediatica il termine terrorista, parola ampliamente abusata per etichettare da sempre chiunque alzi la testa. Seguii il messaggio profetico di una litania popolare urlata più volte dalle barricate No Tav: La Valsusa paura non ne ha. Allora fui colto dalla certezza che in alcuni angoli del mondo, lontani dai riflettori, la gente non ha più voglia di avere paura, di campare con l’ansia addosso, di abbassare la testa e mormorare tanto va cosi, di gettare odio insensato su chi ci sta a fianco cercando capri espiatori che esorcizzino il violento disagio tipico dei nostri tempi. Persone che non vedono più differenza tra colori di pelle e luoghi di nascita; che festeggiano l’arrivo di un forestiero anziché temerlo; che intuiscono che solo agendo insieme le cose possono sperare di cambiare; che non vogliono vendere il proprio futuro, ma amano e difendono la propria terra. Ho ricominciato da qui, da coloro che autogestendosi, rispolverando l’antico rito della condivisione, con la rabbia di una comunità pacifica ma in rivolta, hanno detto no a un’opera inutile, dannosa e imposta, combattendo contro una piovra assassina, padrona di un business che vuole tutto subito, indifferente al destino di chi verrà dopo. Ciò, con la consapevolezza che le risposte al cambiamento non sono da cercare solamente all’interno delle proteste popolari. Ma sicuramente, queste comunità ci ricordano ogni giorno quanto sia giusto, dignitoso e necessario ribellarsi, a volte, per redimere la nostra fiacca società. 

     La strada non è semplice, sia chiaro. Litigi e divisioni attraversano quasi sempre i movimenti popolari. In questo mondo la cosa spaventosa è che ognuno ha le sue ragioni, sosteneva Jean Renoir. Dopo la Valsusa, ho continuato a viaggiare. A sud soprattutto: Niscemi e la base militare americana Muos e le campagne salentine prostrate dal Tap. E anche a nord, verso la diga del Vajont. Ho percorso queste tappe in più occasioni, dunque il cammino qui narrato non corrisponde al resoconto di un unico viaggio, bensì di più viaggi realizzati tra agosto 2012 e ottobre 2017. Rileggendo gli appunti presi, seppur frammentati, forse superficiali rispetto al capitolo Valsusa, ho voluto comunque inserire quest’ultimi passaggi nel libro, da principio nato per raccontare esclusivamente il movimento No Tav. L’intento è comunque lo stesso: senza schierarsi politicamente, raccontare chi formicola dietro alcune proteste, chi anima realmente i comitati cittadini di cui sentiamo parlare distrattamente in TV solamente quando volano bastonate e lacrimogeni; riordinare gli stralci di testimonianze raccolte, passare in rassegna gli incontri, riportare a galla le quotidianità stravolte dalle grandi opere, riaccese con la fiamma del dissenso popolare. Il mio è un semplice invito a vedere coi propri occhi e assaporare il forte spirito di coesione nato in queste lande. Farsi magari una scampagnata sulle pendici del Roccia Melone e ritagliarsi poi un’oretta per visitare il presidio-roccaforte di Venaus. O farsi un bagno nelle acque azzurre di Santa Foca e poi spingersi qualche centinaio di metri in direzione della pineta per mangiare una focaccia nel presidio di San Basilio. Troverete Marco, studente liceale. Bruno, pensionato. Gianmarco, operaio edile. Daniele, apicoltore. Sabrina, disoccupata. 

     Spesso mi chiedo se dialogare o raccontare storie a chi la pensa come te sia un’operazione autoreferenziale. La vera sfida sarebbe arrivare dove le menti spente fluttuano nell’indifferenza. Arrivare ad avere un confronto con coloro che, anestetizzati da una informazione faziosa e censurata, prendono per vere le bugie opportunistiche della televisione. Chiedo un favore a chi legge: se conoscete le questioni di cui parlerò, fate il possibile per portarle in luoghi estranei. Condividiamole fuori dai soliti circuiti sensibili che già conosciamo, cerchiamo di arrivare altrove. Chissà se qualcuno, inaspettatamente, penserà che Bruno possa essere suo nonno e che forse l’informazione non sempre offre un buon servizio.

     Siamo inglobati in un sistema che ci inebetisce e che ci lascia in uno stato di subbuglio mentale, col preciso scopo di non farci notare che una minoranza di potenti stia divorando il mondo a scapito della maggioranza, che solitamente non ha mezzi per difendersi. Dietro conflitti armati, bandiere e i movimenti migratori c’è spesso quel raccapricciante accaparramento delle ultime risorse planetarie. Ultimamente siamo così anestetizzati e lontani dalla natura, asfissiati dalla tecnologia, da non mettere più a fuoco il pericolo. Guerre e cemento, veleni e povertà. Infine, credo che ogni luogo abbia la sua rivoluzione. Se chiudo gli occhi, nelle giornate silenziose d’autunno che sanno di foglia umida e lombrico, la avverto in maniera fortissima. Avverto una rivoluzione silenziosa che sta pulsando dal basso, la rivoluzione di chi ama la propria terra e crede in un futuro basato prima di tutto sul rispetto della natura e degli esseri umani. Sarebbe bello destinare gli stessi soldi spesi per le grandi opere a ospedali e scuole, per l’arte e la cultura, per piantare alberi e ripopolare borghi in pietra ormai vuoti: ne risulterebbe una società in cui il benessere dell’individuo primeggia sul guadagno. Un individuo che abbia la libertà di costruirsi una vita dignitosa, un individuo che a fine mese non impari l’arte della sopravvivenza ma abbia spazio e tempo per sognare e vivere. 

     Novembre 2017

    NO TAV – PRIMO QUADERNO

    Ora come allora

     Vagare. Un’orda coloratissima di africani pasciuti inonda la banchina numero tre della stazione di Voghera. Farfallini, cravatte, giacchette con rombi variopinti, copricapi perlinati, tacchi altissimi e un filo di rossetto sulle labbra carnose delle donne color ebano. I bambini scendono le scale in cemento due gradini per volta, facendo stampare un sorriso bianchissimo sul volto dei padri rimasti quindici passi indietro. Ancora qualche minuto e l’eroico regionale rotolerà verso Alessandria, dimenticandosi in un lampo la caparbietà delle campagne emiliane, rimaste incollate ai lati della ferrovia per tre buone ore e qualche minuto, scuotendo sterpaglie e caselli vuoti. Cinque regionali per percorrere cinquecento quarantacinque chilometri, per un totale di sette ore di viaggio. Un percorso su rotaia paziente, lento, esauriente, che parte da Fano, fiancheggia l’Adriatico fino alle porte di Pesaro e poi si infila dentro vigne e canneti, canali d’acqua e collinette pendenti come il coperchio di un pentolone. Non ricordo quante volte, negli ultimi anni, abbia optato per questo calvario serpentesco fatto di tonfi, sferragliamenti e gli onnipresenti ritardi. Ricordo solo la graduale scomparsa dei mitici convogli che collegavano Piacenza a Torino, surclassati man mano dai rapidi. Spocchiosi treni superveloci contro locomotive scricchiolanti quanto la schiena di un facchino. Tempo al tempo. Il regionale odora di popolo. La rete di ferro è di tutti, ancorata alla terra che solletica. Mantiene quella sgangherata effervescenza che i super treni non hanno mai avuto. Troppo silenziosi, troppo curati, a tratti simili a quei salotti borghesi dove per prendere parola devi tintinnare la forchetta sul fianco del bicchiere in vetro cristallino, con il mignolo alzato a mezz’asta. No, grazie. Se possibile, meglio i cigolii pazzi, i finestrini apribili nel caso qualcuno della direzione avviasse una musichetta eccessivamente fastidiosa e le sfuriate caciarone tipiche del treno lento. Le bestie metalliche dell’alta velocità continuano a mordere l’Appennino, frustando tratturi e monasteri, sottraendo ossigeno alla circolazione delle linee minori. Chissà dove sono finiti gli ultimi macchinisti sottopagati con la faccia cosparsa di fuliggine? Nel sedile a fianco è seduto un uomo bizzarro con la faccia da topo: due incisivi giallognoli emergono prepotentemente dal labbro superiore. Dà uno sguardo all’esterno, sbuffa, poi getta fuori il rancore che lo attanaglia: Sai ragazzo, tra le tante manovre di questa sporca politica italiana ci sono da considerare anche i tagli ai treni per pendolari. Lentamente, come il viaggio che stiamo affrontando, scompaiono a poco a poco i macinini che abbiamo sotto al sedere. Non solo saremo costretti a spendere più soldi per spostarci, ma molte zone, compreso il mio paesino natale, rimarranno senza collegamenti diretti, privati persino del trasporto su ferrovia. L’uomo topo, che scoprirò chiamarsi Eusebio, indossa due orologi identici per polso, forse per accertarsi non una, ma quattro volte, dell’effettiva lentezza del nostro vascello destinato alla deriva. Indifferenti al paesaggio sono invece due bambine, ammaestrate dalle luci fluorescenti dei telefonini. I grandi chiacchierano, senza sapere con precisione quando né dove scendere. Nelle stazioncine si alternano video ansiogeni al plasma, bar sostituiti spesso con supermercati traboccanti di frutta lucida dal gusto di polistirolo. Il costo di un’orinata si aggira attorno agli 80 centesimi e penso che sarebbe bello rimpiazzare le macchinette vendi-pattume con paninari allegri e dalle mani agili. Un tramezzino fresco con pomodoro e mozzarella chiederebbero i pendolari, risparmiandosi l’alienazione futurista del non luogo. Subito risponderebbe il cuciniere, affettando bufale e cuor di bue. Fuori e a bordo, un’Italia omologata che corre affannosa, mangia un boccone e crolla poi distrutta sui sedili azzurri dell’RV. Una larga curva e la città magica ci accoglie sfacciata,

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