Se le notti all'inferno
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About this ebook
Un romanzo nichilista, di antiformazione, incentrato sul tema del cambiamento. Traendo lezione dal filone esistenzialista della letteratura italiana, un disincantato viaggio tra le rovine sociali e morali dell’attualità.
Daniele Vacchino è nato a Vercelli nel 1982. Nel 2016, ha pubblicato il libro di poesie Deriva (Montag Edizioni) e il thriller La mantide (Il Foglio Letterario). Nel 2017, è uscito il noir I balordi di Tulear (Eretica Edizioni) e il thriller Ritualis, le cerimonie del Mostro di Firenze (Il Foglio Letterario). Le raccolte di poesie L’inarrestabile ascesa del lavoro e La solitudine del rito, scritte con Bruno Vacchino e Davide Rosso, sono scaricabili su lulu.com.
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Se le notti all'inferno - Daniele Vacchino
Daniele Vacchino
Se le notti all’inferno
Daniele Vacchino
Se le notti all’inferno
©Editrice GDS
Via Pozzo 34
Vaprio d’Adda-MI
www.gdsedizioni.it
TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI
Ogni riferimento descritto in questo romanzo a cose, luoghi persone o altro sono da ritenersi del tutto casuale.
Agosto, la tua luce dorata
di un impero in smantellamento
è il tramonto senza volti, lento
per silenzi, di una via lastricata.
Edera che scende dal cielo, il vento
non è più l’alito ambrato di luglio,
streghe in ghisa, appaiono in subbuglio
le nubi, scendono senza un lamento.
Rientrare a casa, serrare le inferriate,
già lontane paiono le sere sul litorale…
"E il bacio alla straniera, quest’estate,
glielo desti?.
Ricordarlo mi fa male".
Presto è settembre: il cerchio insensato
degli impegni grigi, lisi fantasmi
avvolgono il tempo, addolorato;
dalla città si spandono i miasmi.
Ricorda quel bacio, se c’è stato,
i suoi occhi chiari, dietro le ciglia,
conserva l’estate e quella conchiglia;
chi non osa un bacio, non è mai nato.
Inizio dell’estate
E comunque, amici, voi siete persone che non sanno niente, e che non si salveranno mai.
Romolo Bugaro, La buona e brava gente della nazione
Proemio
Erano le sere odorose che si affacciano sull’estate: tiepidi corsi d’aria percorrevano le vie, lambivano le scalinate delle case e dilagavano nelle piazze. La primavera lasciava ancora a mezz’aria un sentore del suo profumo, ma presto veniva spazzata via dalla città, spostata alla periferia e rigettata sui ciglioni dei canali, dei fiumi, dei campi. Forse, sebbene nessun calendario ne recasse il segno, né alcun telegiornale ne avesse dato notizia, si trattava della prima comparsa dell’estate, chissà. A questo stavo pensando, mentre con la mia automobile percorrevo Viale Garibaldi e, seguendo il circuito di rotonde, scendevo fin verso Piazza del Duomo. Non credo che le altre persone che andavo incontrando si fossero accorte del cambiamento in atto.
Alla fine di maggio, una nostra lontana conoscente dava ogni anno una serata danzante nella sua tenuta in collina. Festa danzante a cui, a dire il vero, accorreva ogni anno meno gente; ma io ero ormai un habitué e non ero capace di declinare l’invito. Quanto ai miei amici, per loro sarebbe stata una rimpatriata, data la loro lunga assenza dai soliti giri.
Il mio primo buon amico che passai a prendere era Ruggero Belicchi, inseparabile compagno della giovinezza e ora fresco separato trentacinquenne. Avevamo trascorso diversi anni senza vederci, ognuno spedito rapido come in una bolla sul rettilineo della propria esistenza.
Poi, complice la rottura prematura del suo matrimonio, il tempo mi aveva fatto nuovamente dono della sua compagnia.
In quei giorni, Ruggero si trovava a vivere ancora, in solitudine, nella casa che fu il suo nido d’amore, alla periferia di Milano.
Era un manager di una di queste grosse marche elettroniche, un ingegnere sulla via del successo, nonché un uomo che credeva profondamente nella laboriosità umana. La recente separazione prometteva di modificare radicalmente la sua visione del mondo, come avrete modo di scoprire.
Nonostante la moglie l’avesse abbandonato là, in quel bilocale carteggiato dalle foto felici dei loro felici viaggi, non aveva dismesso l’antica energia, né tanto meno il sorriso. Sapete, si sentiva in parte sollevato (anche se mai e poi mai si sarebbe sognato di ammetterlo a chicchessia), dato che la rottura con la consorte gli aveva mostrato il pertugio attraverso il quale poter fare quelle cose che, nella sua vita precedente, per timidezza o per ritrosia, sentiva di non aver vissuto adeguatamente.
Quando giunsi all’altezza della sua casa di famiglia, Ruggero si trovava già per strada, ad attendermi. Portava un soprabito blu, si era lasciato crescere la barba di tutta la settimana e i capelli neri che sfoggiava della lunghezza di un paggio erano pettinati dietro le orecchie. Era sceso per strada per sentire l’aria dell’estate, così mi disse quando rimisi in moto l’automobile. Prese a raccontarmi della sua settimana trascorsa, degli incontri con l’amministratore delegato e della sera in cui la sua ex moglie era tornata a prendersi il divano della sala (era mio mio
, così gli aveva detto, in quanto lo avevano pagato per quattro quinti i miei genitori
).
- Ah, quasi dimenticavo, - aggiunse distrattamente con la sua voce controllata - Simone ha detto che ci raggiunge direttamente sul posto.
- È in buona compagnia, per lo meno?
- Dobbiamo augurarcelo - mi sorrise.
Era un tipo calmo, equilibrato, con cui si poteva andare d’accordo. Il padre, lo aveva soprannominato Il sera-fico
: lo trovavo un appellativo adeguato.
Era stata una fortuna, mi trovavo a pensare mentre Ruggero mi raccontava nei dettagli dei breakfast meeting con quelli delle risorse umane, dei preventivi di vendita degli audiovisivi, di aperitivi di gala per il lancio dei nuovi prodotti in quella discoteca milanese tanto famosa di cui non m’importava nulla… Dicevo, era stata una fortuna che noi tre ci fossimo ritrovati proprio ora, come se le nostre tre giovinezze si fossero, tanti anni or sono, promesse un ricongiungimento. Non era facile, accordare tre esistenze che parevano ormai tanto lontane…
- Ma sì, ma sì - gli dicevo con un sorriso degno del migliore dei pirati.
E intanto lui passava in rassegna ogni avvenimento accaduto durante la settimana, ma a me non interessava assolutamente di nulla, fuorché del fatto che il mio grande amico di sempre si ritrovava, quasi per uno scherzo, lì con me, in quella sera in cui, dopo molto tempo, aveva fatto la sua comparsa l’estate.
1
La tenuta secentista che ospitava la serata danzante occupava il fianco scuro della collina e disponeva di ampi stanzoni con i soffitti che un tempo erano stati affrescati da pittori minori del Monferrato. Laddove secoli fa trovavano il proprio ricovero le suore penitenti di qualche congrega, o nel medesimo spazio in cui rincasava Rattazzi, d’Azeglio, o qualche altro signorotto del posto, alcuni potenti subwoofer erano stati posizionati, in cortile, e là, sotto il cielo, danzavano i ragazzi con una bottiglia di birra nella mano.
La padrona di casa, una nostra remota conoscente, ci venne incontro non appena varcammo il cancello in ferro battuto. Era dimagrita di una decina di chili e sulla fronte portava una fascia fucsia. Ci potevamo divertire, ci rassicurò, e subito ci fece comparire nelle mani i bicchierini. La padrona di casa era una delle ragazze più ricche del nord Italia, ma, nonostante ciò, le sue difficoltà nel reperire un fidanzato erano sotto gli occhi di tutti.
La sorella della nostra conoscente, invece, poteva vantare uno stuolo di corteggiatori. Rispetto alla sorella sfortuna, era più giovane di qualche anno ed era di una fattura sublime: elegante, affusolata, come l’avesse tratteggiata un pittore minore del cinquecento, secoli e secoli fa. Peccato che la sua vita trascorresse per larga parte in una clinica svizzera, nel tentativo di curarsi dall’anoressia.
- Elena è dei nostri? - Decisi di rompere immedia-tamente gli indugi, chiedendo sfacciatamente alla nostra conoscente notizie circa la sorella.
La padrona di casa ci fece capire che l’avremmo vista più avanti, nel corso della sera. Non mi accontentai per nulla di quella risposta ed elessi la ricerca della bella sorella a personale missione della serata.
In men che non si dica ci ritrovammo nel gorgo degli incontri con i conoscenti di sempre. Diverso tempo che non ci si vede
si poteva sentir provenire nella direzione di un paio di vecchie facce che avevano fermato Ruggero; e poi, Ingegnere, che piacere!
. Il mio amicone incastrava il collo nelle spalle e indossava la maschera, con inchini e sorrisi intortava quegli sconosciuti, imboniva le loro domande, portava al largo gli argomenti più scomodi.
Fui fermato anch’io da una mia vecchia compagna dei tempi del liceo, una tale… aa come si poteva chiamare? Mi chiedeva come stavo, ché, seppur sempre bene, un po’ sciupato mi vedeva, così diceva.
- Che lavoro facevi già…? - mi domandava. E vestiva una gonna in jeans che sarebbe potuta benissimo essere una tenda da indiani.
- Per la ricerca universitaria, alcune cosette... - mi inventai.
- Ah già. Ricordavo bene che eri laureato in economia. E la morosa? Ne avevi una molto giovane, una ragazza straniera, vero?
- Mah, sai… - Presi a guardare distratto in tutta un’altra direzione, scocciato.
Quella non cedette assolutamente. Lavorava per una di queste aziende informatiche e si occupava di logistica e stoccaggio da casa.
- Già, molto interessante - dicevo a casaccio le rare volte che prendeva fiato.
Intanto, i bicchierini avevano lasciato spazio ad altri bicchierini e l’alcol prese a circolare con forza nelle vene, dandomi l’energia per andare oltre quel fiume di inutili parole. E anche il mio buon amico rientrò