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Il villaggio troglodita
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Il villaggio troglodita

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Un lungo racconto autobiografico che prende inizio a Elat, il porto israeliano più meridionale sul Mar Rosso, dove alcuni ex-volontari dei kibbutzim lavorano alla giornata per sbarcare il lunario, dando allo stesso tempo corpo e vita a una comunità spontanea e assolutamente priva di strutture tra le grotte di alcune aride vallate, alla periferia della città. Da tale avvicinamento alla vita semplificata e primitiva imposta dal deserto, nasce nel protagonista il desiderio di allontanarsi dal clima troppo marcato di tensioni belliche che caratterizza il Medio Oriente, e matura presto l’idea di trasferirsi in India, nell’ipotetica convinzione di potersi ivi confrontare con un tipo di società più pacifica, nonché antitetica al modello sempre più esasperatamente meccanizzato dell’Occidente. Egli approda così dapprima a Cipro, per proseguire poi in una rapida carrellata attraverso una Turchia orientale non ancora toccata dal turismo, e bloccarsi infine in tale paese a causa di una epidemia di colera. L’accennare e descrivere esperienze fuori dal comune, quali un campo di quarantena, una micro-società di giovani baraccati nel deserto, due importanti città come Gerusalemme e Istanbul in stato di emergenza sanitaria, rinnovano e ravvivano il racconto fino al suo concludersi, senza dare assolutamente spazio all’invenzione e attenendosi invece rigorosamente al solo reale e vissuto. L’ironizzare infine su aspetti deleteri della società del tempo, ancora più salienti in quella di oggi, e in particolare con riguardo alla funzione dispotica e alienante di sport e televisione, fa parte integrante di tutta l’opera.

Giuliano Asti è originario del quartiere cinese di Milano. Ha lavorato su pescherecci islandesi nel Mare Artico come in miniere di malachite in Israele; ha fatto l’agricoltore in diverse parti del mondo e occasionalmente il disegnatore in studi tecnici. Ha pubblicato sillogi di poesie e volumi di storie di viaggio. Suona vari strumenti musicali proponendo vecchio jazz di New Orleans e i canti tradizionali della Louisiana, accompagnandosi con un ukulele o un banjo. Per il Gruppo Albatros ha pubblicato Dell’albero e la pietra. Viaggio in Medioriente (2009), La via dell’Oreb. Viaggio sul Monte Sinai (2012), Acquaforte Africana. Avventura al lago Ciad (2013), Il capitano norvegese. Storie di terra e di mare in Nord Europa (2015).
 
LanguageItaliano
Release dateMay 18, 2018
ISBN9788856789621
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    Il villaggio troglodita - Giuliano Asti

    eventi.

    Capitolo I

    Per il viaggiatore che fosse provenuto dal nord del Paese, attraverso il deserto del Negeb, le distese di sedimentazione salina della depressione del Mar Morto e lungo i duecento chilometri di aridità assoluta del Wadi Al Araba, Elat poteva quasi apparire una grande città, nonostante non fosse altro allora che un agglomerato di poche migliaia di persone, insediatesi in meno di venti anni sull’estremo lembo delle coste più settentrionali del Mar Rosso. E, anche se a prima vista essa si presentava come un piatto insieme di baracche e di case basse disposte intorno ad alcuni grandi viali, con una sua grande piazza sopraelevata che dava verso il mare, contornata da bazar e ristoranti, riusciva ad arrogarsi un’aria di una certa importanza.

    Avara a sua volta come il deserto in quanto ad alberi, quando si fosse arrivati d’estate e in pieno giorno mostrava un volto di città ostile e spietata sotto il sole, che non offriva alcuna ombra o refrigerio che all’interno delle abitazioni. Occasionalmente si sarebbe poi scoperta qua e là, in quei tratti verso la spiaggia risparmiati dagli impianti portuali, qualche acacia e qualche tamarisco, scampati miracolosamente all’impietoso avanzare freddo e geometrico dell’acciaio e del cemento; alla cui modernità ed efficienza Elat sembrava aver voluto dedicare perfino un monumento, sotto la forma di un edificio snello di una dozzina di piani che, confrontato al resto, appariva quasi un grattacielo.

    Per tentare forse di abbellirlo con dei tratti di vivente decoro, le autorità avevano quindi pensato di porre alla sua sommità un paio di sempre presenti e sempreverdi militari, che dal di sotto di una tettoia di frasche scrutavano senza sosta Akaba e le montagne che le stavano d’intorno con un potente cannocchiale. Città nemica quest’ultima, perfettamente visibile anche ad occhio nudo a una decina di chilometri più ad est lungo la costa giordana del golfo, dove verdeggiava tanto di palme in riva al mare da sembrare un miraggio.

    E del miraggio Akaba aveva senza dubbio in sé la caratteristica di non poter venir raggiunta, per cause ben più solide e materiali delle comuni illusioni ottiche causate dal muoversi dell’aria nel calore. Reticolati insuperabili, filo spinato, mine, torrette con postazioni militari pronte a far fuoco d’ambo i lati davano ivi inizio e corpo alla lunga linea di frontiera che, perdendosi nella lontananza tra le sabbie del deserto, puntava verso nord per segnare i confini territoriali tra Giordania e Israele.

    Nell’antichità in quel pur breve ed estremo tratto di costa del golfo, da sempre varco di passaggio quasi per chiunque dall’Africa avesse voluto raggiungere l’Arabia, erano sorti porti e città diverse. Ma dove sorgeva e sorge tuttora Elat, sembra che da tempi lontanissimi non vi fosse altro che un pozzo solitario, rinchiuso tra il deserto e il mare e contornato ad ovest da un susseguirsi irregolare di aride catene di montagne, basse e di un colore bruno rossastro. Paesaggio arcano che annunciava l’Oreb, nonché silente coro minerale ancora non intaccato irreparabilmente dalla corsa sfrenata alla mercificazione del Sinai, violenta azione di degrado della natura e della sua bellezza iniziata dapprima da parte degli Israeliani lungo la costa orientale della penisola e portata poi avanti dagli Egiziani e da investitori di capitali di ogni dove su ben più ampia scala. Triste destino che non risparmiò nemmeno il pozzo giusto accennato che, pur avendo dato da bere per millenni a viaggiatori, pastori, armenti, carovane di cammelli, viandanti, nomadi e pellegrini, col suo essersi ritrovato una ventina di anni prima in territorio israeliano, fu fatto sparire per sempre, probabilmente quale sacrificio senza macchia offerto in favore della costruenda nuova Elat, città fondata secondo i concetti urbanistici più moderni di quel tempo.

    E a nulla gli valse l’essersi trovato nel ristretto numero dei punti d’acqua della regione a disputarsi la probabilità di aver offerto da bere a Mosè, nonché l’opportunità di trovar moglie, quand’egli se ne era fuggito una prima volta lontano dal Faraone, dopo aver ucciso un egiziano. Anzi, e non saprei dire se proprio in ragione di tale ultimo efferato particolare storico, gli Israeliti del XX secolo avevano pensato di inviare presso tale pozzo una quindicina di ergastolani, con la proposta di mettere in piedi le prime strutture di una città in cambio del condono della pena. Compito portato a termine da parte di tutti loro, ad eccezione di uno solo che ne approfittò, e non saprei dire con che risultato, per squagliarsela da qualche parte nel deserto.

    E sotto un sole galeotto più che mai sorse rapidamente Elat, quale centro di raccolta particolarmente adatto ad accogliere quegli immigrati ebrei che provenivano da paesi come il Marocco, l’Algeria e la Tunisia. In maggior parte persone di già abituate a convivere con un caldo torrido e al limite col deserto, e che determinarono col loro affluire un miscuglio etnico e culturale sorprendente per l’Israele di allora: una città in cui si parlava quale idioma alloglotto il francese piuttosto che l’inglese, e dove la lingua ebraica aveva a sua volta imparato a convivere con quella araba senza porsi troppi problemi. Ma nonostante tale ultima particolarità, a nessun arabo della regione era permesso di accedervi liberamente, secondo una triste logica di esclusione di chi non fosse stato ebreo, occidentale o occidentalizzato. Una realtà che caratterizzava tutti i nuovi insediamenti in Israele e che, anche se invocata in ragione di alcune misure di sicurezza e di cert’altre norme di natura pratico-politico-sociale, religiosa e culturale, in altri paesi sarebbe stata messa senza esitazione in trista luce di natura discriminatoria, a dispetto di certe pagine dell’Antico Testamento, spesso impugnate durante la storia anche da parte dei popoli occidentali, con la pura finalità di dare una giustificazione divina al loro impossessarsi di territori altrui con metodi violenti, senza usare il minimo riguardo verso chi si fosse trovato là di già da lunghe e lunghe generazioni.

    E a tali stesse pericolose pagine, prese oltretutto in maniera letterale, come se non fossero passati nel frattempo ben tremilacinquecento anni di trasformazione storica e di pensiero dell’umanità, si erano richiamati molti ebrei del XX secolo per arrogarsi il diritto a ricostruirsi una nazione a spese di un altro popolo, che inizialmente si era dimostrato oltretutto generoso verso di loro, esprimendo solidarietà a quei Giudei che avevano cercato rifugio in Palestina per tentare di sfuggire alle persecuzioni. Ma, come se a dover pagare lo scotto delle barbarie subite dal popolo israelita in Germania fossero gli arabi del Medio Oriente piuttosto che i nazisti, molti ebrei immigrati non vedevano purtroppo alcuna ingiustizia nel trattare un altro popolo da sottoposto, se non addirittura come se esso esistesse principalmente come un problema.

    E in una tale realtà i quattordici ergastolani trovarono il perfetto habitat per dare corpo e vita a una città nuova, e per ricoprirne poi cariche pubbliche importanti, quale mezzo e segno di una loro completa riabilitazione agli occhi della comunità ebraica del paese.

    Questo è quanto si raccontava allora sulle origini di Elat, divenuta anche città sinonimo di una certa tolleranza galeotta, verso norme sia civili sia religiose, e particolarmente di quelle che tutelassero il lavoro. Essa era infatti il solo luogo in tutto Israele dove uno straniero avrebbe potuto lavorare in nero senza alcun problema. Particolare cromatico niente affatto trascurabile, poiché richiamava a sé molti di quei giovani che dalle parti più diverse dell’Europa e delle Americhe se ne erano venuti in Medio Oriente per sperimentare la vita del kibbutz e che, dopo un periodo di tempo più o meno lungo passato in tale tipo di società agricola e comunitaria realizzata al di fuori dell’uso del denaro, si trovasse nella necessità di guadagnarsi qualche soldo al fine di lasciare il paese o per provarsi a vivere altrimenti.

    E a mia volta uno tra i tanti, dopo aver passato sei mesi in un kibbutz sotto le alture del Golan e in riva al lago di Genezareth, ero disceso dal nord fino a Elat. Non tanto per cercare del lavoro, come piuttosto per allontanarmi dalla guerra che durante quegli ultimi mesi imperversava in maniera sempre più cruenta in quelle zone, sotto la forma di duelli di frontiera. Si combatteva infatti ormai quotidianamente a colpi di cannone lungo la maggior parte delle linee di confine di Israele, solo rumoroso linguaggio con cui Arabi e Israeliani sembrava riuscissero a scambiarsi di opinione in quel momento. E, dopo aver a mia volta sperimentata la sgradevole sensazione di sentir fischiare proiettili di artiglieria sopra il mio capo per almeno due o tre ore al giorno, ai miei occhi di fuggiasco Akaba e Elat, per quanto diversissime tra di loro, apparivano belle in ugual misura poiché non erano ancora divenute teatro di violenze, e sembravano entrambe appagate di dover vivere in uno stato di pace armata piuttosto che di combattimento aperto.

    Augurandomi che tale tregua potesse durare ancora a lungo, pur esule e solitario e giusto con un po’ di cibo, dell’acqua e del tabacco quale mio sostentamento, a conclusione di quella mia lunga fuga dalle zone di battaglia, mi ero infine rifugiato sul lembo più estremo a meridione di tutto il territorio di Israele, dove, pur bivaccando all’ombra di un esile tamerisco in riva al mare, mi sentivo in pace, libero e felice in maniera piena; e soprattutto lontano dall’incubo delle bombe, lontano da aviogetti, da mortai, cannoni e da eventuali missili vaganti, che avevano tuonato alle mie orecchie e alla mia anima troppo a lungo, troppo forte e troppo crudeli! E per contrasto mi sentivo tanto colmato dal vuoto e dal silenzio e dalla vista delle montagne aride e avare di vita che mi stavano di fronte, oltre le acque calme e cerulee del golfo, che non avvertivo il bisogno di null’altro che non fosse pace pura e assoluta.

    Bagnandomi inoltre spesso durante le ore più calde del giorno, non cessavo di estasiarmi della vista dei tanti e svariati pesci e dei coralli biancastri che abbellivano di forma e di colore i fondali marini di quell’estremo tratto settentrionale del Mar Rosso.

    Avvertendo oltretutto quasi come misteriosamente amica la presenza dei piccoli spada che se ne stavano immobili a fior d’acqua in attesa della preda, sentii ben presto rinascere dentro di me una forte sensazione di essenzialità della vita, affrancata del tutto dai tanti fantasmi della morte e della violenza, che la avevano fatta troppo soffrire ai piedi delle pur verdeggianti alture del Golan e ai confini della tanto popolosa Galilea.

    E la sola vita, nella sua forma più semplice e assoluta e quale mia unica grande compagna, bastava per rendermi felice e per non farmi sentire affatto solo in quella specie di mia strana e involontaria intrusione ed esilio nel mondo del puro minerale, in una realtà fatta di sole rocce e delle sole sabbie che mi cingevano da ogni lato e che, insieme alle acque del mare e ai suoi invisibili cloruri, sembrava quasi volesse e riuscisse a parlarmi di puro spirito, oltre la dimensione umana, animale e vegetale.

    Ma dopo tre giorni passati in maniera così distaccata dal resto del mondo, una volta giunto al termine delle mie limitate scorte alimentari, mi dovetti inevitabilmente avvicinare alla città per cercare del cibo e del lavoro. E sull’esempio dei piccoli spada che attendevano pazientemente i loro pasti mantenendosi a fior d’acqua sopra i fondali bassi del golfo, raggiunsi a mia volta un ristorante, situato però in terra ferma, che si chiamava guarda caso proprio The Red Sea Fish, ovvero Il Pesce del Mar Rosso.

    Esso si presentava come un edificio basso e quadrato, a un solo piano e isolato a un bivio tra le due principali vie di accesso alla città. E, pur poco lontano dal mare, invece che un bello specchio azzurro di acque, offriva alla vista una lunga e grigia staccionata che delimitava le aree di un piccolo aeroporto. Sul lato che dava verso l’incrocio fungeva anche da terrazza da caffè, di stile molto francese, con sedie e tavolini pigiati l’uno vicino all’altro e ombreggiati in parte da una tettoia e in parte da ombrelloni colorati. Unico riparo contro gli impietosi raggi del solleone offerto a una piccola folla eterogenea in quanto a nazionalità, lingue e costumi, nonché a stranezze di acconciature e di abbigliamento, rappresentata in maggior parte da volontari che provenivano dai kibbutzim del nord e che, mentre si sorseggiavano una bibita, attendevano che capitasse qualcuno a offrire loro una pur qualunque occupazione.

    L’ambiente era cordiale e marcato dallo stile hippy del tempo, a tinte spesso indiane, ma non mancavano persone dall’aspetto più comune. Come non mancavano tipi o personaggi astrusi che, insieme a della musica rock diffusa a tutto volume e a un dondolio di teste e di capelli lunghi che seguiva il ritmo sempre uguale delle più diverse canzoni, contribuivano a conferire al posto un carattere bizzarro. E non voglio dire che non fosse gradevole come ambiente! Non così la musica! Ciascuno incontrava ivi facilmente il suo pari, tanta era l’eterogeneità delle persone. Si faceva poi facilmente amicizia e ci si scambiavano reciprocamente informazioni sul viaggio e sul lavoro.

    Ma una volta giuntovi non ebbi nemmeno il tempo per sorprendermi né per prendermi un caffè, tanto più che non ne avevo i soldi, poiché si arrestò subito presso di me qualcuno alla guida di un camion per domandare l’opera di un paio di persone. Di lì a pochi minuti mi trovavo così in giro per gli angoli più diversi della città a scaricare cassette di bibite e di birra nei bar e nei ristoranti più disparati.

    Il giorno dopo mi capitò di dover fare da facchino per un falegname, andandomene su e giù oberato di infissi di porte e di finestre per le scale spesso anguste di alcune nuove palazzine sorte alla periferia della città, sport del tipo più degenere che quella sera seppe farmi apprezzare più che mai l’ora del riposo.

    Ritornandomene poi con regolarità al Red Sea Fish, mi ritrovai a fare i lavori di manovalanza più disparati, come impastare malta, trasportare pietre, o scavare lunghe trincee con la pala e col piccone in un suolo arido e compatto e sotto un sole cocente come non lo avevo mai sperimentato fino ad allora. Tutte attività durissime ed estremamente faticose che mi fecero comprendere il gran valore del Sabato, che imponeva un’inattività assoluta a tutti, e fortunatamente anche agli stranieri. E mentre risolvevo in tale maniera i miei problemi di natura economica, dovetti anche pensare a trovarmi una soluzione migliore come alloggio, onde riuscire a mantenere un ritmo di lavoro tanto pesante e serrato.

    Di lì a pochi giorni lasciai così la spiaggia dove mi ero accampato al momento del mio arrivo e mi trasferii verso l’entroterra, in una località chiamata Wadi Verde, parola araba, la prima, che sta a indicare quegli avvallamenti nel deserto che durante i temporali si trasformano in torrente per qualche ora o qualche

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