Brivido all'italiana. Tempo di massacro
By Franco Enna
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Brivido all'italiana. Tempo di massacro - Franco Enna
2018
TEMPO DI MASSACRO
I
Non mi sembrava vero di essere solo, senza la masnada dei miei nove agenti attorno, senza telefoni che mi svegliassero di soprassalto mentre sognavo di essere un americano qualunque e non uno tra i più quotati investigatori privati d’America; solo, a bordo di un transatlantico, fra centinaia di sconosciuti eleganti e spendaccioni; senza pensieri, con una riserva considerevole di sonno e di risate da smaltire. La mia più fedele compagna era una panciuta bottiglia di whisky scozzese che Jeps, il cameriere che sorvegliava la mia cabina e il mio portafogli, aveva il compito di non lasciare mai vuota.
Ah, il mare! L’ho sempre adorato, specialmente dal ponte di una nave di lusso, con tante donnine attorno, carine, eleganti, molto scollate.
Era la prima vacanza che mi concedevo, dopo la smobilitazione, cioè dopo otto anni e rotti di lavoro serrato, instancabile, snervante, che mi aveva portato a capo di una tra le più importanti agenzie di investigazioni private degli Stati Uniti, è vero, ma che mi aveva anche spezzato i nervi e le ossa, senza tener conto delle due cicatrici che mi adornano il torace, ricordo di Bill Valdivian, il brasiliano.
Non potevo lamentarmi di Leslie Colina, cioè di me stesso: non avevo nulla da rimproverargli, e questo era moltissimo.
La mia prima vacanza, dicevo, due mesi tutti interi che mi ripromettevo di trascorrere in Italia, sì, perché ho sempre avuto un debole per questa terra, e particolarmente per la Sicilia, dove sono nato trentatré anni or sono. Fu precisamente a Palma di Montechiaro, in provincia di Agrigento, un paesino lungo come un budello d’affamato, con vecchie case di qua e di là e con brava gente che lavora sodo. A quei tempi, quando cioè venni al mondo, mio padre aveva una botteguccia di ciabattino che gli permetteva a stento di non far morire di fame la moglie e ben tredici figli, tutti sani, forti e dotati di uno stomaco di struzzo. Io ero il tredicesimo, per questo avrei potuto chiamarmi Tredicino, come nella favola della nonna. Invece mio padre mi appioppò un nome ostrogoto: Gaspare. Un nome come un altro, direte voi. D’accordo, ma a me non va giù. Per questo, quando mio padre si trasferì a Baltimora, e quindi a Los Angeles, dove divenne il calzolaio di fiducia di tutte le case produttrici cinematografiche di Hollywood, mi attribuii il nome di Leslie, ma dovetti menare le mani per imporlo alla gente.
A Los Angeles mio padre possiede una catena di negozi di calzature e un laboratorio che sono noti in tutta l’America. Del suo successo, tanto lui quanto la sua numerosa prole debbono essere riconoscenti a Greta Garbo. La deliziosa inimitabile diva dello schermo fu la prima a valorizzare il modesto ciabattino di Palma di Montechiaro, acquistando un paio di scarpette eccentriche ma belline (non è vero che Greta Garbo abbia i piedi esageratamente grandi, afferma il mio genitore: le sue estremità sono perfettamente proporzionate alla sua corporatura). A quell’epoca Greta stava girando il film Margherita Gauthier con Bob Taylor¹. Ricordo bene questo particolare perché Bob, quella volta, si fermò davanti al negozio ad aspettare la diva che provava le scarpe nell’interno. Mia sorella Caterina, senza sapere chi fosse, lo invitò a entrare e lui accondiscese sorridendo, anche perché Caterina allora era una bella figliola.
Il modello di Sante Colina piacque moltissimo a Hollywood, e pochi giorni dopo molti altri divi di ambo i sessi vennero a trovare mio padre, il quale in quell'occasione scoprì di essere dotato di una fantasia veramente straordinaria in fatto di modelli di scarpe. Di lì ebbe inizio l’ascesa del povero ciabattino siciliano.
Naturalmente quella non era la prima volta che tornavo in Italia. C'ero stato durante la guerra, col grado di tenente. Mentre mi trovavo in Sicilia, nella piana di Catania, alle prese con i tedeschi, ebbi l’occasione di fare un salto a Palma di Montechiaro. Non trovai che due vecchi zii. I ragazzi erano sotto le armi, le ragazze si erano sposate: una tristezza, a vedere quel deserto, e tante distruzioni!...
Ma ora sarebbe stato certamente diverso. I miei parenti mi avrebbero visto con gioia, e forse non mi avrebbero riconosciuto. Mi avrebbero chiesto: E Santino? E Peppe? E Nunziata?
. Avrebbero fatto l’appello dei parenti lontani. Dopo tanto, avrei parlato ancora siciliano (da quando avevo messo su casa per conto mio, avevo perduto quell’abitudine che nella casa paterna costituiva una tradizione). Masticavo bene l'italiano, si capisce, ma il siciliano lo parlavo correttamente: il dialetto della mia terra mi era rimasto nel sangue.
Il mare s’incupiva man mano che il sole scendeva all’orizzonte. Eravamo alla fine di luglio, e il venticello che soffiava sul ponte piaceva. Da tre giorni ci trovavamo sull’oceano e gli alisei non ci avevano dato fastidio, il che mi aveva messo in uno stato di euforia. Il mare agitato mi rende di pessimo umore, anche se non mi fa star male fisicamente.
Il transatlantico era affollato, come sempre nella buona stagione, mi aveva detto Jeps. Nel salone da pranzo erano stati aggiunti dei tavoli a due posti che, se non altro, avevano il pregio di lasciare in disparte chi preferiva non fare conoscenze. Io ero uno di quelli, nel senso che mi piaceva ascoltare, osservare, ma senza essere seccato. Volevo fare i miei comodi fino all'esagerazione.
Il commensale che con deferente sollecitudine mi era stato assegnato dal direttore di sala era un giovanotto simpatico, biondo, con gli occhi celesti e i buffetti all'inglese. Poteva avere la mia età, più o meno, ed era americano. Si chiamava Dwight Dempsey, mi aveva informato il signor Grant, il direttore di sala, il quale ci aveva messo a nostro agio con una presentazione rapida e garbata. Mi ero ripromesso di non andare oltre le comuni cortesie d’occasione, col signor Dempsey, e tenni questa linea di condotta fino al secondo giorno di navigazione. Ma non si può stare seduti a un tavolo a mangiare con le ginocchia contro quelle dell’unico commensale senza rivolgergli la parola, tanto più se si tratta di una persona simpatica e gentile. Una partita a ping-pong, vinta naturalmente da lui, e una buona nuotata nella piscina di bordo avevano sancito la nostra conoscenza, ponendo entrambi sulla strada dell'amicizia. Non avevo da lamentarmi di quell’incontro. Dempsey era il compagno di viaggio ideale, discreto, gentile, un po’ malinconico, ma non pessimista, con quel briciolo di ingenuità che si riscontra nelle persone romantiche, qualunque sia la loro età. Lo trovavo invariabilmente sulla passeggiata scoperta, intento a contemplare trasognato l’oceano, con la pipa tra i denti.
Il terzo giorno di navigazione avevo dormito tutto il pomeriggio nella mia cabina, cullato dagli schiocchi delle onde contro lo scafo. Forse avevo alzato un po’ il gomito a colazione, ma stavo benissimo.
Fu Jeps a svegliarmi, impeccabile nella sua giacca bianca, la grassa faccia sorridente.
«Oh, mi scusi!» esclamò vedendomi a letto. «Credevo che fosse sul ponte. Ero venuto a cambiare la panciuta.»
Sorrise, intanto che agitava la bottiglia di whisky scozzese che teneva in mano. Gli feci segno di darmene un bicchiere, mentre mi alzavo per andare a rinfrescarmi sotto la doccia. Ero sudato dalla testa ai piedi, nonostante il ventilatore.
«Jeps, che fanno al cinema, stasera?»
«Un bel film, signor Colina...» Sporse un braccio nello stanzino della doccia e mi passò un bicchiere pieno a metà di liquore. Poiché avevo azionato la doccia, vi lasciai cadere un po’ d’acqua e lo vuotai. Jeps, intanto, stava dicendo: «Il titolo è: Addio, signora Miniver.²»
«Ah, con Greer Garson! Un bel film, l’ho visto. Lo rivedrò con piacere... Quanto manca per il pranzo?»
«Meno di un’ora, signor Colina.»
«Grazie, Jeps. Arrivederci.»
Mi vestii in fretta, bevvi un altro bicchiere di whisky allungato con soda e salii sul ponte. Il sole sembrava tagliato a metà dalla immensa lama dell’oceano, e l’acqua ne era tutta infiammata.
Alcune belle ragazze stavano rincorrendosi sul ponte. Ridevano a squarciagola, il che sembrava non dar fastidio agli altri passeggeri. Una delle ragazze, una bionda formidabile, mi urtò in malo modo. Si fermò mortificata, si scusò in un inglese malsicuro ma corretto, mi elargì un sorriso sgargiante, poi corse via con le compagne. Nei pochi secondi che si era fermata di fronte a me, avevo potuto vedere che aveva gli occhi neri ed espressivi, e a me piacciono tanto gli occhi neri ed espressivi delle bionde formidabili, come vado matto per gli occhi verdi delle brune formidabili.
Dopo un po’ mi avviai lentamente verso il salone da pranzo. Dempsey mi aveva preceduto al nostro piccolo tavolo e stava porgendo qualcosa che mi parve una banconota al direttore di sala. Il signor Grant ringraziò con un inchino dignitoso, poi si accorse di me e mi affidò alle cure di un cameriere allampanato e sorridente.
«Che programma ha stasera?», mi domandò Dempsey.
«Non so, forse andrò al cinema.»
Dempsey sbatté le palpebre.
«C’è un buon film?»
«Dolcissimo: La signora Miniver, o qualcosa di simile...»
Dempsey sollevò la faccia e mi guardò con un pallido sorriso.
«L'ho visto» disse «e mi ha turbato molto. Greer Garson è una donna adorabile e un’attrice eccezionale. Walter Pidgeon è un partner ideale. Formano una coppia alla quale si deve voler bene per forza.»
«È vero» dissi mentre mi servivo di antipasto. Lo guardai perché mi aveva colpito il tono che aveva usato: triste, quasi tormentato. Molto probabilmente Dwight Dempsey era un sentimentale. Soggiunsi: «Ho visto anch’io quel film, in Italia, durante la guerra. Il nostro governo inviava alle sue truppe la migliore produzione di Hollywood... Almeno, credo che sia stato in Italia...»
Dempsey si illuminò.
«Ha fatto la guerra in Italia?» mi chiese eccitato.
«Sì. Ero ufficiale nel 181° reggimento fanteria.»
«E io nel 182°». Allora ha operato in Sicilia?
«Sì, poi fin su, nella Foresta Nera.»
«Anch’io, santo cielo! Allora siamo stati certamente vicini. Ma guarda il caso! Quest’incontro deve essere festeggiato! Posso chiamarla per nome?... Leslie, mi pare. Sei di origine italiana, se non sbaglio.»
«Infatti.»
«Molto probabilmente ci saremo incontrati in quella baraonda. Ne sono sicuro. Lo dicevo che la tua faccia non mi era nuova. E abbiamo avuto lo stesso tavolo!»
Si mise a ridere come un ragazzo intanto che mi passava una manata sopra la spalla.
«Allora non portavi i baffi, immagino» dissi.
«Me li sono lasciati crescere al mio ritorno in America... Del 181° conoscevo il capitano Clements, Harry Clements.»
«Ma è mio amico!» esclamai. «Un ragazzo ciarliero e giovialone che è una fortuna avere per compagno d’armi... Abita a Little Rock.»
«Sì, sì, nell’Arkansas.»
Facemmo sturare una bottiglia di spumante e brindammo al nostro incontro. Dwight volle fare un secondo brindisi alla salute di Greer Garson. L’idea mi fece sorridere.
«Il fatto che questa sera si proietti un film con Greer Garson» disse Dwight «per me è più di una coincidenza.»
«Perché?»
Dwight mi guardò a lungo prima di rispondere.
«Amo una ragazza che somiglia a Greer» disse infine. «È italiana.»
«Ah!»
«Si chiama Livia... Allora era sfollata a Ronciglione, ma ora abita a Roma. Ti dispiace se ti parlo di lei? Tu che sei di origine italiana, e che, quindi, conosci i tuoi conterranei meglio di me, forse potrai darmi qualche consiglio utile...»
Scossi il capo per fargli capire che non mi dispiaceva, poi riempii il bicchiere.
II
Mi porse la fotografia della sua ragazza con un gesto di romantica ansietà. Vidi un faccino grazioso, una bocca un tantino larga, gli zigomi pronunciati, gli occhi grandi, le sopracciglia perfettamente arcuate: una bella ragazza. La somiglianza con Greer Garson c’era più nella fantasia di Dwight che nella realtà. Una mano piuttosto pesante aveva vergato una dedica: "A Dwigt appassionatamente". Aveva dimenticato l’acca.
«Carina» commentai restituendogli la fotografia. «Quanti anni ha?»
«Ventotto, mese più mese meno...»
«Ne dimostra diciotto» osservai.
Dwight sorrise mentre riponeva la fotografia nel portafogli con geloso rispetto.
«Sì, è molto giovanile, vero?» disse. «Forse troppo...»
S'interruppe per fissarmi. Nel suo sguardo mi parve di leggere un turbamento profondo.
«Che vuoi dire?» chiesi.
«Non so, non so!» esclamò Dwight tormentato. «Ma ascoltami, per piacere, e non spazientirti... Conobbi Livia verso la fine del quarantaquattro, a Ronciglione, sul lago di Vico.»
«Dove si trova?»
«Tra Roma e Viterbo, un paesino tranquillo, anche se la guerra non lo ha risparmiato. Notai subilo la sua somiglianza con Greer Garson e glielo dissi, forse per trovare la scusa di parlarle. Si capiva che era una ragazza di buona famiglia. Doveva essere parente del parroco del luogo. Da quella volta ci vedemmo spesso, per qualche tempo. Io mi trovavo a Vetralla col mio distaccamento. Poi dovetti partire per Pisa, e mi parve di impazzire. Sei mai stato innamorato, Leslie?»
«Non credo. Qualche fiammata, ma niente di più.»
«Be’, forse potrai